Jarhead non è un film contro la guerra e non pone interrogativi o giudizi sulle ragioni di un conflitto ancora attuale. Dopo “ American Beauty” ed “ Era mio padre”, Sam Mendes porta sullo schermo il romanzo autobiografico di Anthony Swofford sul periodo da questi trascorso nei marines.
Più che l ’argomentare “politico” , in realtà soltanto sfiorato con i continui riferimenti al petrolio, ciò che interessava maggiormente al regista era ritrarre un’altra generazione sconfitta da una guerra che in realtà non ha mai combattuto. Soldati per caso o per necessità, i marines protagonisti del film, dopo un addestramento degno di “Full metal Jacket” partono con bellicose aspettative per l’ Iraq che ha appena invaso il Kuwait.
Siamo al centro dell’operazione “ Desert Storm ” , guerra combattuta e vinta dal solo reparto aereo dell’ esercito americano che vide la fanteria fare da spettatrice.
Swofford, il protagonista, è un tiratore scelto. Arruolato perché il padre era un reduce del Vietnam, combatterà soltanto contro la noia del deserto e le proprie ansie. Firmerà liberatorie per ingerire farmaci che l’ avrebbe protetto dalle armi chimiche soltanto perchè la CNN non avrebbe mai parlato di marines uccisi dal gas
nervino. Eseguirà gli ordini più assurdi e privi di senso, non sparerà mai contro un nemico che resterà sempre invisibile ai suoi occhi.
Jarhead non è un film perfetto ma, per quanto girato a basso costo, è di imponente impatto visivo e sonoro. Ogni attore è proprio agio nel ruolo che interpreta, dai giovani Jake Gyllenhall e Peter Sarsgaard ai già premi oscar Jamie Foxx e Chris Cooper. Non saranno dimenticate facilmente le sequenze dei marines in marcia con lo sfondo dei pozzi petroliferi in fiamme e quella della strage nel deserto con tanto di cadaveri iracheni carbonizzati. La colonna sonora è da antologia. I Pubblic Enemy e i Naugthy By Nature sono i gruppi più suonati dai soldati nei loro raves nel deserto, Don’t Worry be Happy di Bob Mc Ferrin sottolinea lo stato emotivo del protagonista appena giunto al campo di addestramento, Get It On di Marc Bolan e i T Rex scandisce il ritmo adrenalinico dell’ inutile attesa per la battaglia.
I nostri eroi torneranno a casa dopo un anno e mezzo. Il loro amato paese avrà investito ingenti risorse economiche ed umane nella prima guerra trasmessa in diretta tv. Qualcuno di loro ritroverà la famiglia, altri perderanno la fidanzata, altri ancora moriranno lontani dalla guerra. “ Siamo ancora nel deserto” dirà Swofford sui titoli di coda nella consapevolezza di restare per sempre un Jarhead, la testa di un barattolo vuoto che può essere riempita d’ogni cosa, eseguire qualunque ordine per tornare nuovamente vuota.
E’ molto carica la prima parte dello script, scorre con toni sommessi la seconda. Non è da escludere che si tratti di una scelta ritmica e narrativa ben precisa . Probabilmente, Mendes voleva renderci pienamente partecipi della noia e del senso di frustrazione che attanaglia il protagonista ed i suoi commilitoni dopo una fase di preparazione che lasciava preludere a ben altro. Probabilmente sull’argomento si era già detto troppo in passato, si pensi a film come “Comma 22” e “ Mash”. Non c’è senso di cameratismo, non ci sono eroi, un altro mito americano che crolla dopo i cow boy di Brokeback Mountain.
Jarhead, pur non risparmiando colpi durissimi all’amministrazione Bush sembra prediligere la storia personale del protagonista, privo di un idea politica, espressione del “vuoto” della generazione americana nata negli anni 70.
E’ singolare comunque la scelta di Mendes di dissacrare importanti War Movie come “Il cacciatore” ed “ Apocalipse Now ”. Il primo si trasforma addirittura in un porno fatto in casa, il secondo viene citato con la famosa scena degli elicotteri e soprattutto per la colonna sonora. Jack Gyllenhall ascoltando una canzone dei Doors diffondersi nel deserto dirà : “ ma questa è la canzone della guerra in Vietnam, non c’è una canzone per la nostra guerra ? “
Francesco Sapone
Come la maggior parte dei Marine bravi e buoni, odiavo il Corpo. Odiavo essere un Marine perché più di ogni altra cosa al mondo volevo essere fico, famoso, sexy, arrapato, ubriaco, fottuto, strafatto, solo, famoso, fico, conosciuto, capito, amato, perdonato, arrapato, ubriaco, strafatto, fico, sexy. E invece ero soprattutto un Marine – un ‘jarhead’.
Jarhead
Nell’estate del 1990, il ventenne Anthony Swofford, soldato di terza generazione, viene mandato nel deserto dell’Arabia Saudita per combattere la prima Guerra del Golfo. I suoi ricordi di quel periodo e di quei luoghi hanno dato vita, nel 2003, al best-seller Jarhead (termine gergale per indicare i Marine), un libro scritto con la passione, l’immediatezza, la sincerità e l’umorismo di cui solo un testimone diretto avrebbe potuto mostrarsi capace.
Il romanzo di Swofford, per nove settimane nella classifica dei libri più venduti stilata dal New York Times, è stato salutato dalla prestigiosa testata come “una sorta di classico, un appassionante memoriale della Guerra del Golfo combattuta nel 1991, annoverabile tra i migliori libri che siano mai stati scritti sulla vita militare, un passaggio difficile per milioni di giovani qui tratteggiato con rara maestria”.
Michiko Kakutani del Times ha osservato che Jarhead è “una voce irriverente ma meditativa, che coglie il machismo tutto muscoli della cultura dei Marine, ma anche la solitudine esistenziale del combattente. Swofford descrive l’arte esatta e micidiale praticata dal cecchino […], il ritmo della noia e il terrore dell’attacco nemico, gli altissimi costi fisici e psicologici della guerra e i legami affettivi che uniscono i soldati”.
La storia che ci viene raccontata direttamente dalla bocca di un ragazzo, all’epoca appena ventenne, tratteggia un’immagine della guerra molto diversa da quella riportata sui giornali o alla televisione. Descrive pozzi petroliferi che sputano fiamme nella notte come comete precipitate sulla terra, soldati rissosi, arrapati e impolverati, eccitati e terrorizzati all’idea che dalla collina accanto possa partire da un momento all’altro l’attacco nemico, giovani catapultati all’improvviso in un territorio implacabile, reclute che cercano di distrarsi improvvisando una partita di pallone con le maschere antigas, che aspettano con ansia lettere e materiale porno, che organizzano scommesse su combattimenti tra scorpioni e bevono fino a consumarsi per festeggiare il Natale lontano dalle famiglie. Anche in questo contesto infernale, tuttavia, si sviluppano legami di solida amicizia, coraggiosa lealtà e cameratismo a tutta prova – una fratellanza tra “jarhead” che si sono giurati fedeltà eterna.
Il premio Oscar DOUGLAS WICK (Il gladiatore) e LUCY FISHER (Memoirs of a Geisha, prossimamente nelle sale), produttori della Red Wagon Entertainment, si sono affrettati ad acquistare i diritti del libro di Swofford e hanno incaricato lo sceneggiatore nonché ex-marine WILLIAM BROYLES, JR. (candidato all’Oscar per Apollo 13) di realizzarne un adattamento per il cinema. Hanno poi scelto di affidare la regia del progetto al premio Oscar SAM MENDES – che aveva già scavato sotto la tranquilla superficie della provincia statunitense in American Beauty ed esaminato l’intreccio tra legami familiare e violenza criminale in Era mio padre – ritenendolo l’unico in grado di portare Jarhead sul grande schermo.
Mendes e i realizzatori hanno quindi dato vita a JARHEAD, un film di guerra dal taglio completamente innovativo che racconta la realtà del conflitto attraverso gli occhi di un Marine – una sorta di “giovane Holden” mandato a combattere nel Golfo.
JAKE GYLLENHAAL (Brokeback Mountain, in uscita, e The Day After Tomorrow), a capo di un prestigioso cast corale, veste i panni del protagonista Tony “Swoff” Swofford, che da soldato di terza generazione con vaghe aspirazioni eroiche si trasforma in un veterano che conosce il vero costo della guerra. PETER SARSGAARD (Kinsey, L’inventore di favole) interpreta Troy, compagno di Swoff nella unità scelta di cecchini-ricognitori – un personaggio apparentemente imperturbabile che nasconde invece una natura impetuosa e volubile. Il premio Oscar JAMIE FOXX (Ray, Collateral) ricopre il ruolo del sergente di stato maggiore Sykes, un militare di carriera che con tenacia da mastino e un irriducibile nazionalismo comanda il Plotone sorveglianza e acquisizione obiettivi (SAO). Il premio Oscar CHRIS COOPER (Seabiscuit, Ladro di orchidee) interpreta invece il tenente colonnello Kazinski, ansioso di scatenare la sua macchina omicida contro un nemico sul quale può avere facilmente la meglio.
A collaborare con il regista Mendes dietro alla macchina da presa è stato un gruppo di stimati e pluripremiati realizzatori, tra cui il direttore della fotografia ROGER DEAKINS (cinque volte candidato all’Oscar per film quali L’uomo che non c’era e Le ali della libertà), lo scenografo DENNIS GASSNER (Era mio padre, premio Oscar per Bugsy), il montatore WALTER MURCH (premio Oscar per Il paziente inglese e Apocalypse Now) e il costumista ALBERT WOLSKY (premio Oscar per Bugsy e All That Jazz). La colonna sonora che accompagna le battaglie esterne e interne di Swofford è del compositore THOMAS NEWMAN, sette volte candidato all’Oscar (Era mio padre, American Beauty), e del supervisore alle musiche RANDALL POSTER (The Aviator, The School of Rock). SAM MERCER (Signs, The Sixth Sense – Il sesto senso) e BOBBY COHEN (Memoirs of a Geisha, Le regole della casa del sidro) hanno curato la produzione esecutiva del film. Il casting è di DEBRA ZANE (Traffic, American Beauty).
LA PRODUZIONE
Alla ricerca dei realizzatori
“Leggendo per la prima volta Jarhead, sono stato colpito dal fatto che la guerra fosse vista attraverso gli occhi di un individuo fuori dal comune, un individuo alla ricerca di se stesso. Sono rimasto profondamente affascinato dalla mistura di machismo, comicità, surrealismo e senso dell’ironia che caratterizzava la voce narrante” ricorda il regista Sam Mendes. “Jarhead mi è sembrato un libro di guerra sui generis, ed ero certo che anche il film che ne avremmo tratto lo sarebbe stato”.
“Ogni Marine, ogni plotone, ogni battaglione vive la stessa guerra in modo differente. A me interessava raccontare la vicenda personale del protagonista del libro, mostrando come l’esperienza al fronte avesse influenzato la sua vita”.
“Gli unici ricordi che abbiamo della Guerra del Golfo” continua Mendes, “sono le immagini nitide di piccole bombe che colpivano piccole città formato giocattolo prive di qualsiasi senso di umanità. Mi sembrava interessante cercare di cogliere il senso di quella guerra attraverso lo sguardo di una persona direttamente coinvolta. Swofford racconta la sua esperienza nel deserto saudita come farebbe Salinger, capovolgendo il senso di tutto ciò che è considerato normale”.
L’acclamato libro di Swofford sulla vita dei Marine nei primi anni Novanta era stato lodato per diversi aspetti, ma in particolare per la fastidiosa onestà e irriverenza con cui il narratore, un soldato di terza generazione (Swofford fu concepito nel 1969, durante una licenza di suo padre, impegnato nella guerra del Vietnam), osservava l’apparato di guerra da cui era circondato. Quelli descritti da Swofford non sono gli eroi dall’uniforme impeccabile che popolano l’immaginario collettivo, ma giovani reclute sudate in equipaggiamento da deserto, con la passione per la musica rock, una predilezione per la pornografia e una crescente e insoddisfatta sete di sangue. Addestrati per uccidere e poi dislocati in un luogo arido e inospitale, costretti a fare i conti con un nemico invisibile, questi giovani si abbandonano a rivalità personali e a comportamenti degenerati, nutrendo il più profondo disprezzo per chiunque, dagli ufficiali ai membri della popolazione che sono chiamati a liberare. La descrizione di questo ambiente ad alta densità di testosterone ci arriva appunto dalla bocca di un soldato che in un primo momento sembra più a suo agio con Camus che non con la dura realtà della vita del Marine.
“Ho pensato che, se volevo parlare della Guerra del Golfo, potevo raccontare come io l’avevo vissuta” spiega Swofford. “Mi sono arruolato nei Marine nel dicembre dell’88, avevo diciotto anni. Il corpo dei Marine attrae molti giovani. In fanteria, ho visto un gruppo di ragazzi che avevano fucili più belli e un equipaggiamento migliore: erano cecchini e tutti li guardavano con un misto di timore e rispetto”.
A Swofford viene data l’opportunità di avanzare di grado, passando da soldato semplice a ricognitore/cecchino nel plotone scelto SOA (Sorveglianza e acquisizione obiettivi). “Il soldato semplice deve districarsi tra 15.000 pallottole sparate a caso, mentre il cecchino muore per un unico colpo ben piazzato: mi sono convinto che valeva la pena provare”.
I soci di produzione Lucy Fisher e Doug Wick, che hanno acquistato i diritti del libro non appena è stato messo sul mercato, hanno puntato sulla perenne attualità dell’argomento trattato e sull’originalità della voce dell’autore, ironica e disincantata. Lo sceneggiatore William Broyles, che ha combattuto tra i Marine nella guerra del Vietnam, ha creduto nella loro scommessa.
“La generazione di Tony aveva le idee più chiare della mia” afferma Broyles, che si è immedesimato nella storia di Swofford sia in quanto padre di un giovane militare che in qualità di ex combattente. “Per una ragione o per l’altra, tutti i soldati che hanno partecipato alla guerra del Golfo hanno scelto di essere lì. Noi, invece, fummo chiamati a combattere. E quando arrivammo in Vietnam, nel 1969, non avevamo idea di cosa fare”.
“Quando ho iniziato a parlare a Bill dell’adattamento del libro, lui mi ha spiegato che un’esperienza come quella del Vietnam resta per sempre parte integrante della tua vita” racconta il produttore Doug Wick. “Sono rimasto sorpreso nel sentir dire a questo scrittore raffinato, che aveva fatto il soldato quasi quarant’anni prima, che sarebbe stato per sempre un Marine e si sentiva ancora legato ai suoi compagni anche se si erano frequentati per un periodo tanto breve e lontano nel tempo. Le sue parole mi hanno convinto ancora di più che valeva la pena raccontare la storia di Swofford”.
Aggiunge Broyles: “Quando sono tornato dal Vietnam, mi mancava il fatto di non avere più un’arma. Il legame tra te e il fucile è primordiale, un po’ come quello tra un cowboy e il suo cavallo. Quando il cowboy smonta da cavallo, continua a tenere le gambe divaricate perché è tutt’uno con l’animale. La stessa cosa succedeva a me con il fucile”.
Come racconta Swofford e conferma Broyles, l’esperienza al fronte è qualcosa che la maggior parte dei civili non può comprendere: una sorta di scarica di adrenalina costante dovuta all’incessante tensione legata a tutto ciò che un soldato fa, dagli addestramenti e dalle esercitazioni alle battaglie vere e proprie. Film come Apocalypse Now, Platoon e Full Metal Jacket sono come un eccitante per i soldati, perché stimolano la loro voglia di battersi e celebrano le loro doti di guerrieri. L’interesse di questi temi e la particolarità dell’esperienza vissuta da Swoff rendevano l’adattamento cinematografico di Jarhead una scommessa appassionante.
Commenta Lucy Fisher: “Il libro è originale sia per stile che per contenuto e sapevamo che ci sarebbero voluti talenti straordinari per adattarlo al grande schermo. Racconta la storia di un ragazzo che diventa adulto in una situazione di caos e di volta in volta assume toni ironici e apocalittici. Appena Bill ci ha consegnato la prima stesura della sceneggiatura, abbiamo cercato di coinvolgere Sam Mendes, l’unico regista che ci pareva avesse le carte in regola per dar vita al film. Volevamo una persona che sapesse affrontare temi così delicati con la dovuta serietà ma anche con una buona dose di umorismo, cosa che a Sam è riuscita brillantemente”.
Aggiunge Wick: “Se in American Beauty Mendes svolgeva un’indagine sulla vita di provincia, JARHEAD è un American Beauty sulla vita del fronte”.
Prosegue Fisher: “Il fatto che il lato umano della Guerra del Golfo sia rimasto così nascosto ha offerto a Sam una valida occasione per esprimere tutta la sua creatività e la sua profonda intelligenza. Il pubblico ha trovato molto strano che sia la televisione che i giornali abbiano mostrato pochissime immagini della guerra. Quelle che vedrete in questo film saranno quindi una novità per tutti”.
“Penso che debba passare del tempo prima che si possa cominciare a capire il senso di un dato avvenimento, soprattutto se si tratta di una circostanza devastante come la guerra”, osserva Mendes. “Spesso è necessaria una certa distanza per potere cogliere il vero significato di un evento storico di grande rilevanza. L’idea che si ha della Guerra del Golfo oggi è senz’altro diversa da quella di allora”.
Vista attraverso i mass media dell’epoca, l’operazione “Tempesta nel deserto” sembrò incarnare un modello di guerra “perfetta” e si rivelò un’esperienza completamente inattesa anche per il soldato più navigato.
Commenta Mendes: “Trovo interessante che ci siano voluti dieci o dodici anni perché qualcuno scrivesse una biografia sulla prima guerra del Golfo. Vale la pena chiedersi perché nell’immediato dopoguerra nessuno abbia pensato di farlo e perché si sia dovuto aspettare tutto questo tempo. A mio avviso, quella che all’epoca era stata vista come una “non guerra” assume retrospettivamente significati diversi: solo oggi, infatti, ci rendiamo conto del ruolo storico che essa ha svolto. L’intensità di quell’esperienza ha molto da dirci su ciò che sta accadendo attualmente”.
Mendes e Broyles hanno elaborato diverse stesure della sceneggiatura, ricostruendo la storia di Swofford a partire dagli episodi non lineari narrati nella biografia. I due momenti su cui si sono particolarmente concentrati sono la fase dell’addestramento e il periodo passato nel deserto. (Swofford è partito per il fronte il 14 agosto 1990, due giorni dopo aver compiuto il suo ventesimo anno di età. Il II Battaglione del VII reggimento dei Marine, di cui faceva parte, è stato uno dei primi ad arrivare nel Golfo e a essere dislocato nel deserto, nell’attesa della battaglia).
Spiega Mendes: “Quando una guerra finisce si cominciano a raccogliere fatti, resoconti, dettagli. Da parte nostra, abbiamo cercato di raccogliere i sentimenti e le impressioni, la versione soggettiva degli eventi, per raccontare la guerra da una prospettiva diversa”.
Aggiunge Broyles: “La storia che raccontiamo non è né sentimentale né politica. È la storia di due giovani che si arruolano nei Marine per avere un ruolo nella vita”.
L’arruolamento del plotone
“Ho letto Jarhead su un aereo e ne sono stato davvero commosso. L’ho trovato un libro appassionante, senza gli stereotipi di altre storie di guerra” ricorda Jake Gyllenhaal. “Dandomi il copione, Sam Mendes mi ha detto che Bill Broyles aveva combattuto in Vietnam. A dir la verità, questo fatto mi preoccupava un po’”.
“La guerra del Vietnam ha coinvolto in un modo o nell’altro un’intera generazione. Io avevo undici anni quando è scoppiata la Guerra del Golfo e la sento abbastanza lontana da me. Credo che il mio modo di vivere quel conflitto sia necessariamente diverso dal modo in cui lo ha vissuto la generazione del Vietnam”.
Dopo aver letto l’adattamento dell’autobiografia di Swofford realizzato da Broyles, Gyllenhaal si è tranquillizzato. L’attore ha sentito subito il desiderio di vestire i panni del protagonista, ma ha scoperto che avrebbe dovuto pazientare un po’ prima di poter affrontare quell’emozionante sfida.
Dopo il primo provino con Mendes, Gyllenhaal ha avuto lo spiacevole presentimento di non essere stato scelto per il ruolo. Quando alcuni mesi più tardi ha sentito che il regista stava incontrando altri candidati, ha lasciato un appassionato messaggio sulla sua segreteria: “Farò qualunque cosa, ma voglio essere io il protagonista del film!”. Un mese dopo, Mendes lo ha informato che la parte era sua.
Oltre a sottovalutare le sue possibilità di ottenere il ruolo, Gyllenhaal ha sottostimato la trasformazione fisica e mentale che questo avrebbe comportato.
“Quando ci hanno tagliato i capelli alla Marine, mi sono sentito inizialmente a mio agio e poi del tutto fuori posto” ricorda Gyllenhaal. “Devo dire comunque che il senso di estraneità è un tratto caratteristico del personaggio che interpreto. Swoff è al tempo stesso un membro della squadra e un osservatore esterno, ragion per cui Sam ha creato un’atmosfera in cui potessi stare contemporaneamente fuori e dentro il gruppo. Ho sempre avuto la sensazione di muovermi su due piani contrapposti: mi sentivo parte integrante del plotone e al tempo stesso ne ero distante. Credo che Sam avesse in mente proprio questo”.
Commenta Peter Sarsgaard, che veste i panni di Troy, amico di Swoff e come lui membro dell’unità speciale SAO: “Mi interessava lavorare a questo film perché fa capire al pubblico quanti sacrifici è costretto a fare un soldato. Forse attraverso JARHEAD siamo riusciti a dare almeno un’idea di cosa sia realmente la guerra, anche se restiamo pur sempre semplici attori”.
“La cosa più difficile da sopportare sono state le condizioni atmosferiche. O eravamo completamente congelati perché eravamo stati dodici ore sotto la pioggia o avevamo passato la notte nel deserto, o morivamo di caldo perché avevamo provato sotto il sole in tenuta da combattimento o avevamo camminato sotto una tempesta di sabbia. In ogni caso è abbastanza sgradevole lamentarsi i ragazzi che sono andati in guerra hanno vissuti in queste condizioni per mesi interi mettendo a repentaglio la loro vita”.
Un altro aspetto della vita militare che ha messo a dura prova i soldati della prima Guerra del Golfo, e come loro tutti quelli che hanno prestato servizio prima dell’inclusione delle donne nelle forze armate, è stata la totale assenza dell’elemento femminile.
“Lavorare insieme ad altri attori è sempre un’esperienza emotivamente intensa, ma trovarsi a far parte di un gruppo numeroso quasi esclusivamente composto di uomini ha qualcosa di veramente unico” spiega Sarsgaard. “Le uniche donne della troupe erano la segretaria di edizione, un’assistente e un altro paio di collaboratrici. Persino i truccatori e i parrucchieri erano quasi tutti maschi.
“A un certo punto non ne potevamo più!”, esclama ridendo l’attore. “Il modo di scherzare degli uomini è piuttosto sconcio e dopo un po’ viene a noia. Lo spirito maschile ha qualcosa di violento e di solito è centrato sull’elemento sessuale. Al sesso e alla violenza bisogna poi aggiungere le fazioni: tra tutti i set cinematografici in cui ho lavorato, questo è stato in assoluto il più litigioso, ma anche il più appassionato”.
Come si addice a un capo plotone, Jamie Foxx non partecipa alle scaramucce tra reclute.
“Il ruolo di sergente maggiore si adatta perfettamente a Jamie Foxx” afferma Gyllenhaal. “Jamie è rispettato da tutti. Lui si tiene un po’ distante dal gruppo e tra una scena e l’altra se ne sta tranquillo a giocare a scacchi. A turno l’abbiamo sfidato, ma ha vinto sempre. Sul set c’è un ordine gerarchico, proprio come avviene nei Marine, e Jamie è stato da subito considerato il nostro leader. In maniera istintiva e naturale, provo molta ammirazione per lui”.
Spiega Foxx: “Una delle prime cose che Sam ci ha detto è stata: ‘Leggete il libro ma non seguitelo alla lettera perché il film sarà leggermente diverso’. Nel libro una singola persona riflette sul modo in cui la guerra ha modificato la sua vita, mentre il film presenta tutte le parti in gioco. Io sto dalla parte dei Marine”.
Prima di iniziare le riprese, Foxx ha parlato con un suo amico Marine: “Lui è afroamericano, il che significa che ha sempre dovuto lavorare più e meglio degli altri. Nonostante questo, lui mi ha detto che una volta reclutato entri a far parte di una grande famiglia, dove l’unico colore che conta è quello dell’uniforme. E non riusciresti a sopravvivere senza la solidarietà dei compagni”.
A Chris Cooper, anche lui vincitore di un premio Oscar, è stato affidato il ruolo dello zelante, accorto e carismatico tenente colonnello Kazinski. Kazinski sa sfruttare le sue qualità di leader per infiammare gli spiriti dei soldati. Nonostante l’atteggiamento da imbonitore di luna park, è un ufficiale avveduto e capace, come dimostrano le medaglie e le cicatrici riportate in battaglia.
“In una situazione che mette a rischio la vita delle persone, i giovani cercano un leader a cui affidarsi e sono perfettamente in grado di capire quando qualcuno racconta balle” afferma Cooper. “Kazinski è capace di stimolare i ragazzi e capisce che un bravo comandante deve svolgere ruoli diversi. Sa quando comportarsi da amico o da padre e quando spremere il massimo delle energie dai suoi uomini. È responsabile della vita dei soldati e deve a tutti i costi essere all’altezza del suo compito. Trovo che questa dinamica renda interessante il personaggio di Kazinski”.
Il sergente maggiore Sykes, interpretato da Foxx, è un militare di carriera, ovvero il tipo di uomo che fonda tutta la sua esistenza sull’incrollabile fiducia nel Corpo. La fiducia dei Marine sotto al suo comando, però, non è altrettanto salda. Convinti che la vita non sia solo bianca o nera ma abbia molte sfumature di grigio, i soldati faticano ad accettare l’inflessibilità dei loro superiori.
Lucas Black veste i panni di Chris Kruger, il ribelle della compagnia, uno dei pochi che sembra preoccuparsi della linea politica che ha portato allo scoppio della guerra.
“Il mio personaggio ama scherzare e cerca di far innervosire le persone facendo loro un sacco di domande”, spiega Black. “Avendo una visione consapevole degli eventi, gli piace insinuare il dubbio nella mente dei suoi compagni, spingendoli a chiedersi il perché della loro presenza al fronte”. La natura inquisitoria di Kruger emerge in maniera evidente nella sequenza in cui ai soldati, già attrezzati contro le armi nucleari, chimiche e biologiche, vengono somministrate nuove pillole contro potenziali attacchi. Accertatosi che i medicinali sono ancora in fase di sperimentazione, Kruger si rifiuta di assumerli – ma nessuno segue il suo esempio.
Gli altri compagni di Swofford incarnano le varie tipologie di soldato, dal ribelle al più umile: lo sbruffone Fowler (Evan Jones), il disadattato Fergus O’Donnell (Brian Geraghty), Cortez il combattente impegnato (Jacob Vargas) e l’imponente cubano-americano Escobar (Laz Alonso).
Mendes voleva che tutti gli attori facessero una “full immersion” nel mondo dei Marine. Considerati i problemi di tempo legati alla necessità di rispettare il programma di lavorazione, sapeva di non potere sperare in una metamorfosi ma era comunque deciso a dare loro un assaggio di “vita reale”.
Prima di iniziare le riprese (a loro volta precedute da tre intere settimane di prove), il plotone dei tredici attori/soldati ha dunque partecipato a un programma di addestramento presso la George Air Force Base. Il corso, durato quattro giorni, è stato diretto dal consigliere militare Sergente maggiore James Dever, il quale ha seguito operazioni militari su larga scala in progetti quali L’ultimo samurai e We Were Soldiers.
“Abbiamo dormito in branda e vissuto in tende esattamente uguali a quelle che si usano nel deserto”, spiega Dever. “Volevamo che gli attori ricevessero un addestramento in tutto e per tutto simile a quello impartito ai Marine diretti al fronte. Si è trattato di un tipico addestramento di base, anche se accelerato. Gli attori erano molto motivati”.
“Hanno indossato fin dal primo giorno l’equipaggiamento dei Marine. Abbiamo mostrato loro come mettere la tenuta da combattimento, dove riporre le borracce, le cartucce di scorta e tutto il resto, in modo che conoscessero meglio l’attrezzatura. Non potevano camminare, ma dovevano sempre correre. Li abbiamo sottoposti a marce forzate con pesi. Ogni mattina facevano ginnastica ed esercitazioni. La sera seguivano un corso sull’equipaggiamento contro le armi chimiche e biologiche e le maschere protettive. Hanno lavorato sodo senza mai lamentarsi e i progressi sono stati rapidi”.
“Volevamo dare agli attori un assaggio della realtà che avrebbero interpretato” spiega Mendes, “anche se non era nulla rispetto a quello che i Marine vivono ogni giorni. Mi infastidisco molto quanto sento dire a qualcuno: ‘Ho fatto un addestramento e so cosa vuol dire essere un Marine’. Non è affatto vero, né io né gli attori del cast abbiamo idea di cosa voglia dire essere un Marine. La mia intenzione era unicamente quella di far sperimentare loro alcune cose, in modo che potessero sfruttarle nell’interpretare i loro personaggi.
“Se fisicamente li ho spinti oltre il limite che di solito raggiungo con un attore?” continua il regista. “Assolutamente sì, perché i loro ruoli erano fisici: i soldati sopportano il dolore, la stanchezza fisica, il caldo. Non intendevo certo arrivare al punto di vederli crollare sul set, ma volevo che si spingessero un po’ oltre quello che vivono normalmente”.
Mendes osserva che l’interesse dell’argomento trattato, l’ambiente al testosterone e il notevole impegno richiesto hanno contribuito a coinvolgere fortemente tutti coloro che hanno lavorato al progetto: “Ho l’impressione che gli attori non dimenticheranno mai ciò che hanno vissuto durante questa produzione. Siamo stati tutti profondamente colpi dall’effetto spersonalizzante della vita militare. Sono convinto che un certo tipo di persona abbia bisogno di sentirsi parte di una squadra, di appartenere a un’entità che la sovrasta, di dimenticare se stessa nel perseguimento di un importante obiettivo”.
“Credo anche che questo genere di persona sia diametralmente diversa dalla tipologia dell’attore” continua il realizzatore. “Il divario tra questi due modelli di vita ha influenzato molto le dinamiche che si sono prodotte sul set, trasformando ogni interpretazione in una lotta per far emergere l’individualità in un contesto di gruppo. Volevo cogliere gli attori di sorpresa, volevo che il loro fosse un viaggio di scoperta. Per me che vengo dal teatro, il viaggio è un fine in sé. In questo caso, mi pare che sia stato un’esperienza affascinante per tutti”.
Conclude Mendes: “Per la maggior parte degli individui è molto difficile dimenticare il proprio ruolo nel mondo ed essere semplicemente un corpo – perché in fin dei conti non si è che questo in una situazione di guerra. La ragione per cui i soldati sembrano tutti uguali è che fondamentalmente non c’è nulla che li distingua. Bisogna essere ben allenati per distinguere un segno di identità sull’uniforme di un Marine. Tutti devono apparire uguali, è la psicologia dell’arma. Da un certo punto di vista questa visione delle cose supera la mia capacità di comprensione, ma ammiro e rispetto profondamente chi la abbraccia perché è estremamente altruistica”.
Benvenuti nella Produzione
Poiché era impossibile girare nei luoghi originali in cui Swofford si era trovato nel 1990, i realizzatori si sono messi alla ricerca di location che sostituissero le ambientazioni di Jarhead.
Le riprese, iniziate presso i teatri di posa di Universal Studios, sono terminate dopo cinque mesi esatti nel deserto di Glamis, in California.
“Una delle grandi ironie del film”, osserva Mendes, “è stata che le riprese sono durate cinque mesi, ovvero il periodo di tempo esatto che i soldati del romanzo di Tony hanno trascorso insieme nel deserto”.
Le prime riprese dal vero si sono svolte nella George Air Force Base di Victorville, in California. Chiusa durante gli interventi di riconversione che hanno avuto luogo nei primi anni Novanta, l’ampia struttura ospita tuttora operazioni militari e fornisce una residenza temporanea al personale in attesa di incarichi permanenti.
Una delle scene girate qui mostra i soldati che salgono a bordo dei velivoli diretti al Golfo. La mattina delle riprese, veri aerei militari che trasportavano uomini americani sono atterrati accanto al 747 su cui si trovavano i finti soldati di JARHEAD. Curiosi gli uni degli altri, militari e figuranti si sono scambiati qualche battuta, consapevoli che solo un 747 avrebbe effettivamente lasciato la piazzola. L’incontro fortuito ha offerto a tutti i presenti l’occasione di cogliere, sia pure per un momento, una prospettiva nuova e una visione riflessa del proprio lavoro. Alla fine della giornata di riprese, la maggior parte dei membri della produzione è stata felice di poter tornare al proprio mondo.
La George Air Force Base è attualmente di proprietà della città di Victorville, che sta lavorando di concerto con un gruppo di progettisti per trasformarla in una struttura polifunzionale con residenze private ed esercizi commerciali. Benché la base venga ancora usata per addestramenti e trasporti, le forze armate statunitensi non hanno più voce in capitolo sul suo effettivo impiego. La produzione di JARHEAD è stata quindi accolta con piacere.
Ogni volta che si riproduce un evento storico, una produzione cinematografica corre il rischio di costruire un pezzo da museo o di modificare la storia e l’ambientazione per adeguarsi agli atteggiamenti e alle usanze attuali. Entrambe le opzioni erano inaccettabili per i realizzatori e il cast di JARHEAD, intenzionati a rappresentare sullo schermo le esperienze personali di Swofford.
Una delle sfide più ardue per il team dei realizzatori è stata quella di ricreare le sequenze in cui si svolgevano azioni militari. Più di qualsiasi altra guerra, infatti, la Guerra del Golfo ha utilizzato apparati altamente tecnologici (che naturalmente le forze armate si sono rifiutate di mettere a disposizione per la produzione cinematografica) e, nonostante l’impressione che sia stata ampiamente coperta dai media, non se ne conservano molte immagini né si conoscono i dettagli di ciò che è avvenuto sul campo.
“Lavorando su un’opera che si fonda sulle descrizioni, si corre il rischio di centrare ogni dettaglio perdendo però l’atmosfera generale” spiega Wick. “Noi abbiamo prestato grande attenzione ai particolari, coinvolgendo nel progetto un esperto militare come il sergente maggiore James Dever, uno scenografo di fama mondiale come Dennis Gassner e un costumista di punta come Albert Wolsky. Il nostro scopo ultimo era comunque quello di ricreare lo spirito del libro”.
Dichiara il regista: “Nel 1990 i Marine hanno vissuto esperienze estreme. Sono stati sottoposti a un addestramento intensivo e poi spediti in quel luogo dai paesaggi lunari che è il deserto. Questo li ha fatti sentire completamente tagliati fuori dal mondo, ma forse li ha messi più in contatto con loro stessi. Il film è pieno di sequenze in cui gli attori rappresentano la loro visione della guerra, cercando di immaginare cosa si deve fare e dire o come ci si deve sentire quando la battaglia sta per iniziare. La realtà, però, si distacca completamente da qualsiasi immaginazione. La nostra idea della guerra è infantile. L’unica cosa di cui sono certo, anche se non sono mai stato al fronte, è che nessuna guerra è esattamente come la gente se la immagina. È più veloce o più lenta, più o meno violenta. Ti assale nel bel mezzo della notte o ti colpisce in pieno volto quando meno te lo aspetti. E la storia di Tony lo fa capire bene”.
La produzione si è poi spostata da Victorville all’Holtville Air Strip, a est della città di El Centro, nell’Imperial County, la contea più meridionale dello stato della California. Di questo campo di aviazione si ignora tutto o quasi, compreso il vero nome, la data di costruzione e il perché della sua realizzazione. Nonostante una pista di atterraggio lunga 750 metri, infatti, le mappe topografiche dell’USGS (United States Geographical Survey) tracciate tra il 1969 e il 1992 non hanno mai indicato la presenza di un campo di aviazione; l’unica prova documentaria della sua esistenza è una foto aerea del 2002. La vicinanza al poligono di tiro per esercitazioni aereonavali delle Chocolate Mountains suggerisce tuttavia che possa essere stato costruito per fungere da obiettivo o servire all’addestramento degli AV-8 Harriers provenienti dalla vicina base aerea di Yuma, in Arizona.
In questa location, la produzione ha costruito il campo base saudita nonché la strada tra Kuwait City e Basrah – denominata “Autostrada della morte” per via dei resti di guerriglieri e civili iracheni disseminati lungo tutta la strada (l’unico grande asse viario che collega il Nord e il Sud del Kuwait, considerato perciò un obiettivo principale dai bombardieri alleati).
Al lato opposto di El Centro, a nord di un’industria di gesso (chiamata Plaster City), si estende un’area privata; qui, ai piedi della Superstition Mountain, la produzione è rimasta per alcune settimane.
In una delle scene chiave girate in questa location, l’unità di Swoff viene presa di mira dal fuoco amico di un jet F-14 (noleggiato dalla produzione) che vola a bassa quota, passando a qualche centinaio di metri dalle teste dei Marine. Inutile dire che anche la troupe ha dovuto subire la presenza ravvicinata del jet.
Essere sfiorati da un aereo da combattimento non è stata l’unica emozione vissuta girando nei dintorni della Superstition Mountain. Anche i Blue Angels della marina militare (che si addestrano nelle vicinanze) hanno in effetti sorvolato la zona effettuando passaggi non previsti. La produzione è stata inoltre colpita da violenti uragani che hanno letteralmente ricoperto ogni cosa di polvere nel raggio di chilometri. Sequenze di poveri soldati investiti da tempeste di sabbia mostrano come anche i poveri attori fossero costretti a sopportare realmente le intemperie del deserto.
Dalle propaggini meridionali della California, la produzione ha attraversato il confine messicano per raggiungere la zona dei laghi salati che si estende per circa 160 chilometri intorno a Baja, dove per fortuna il governo messicano aveva concesso il permesso di effettuare le riprese. Mendes e il team dei realizzatori hanno scelto di ambientare alcune sequenze in questa immensa area pianeggiante dove la vista può spaziare all’infinito da tutti i lati. Poiché i laghi salati sono riserva naturale, è stato necessario costruire strade speciali (sottoposte a un’attenta supervisione) nell’arida zona circostante.
“Abbiamo scelto di girare nelle saline messicane perché il deserto infinito, surreale, che lì si estende a perdita d’occhio può essere considerato un altro dei personaggi del film” spiega il produttore esecutivo Sam Mercer. “La produzione era iniziata già da due mesi e mezzo, perciò avevamo solo due settimane a disposizione e tante scene da realizzare. Abbiamo affrontato molte difficoltà, sia per attraversare la frontiera con una troupe di 350 persone che per tenere alto il morale di tutti – per non parlare dell’ora e mezza di viaggio che dovevamo fare ogni giorno, visto che il set si trovava a 11 chilometri dalla strada asfaltata più vicina”.
“La sfida più difficile, comunque, è stata immaginare come trasformare in un set cinematografico questo luogo dimenticato da Dio” racconta Mercer. “Come prima cosa, abbiamo mandato in avanscoperta un tecnico per stabilire dove avremmo dovuto montare le tende e costruire i terrapieni che le avrebbero protette. Una volta risolto questo aspetto, abbiamo dovuto organizzare logisticamente il trasferimento in loco della produzione. Bisognava creare infrastrutture, costruire strade, far arrivare acqua ed elettricità, pensare alla sicurezza e all’illuminazione notturna. Insomma, l’organizzazione delle location è diventata la nostra operazione militare”.
Ma in ogni impresa erculea che si rispetti deve cadere almeno un po’ di pioggia… e nella primavera del 2005, il sud della California e la zona settentrionale di Baja, in Messico, sono state letteralmente inondate.
“Non potevamo prevedere che era l’anno di El Niño, e la pioggia battente ci ha tormentato durante tutte le riprese”, ricorda Mercer. “Le condizioni atmosferiche hanno notevolmente rallentato la costruzione dei set nella location messicana, dove le distese saline, normalmente secche e aride, si sono trasformate in un mare di fango. Il set veniva continuamente lavato via dalla pioggia e i bulldozer si insabbiavano a ogni pie’ sospinto – è stato un incubo. Per fortuna, il weekend prima che iniziassero le riprese è uscito il sole e ha asciugato tutto, così alla fine le cose hanno funzionato a meraviglia”.
Le riprese di JARHEAD hanno posto una sfida particolare sia per l’aspetto creativo che per le difficoltà logistiche. Il regista Mendes voleva realizzare un film che raccontasse quella che, nell’ottica della fanteria dispiegata a terra, è stata essenzialmente una guerra aerea. Per dare corpo alla sua visione, ha quindi chiamato accanto a sé il direttore della fotografia Roger Deakins, cinque volte candidato all’Oscar, nella certezza che le sue immagini avrebbero saputo comunicare non soltanto il caos della battaglia, ma anche la profonda solidarietà di uomini che condividono missioni, motivazioni e timori.
“Questa esperienza si è rivelata interessante perché mi ha permesso di eliminare molti degli elementi stilistici che avevo usato nei due film fatti in precedenza”, spiega Mendes. “Io e Roger Deakins abbiamo deciso che una macchina da presa a mano avrebbe consentito una maggiore fluidità e capacità di improvvisazione. Roger è talmente bravo che riesce a seguire il movimento di una scena senza bisogno di delimitare gli spazi degli attori, il che ha realmente contribuito a creare continuità nelle riprese. Per quanto mi riguarda, mi sono scoperto più capace di reagire al naturale sviluppo dei rapporti tra gli attori sul set.
“Per American Beauty avevo usato una serie di immagini alla Magritte, mentre qui ho sfruttato un certo numero di composizioni che avevo già in testa. Ho avuto la sensazione che dalle prove emergesse una sorta di energia e di forza vitale che bisognava sfruttare lasciando da parte i piani prestabiliti. È stato molto gratificante lavorare in questa direzione”.
L’artificio che Mendes e Deakins hanno utilizzato più di frequente è uno dei più vecchi del linguaggio cinematografico: il punto di vista.
“Nel film non esiste un punto di visto imparziale, ragion per cui ho deliberatamente evitato la ripresa master” spiega il regista. “Il mio punto di partenza è Swoff o quello che Swoff fa, quindi inizio sempre con un primo piano del personaggio o una scena in cui lui è presente. Anziché assumere uno sguardo obiettivo, freddo e invariabile, ho scelto di esprimermi attraverso il personaggio”.
Rafforzando l’idea di una storia raccontata a partire dal basso, Mendes e Deakins hanno evitato qualsiasi ripresa che allontanasse lo spettatore dalla visuale dei soldati. Spiega Mendes: “Non ci sono scene che sembrano mostrare ‘lo sguardo di Dio’, non ci sono riprese eseguite da gru o da elicotteri in cui si vede l’intero deserto con delle formichine che lo attraversano. Tutto ciò che appare è filmato a livello dell’occhio, evitando il più possibile l’uso dei binari. Gli operatori si muovono insieme agli attori, alla loro stessa velocità, e di rado si vedono movimenti immotivati”.
Quando si è trattato di montare il film, i realizzatori hanno deciso di affidare al premio Oscar Walter Murch il difficile compito di dare forma alla memorabile storia che Swofford e Mendes volevano raccontare. “Sono rimasto colpito dal modo in cui è descritta la guerra e ho percepito l’autenticità della voce narrante, che si schiera dalla parte dei soldati dando conto della difficile situazione in cui si trovano. Il film presenta una grande varietà di toni e questo mi ha attratto fin dall’inizio. Volevo mettere in evidenza tutti i suoi diversi elementi – l’umorismo, la violenza, la gravità – e creare una gamma di significati il più ampia possibile”.
In una particolare sequenza, Murch ha provato una fortissima sensazione di “déjà vu”: “Sia nel libro che nel film è presente un segmento di Apocalypse Now, un film a cui ho lavorato 27 anni fa. I soldati lo guardano, cantano, ripetono le battute. Ho trovato interessante mostrare due diversi aspetti di una stessa situazione”.
Se i realizzatori hanno dovuto mettere in piedi un set cinematografico nel bel mezzo di una distesa di sale in un posto sperduto del mondo, gli esperti della ILM impegnati nella post produzione hanno dovuto creare con degli effetti speciali tutto ciò che non era fisicamente possibile realizzare durante le riprese. Il supervisore agli effetti visivi Pablo Helman e la sua équipe di 80 esperti sono stati informati dal regista che per mantenere il punto di vista soggettivo di Swofford – ed evitare che artifici scontati distogliessero lo spettatore dalla storia – gli effetti visivi dovevano restare “invisibili”. Dal momento che il film non aveva un taglio eroico, gli effetti che la storia di Swoff richiedeva – l’incendio dei pozzi petroliferi kuwaitiani o le sequenze dei sogni, i combattimenti tra scorpioni e la marchiatura dei soldati, le pallottole scaricate nella notte o l’estensione di un orizzonte – dovevano restare aderenti allo stile del Marine che è la voce narrante.
Spiega Helman: “Sam ha una visione particolare degli effetti visivi, nel senso che non li concepisce come elementi destinati a stupire. In questo film, dovevano servire in particolare a ricreare uno specifico ambiente. Sam è attentissimo a ogni dettaglio, dalla posizione del fumo alla rimozione di un cespuglio. Credo che ciò sia legato alla sua esperienza teatrale. In teatro, è fondamentale creare l’illusione della realtà, anche se è difficile far credere alle persone che ciò che stanno vedendo è reale perché non è mai così”.
Le location nel deserto erano state scelte nell’estate precedente l’inizio della produzione, mentre le riprese sono effettivamente cominciate nei successivi – e piovosi – mesi invernali. Molte zone deserte, in precedenza totalmente aride, erano quindi diventate verdeggianti, il che ha reso indispensabile l’eliminazione di qualsiasi elemento estraneo al tipico habitat dei deserti mediorientali.
Le sequenze in cui i Marine scendono dagli aerei civili e vengono depositati in Arabia Saudita hanno richiesto più di una semplice opera di rimozione (anche se in effetti una vicina fabbrica da cui si levava un pennacchio di fumo bianco è stata magicamente eliminata dalla ILM). La campagna circostante è stata sostituita dal deserto, le aree di sosta sono state ampliate e la scena riempita di velivoli (tutti ritoccati in paint), soldati e veicoli che non erano fisicamente presenti durante le riprese. Il risultato finale è stato una combinazione di riprese originali, sfondi digitali, inquadrature degli aerei e immagini di modellini.
Per rappresentare il paesaggio infernale dei bacini petroliferi incendiati (che sputavano greggio a 120 metri di altezza), è stato filmato un unico pozzo in fiamme da varie distanze e angolazioni. Con le diverse riprese sono state create varie tipologie di immagini, poi usate per creare tre tipi di incendi distinti. Quando il battaglione di Swofford arriva sul posto, i pozzi bruciano alla piena luce del giorno. Man mano che i soldati si avvicinano, le fiamme altissime producono un’imponente nuvola di fumo che avvolge tutto nella penombra, quasi stesse per scatenarsi una tempesta. Dopo il tramonto, infine, gli uomini vengono illuminati dai bagliori infernali riflessi attraverso il fumo che aleggia su tutto come una densa nebbia.
Per costruire le sequenze finali nei pressi dei pozzi in fiamme sono state utilizzate diverse tecniche. Le scene diurne sono state amplificate con fiamme, piloni elettrici creati in digitale e carcasse di veicoli bruciati, la sabbia annerita dal catrame è stata estesa oltre la linea dell’orizzonte e sono state aggiunte tremolanti pozze di greggio che riflettevano la luce. Le scene in penombra sono state elaborate in digitale collocando sugli attori una sorta di cappa scura che sembrava avvolgerli nel fumo e nella pioggia di petrolio. Le scene notturne sono state girate dapprima sul set, utilizzando imponenti fasci di luce arancione e poi solo una luce tremolante, e poi integrate con elementi di fumo, fuoco e immagini di nuvole notturne ottenute bruciando il carburante in eccesso della produzione (sono stati gli esperti della ILM che, accortisi dell’effetto tornando in albergo una sera, hanno installato le macchine da presa e filmato la visione apocalittica dell’orizzonte scintillante).
Altri effetti speciali hanno aiutato a creare sequenze che non era possibile realizzare dal vero per problemi di sicurezza e rispetto per gli animali. Tra queste, l’esplosione di una torre di controllo per il traffico aereo sotto il fuoco degli aerei da caccia; l’impressione del marchio “USMC” sulla carne di un soldato meritevole; la battaglia mortale tra due scorpioni, il fumo e i lampi di fuoco dei proiettili sparati da un plotone di Marine nel cielo del deserto.
A delineare l’atmosfera delle scene di JARHEAD hanno contribuito anche le musiche scelte per il film. L’influenza del Vietnam si percepisce in alcuni dei brani presenti nella colonna sonora (a un certo punto Swoff protesta: “Non potremmo ascoltare la nostra musica?”): “Break On Through” dei Doors e “Bang a Gong” di T. Rex. Ma i soldati, adolescenti e giovani adulti lontani da casa, cercano un po’ di conforto anche ascoltando e ballando i successi in voga tra il 1989 e il 1990: “Houses In Motion” dei Talking Heads, “Gonna Make You Sweat” dei C+C Music Factory, “OPP” dei Naughty By Nature, “Ball & Chain” dei Social Distortion e “Fight the Power” dei Public Enemy. Vi sono anche riferimenti musicali velatamente ironici, come l’indimenticabile successo di Bobby McFerrin “Don’t Worry Be Happy” che segna l’arrivo di Swofford a Camp Pendleton e accompagna le sue scoraggianti performance durante l’addestramento, e “You Are the Sunshine of My Life” di Stevie Wonder, che il sergente maggiore Sykes chiede a Swofford di suonare con la bocca quando lui si candida all’inesistente posizione di trombettiere del plotone.
L’obiettivo finale era insomma quello di realizzare un film raccontato dai Marine piuttosto che incentrato su di loro. Anthony Swofford riassume: “La vita del soldato è molto diversa da quello che la gente si immagina. È un miscuglio di noia, eccitazione, paura, struggimento, tristezza… E ci sono aspetti essenziali nel quotidiano di un uomo inviato al fronte: gli amici che ti aiutano a scrivere lettere d’amore, i racconti che ogni volta vengono rielaborati, il bisogno di avere un pubblico. Il mio amico del cuore ascolterà una storia che ho già ripetuto venti volte perché sa che per me è importante raccontarla”.
“Quello che gli spettatori possono imparare da questi dettagli” conclude l’autore, “è che i soldati sono semplicemente dei ragazzi mandati a combattere – affettuosi e vulnerabili, ma anche forti e rozzi. Sono esseri umani pieni di difetti, ma svolgono un lavoro che torna utile a tutti noi”.
Universal Pictures, in collaborazione con MP Kappa Productions, presenta JARHEAD, una produzione di Lucy Fisher e Douglas Wick in associazione con Neal Street Productions. A interpretarlo sono Jake Gyllenhaal, Peter Sarsgaard, Lucas Black e Jamie Foxx. La colonna sonora è composta da Thomas Newman, il supervisore alle musiche è Randall Poster. Debra Zane, CSA, ha curato il casting, Walter Murch, ACE, il montaggio. Le scenografie sono di Dennis Gassner, la fotografia di Roger Deakins, ASC, BSC. I produttori esecutivi sono Sam Mercer e Bobby Cohen. Il film è prodotto da Douglas Wick e Lucy Fisher. JARHEAD, tratto dal libro di Anthony Swofford, è sceneggiato da William Broyles, Jr. La regia è di Sam Mendes.
©2005 Universal Studios. www.jarheadmovie.com
Jarhead diventa un film
Anthony Swofford
“Ho finito di scrivere Jarhead nell’estate del 2002 e subito si è profilata la possibilità di farne un adattamento cinematografico. Ron Bernstein, il mio agente di Los Angeles, ha letto il libro in forma manoscritta e già dal mese di novembre ha cominciato a farlo circolare a Hollywood. Nonostante le reazioni siano state perlopiù favorevoli, nessuno aveva realmente voglia di puntare su un tema così scottante proprio nel momento in cui il paese si preparava a entrare in guerra.
Nell’aprile 2003, è aumentato l’interesse per i diritti di Jarhead. Mentre mi trovavo alla fiera di libro di Los Angeles per conto del Los Angeles Times, ho incontrato Doug Wick. Lui abitava proprio accanto al mio hotel ed è arrivato all’appuntamento in bicicletta. Mi è sembrato un modo di fare molto rilassato, anticonformista e divertente. In realtà volevo che fosse proprio una persona di questo tipo – rilassata, anticonformista e divertente – a produrre un adattamento del mio libro. Ho pensato che se la sceneggiatura di Jarhead stava nel cestino della bici di Doug anziché sul sedile dell’auto sportiva di un altro produttore, c’era una possibilità in più di realizzare il film ed evitare incidenti causati dall’alta velocità.
Poco dopo il nostro incontro, io e Doug abbiamo parlato con Bill Broyles in teleconferenza. Io lo ammiro molto, sia come giornalista che come sceneggiatore, e ho avuto subito la sensazione che fosse la persona giusta per adattare Jarhead. Conosceva il libro approfonditamente, descriveva personaggi, citava battute, indicava numeri di pagina… Sembrava quasi che fosse stato lui a scrivere la storia e in un certo senso era così. Mi ha raccontato di quando si è arruolato nei Marine ed è andato a combattere in Vietnam, e ho capito che negli uomini di cui avevo scritto e con i quali avevo prestato servizio, Bill aveva riconosciuto alcuni dei propri compagni, quelli con cui aveva condiviso le stesse battute macabre, gli stessi momenti di disperazione, di solidarietà e di coraggio, ma soprattutto la travolgente esperienza della battaglia che ti cambia per sempre la vita. Eravamo tutti e tre d’accordo che alcune scene del libro si prestavano perfettamente a un adattamento cinematografico.
Ho letto con grande piacere le stesure che Bill andava via via elaborando, e da questa lettura progressiva ho intrapreso uno studio sull’arte della sceneggiatura. Nel maggio 2004, la regia del film è stata affidata a Sam Mendes, scelta di cui sono stato molto contento. I progetti a cui aveva lavorato in precedenza mostravano una forte padronanza della forma e una profonda comprensione dei personaggi e della narrazione. Quei progetti erano raffinati e rischiosi – due aggettivi che potevano applicarsi anche a JARHEAD. Nel corso del mese, ho incontrato Sam e Bill a New York. Sam mi ha chiesto di descrivergli altri compagni di plotone e di raccontargli episodi che non avevo trattato nel film, assorbendo come una spugna tutte le informazioni che gli davo. Il suo entusiasmo per il film era contagioso. Anche lui conosceva il libro scena per scena e ne citava interi pezzi a memoria. Ero sicuro che avrebbe magistralmente diretto l’adattamento di JARHEAD, un film che era nato da un libro ma aveva una sua precisa identità.
Durante l’estate, Jake Gyllenhaal è stato selezionato per il ruolo di Swoff, e ancora una volta mi sono trovato completamente in linea con la scelta fatta. Avevo adorato Donnie Darko e The Good Girl, ed ero certo che la presenza di Jake sullo schermo avrebbe saputo esprimere il conflitto tra la voglia di sangue e l’angoscia esistenziale che lacera il giovane Marine in guerra.
Nell’ultima settimana di prove sono andato sul set e ho visto Jake. La sua interpretazione del personaggio mi è sembrata autentica e intensa. E’ stato strano incontrare gli altri attori e cercare di indovinare il ruolo che avrebbero impersonato perché sembravano tutti giovani Marine. Una mattina, mentre aspettavo Sam, gli attori si sono messi a scherzare insultandosi tra loro. All’improvviso ho avuto la netta sensazione di trovarmi insieme ai compagni con cui avevo prestato servizio – nervosi, aggressivi, solitari e dediti a una causa. Ho visitato alcuni dei set, tra cui quello della stanza in cui dormivo da adolescente. Osservando il turbine delle attività in corso – gli scenografi che costruivano i set, i giovani attori che venivano istruiti da Jim Deaver – Broyles mi ha guardato e ha detto: “È folle pensare che tutto questo è nato da un libro che hai scritto da solo in una stanza, magari in mutande”.
Durante le riprese ho volutamente evitato le location o i set, cosa su cui io e Sam ci siamo trovati d’accordo senza neanche bisogno di parlarne. A me non avrebbe fatto piacere che un editore – e meno che mai un lettore! – fosse venuto a trovarmi nel mio ufficio mentre ero impegnato a scrivere un capitolo.
Sam mi ha mostrato il film nell’agosto del 2005. In sala di proiezione erano presenti lui e Walter Murch. Mi ci sono volute alcune scene per abituarmi a vedere sullo schermo un attore che veniva chiamato Swofford. Ho riconosciuto nelle immagini che mi sfilavano sotto gli occhi le vicende di Jarhead, l’intensità dello sviluppo narrativo e i più sottili e sfumati intrecci psicologici e metafisici che scandiscono e amplificano l’esperienza vissuta da Swoff e dai suoi compagni. Se nella realtà bisogna vincere la guerra, in arte bisogna cercare di coglierne il significato e la bellezza”.