Recensione n.1
Un mondo progressivamente messo a fuoco, quello di Prot di K-Pax. La luce della terra abbaglia e impedisce anche agli umani – ormai assuefatti – di distinguere i contorni del mondo, delle persone, delle emozioni.
Viene davvero da K-Pax, Prot, o e’ semplicemente un normalissimo terrestre spinto a crearsi un mondo di fantasia per sopportare un dolore troppo grande?
Certo e’ che anch’io, come i pazienti dell’ospedale psichiatrico in cui viene rinchiuso, avrei voglia di volare a velocita’ superiori alla luce fino a questo pianeta, dove la famiglia non esiste e quindi non puo’ farci soffrire e imbrigliare con stupidi dettami, dove il sesso e’ doloroso e non scatena deleteri desideri e soprattutto dove il teletrasporto e’ una realta’.
Un pianeta dove magari Iain Softley fa il giardiniere, non il regista, un regista capace di sputtanarsi una storia intrigante e soprattutto un personaggio meraviglioso, perfettamente recitato da un Kevin Spacey sempre piu’ bravo. Progressivamente meno interessante, ma non per questo poco godibile.
Maggie
Recensione n.2
C’e’ una scena nel lungometraggio di Iain Softley che chiarisce lo spirito del film, amalgama non riuscito di “Patch Adams” e “X-Files”. Poco dopo l’inizio, Jeff Bridges pranza con la famiglia e la sorella nel giardino della sua villetta vicino a New York. La sorella, personaggio totalmente ininfluente, si lecca le dita per ben tre volte, in tre differenti inquadrature, in segno di apprezzamento del cibo. E allora? Cosa c’entra? E’ la tipica mossa da barbecue! E’ quello che ci aspetteremmo vedendo una persona che mangia in compagnia e vuole caratterizzarsi senza distinguersi troppo!
Ed e’ proprio la rappresentazione stereotipata di personaggi e situazioni il principale difetto del film, costellato da “tipiche mosse” in tutto il suo svolgimento: i soliti matti da clinica psichiatrica hollywoodiana, ognuno con i suoi tic e le sue originali e simpatiche debolezze (ma sceneggiatore e regista sono mai stati in una clinica psichiatrica?), il solito “drop-out” (alieno o disturbato che sia) che riesce a trovare un punto di contatto con chi e’ fuori dalla norma, i soliti dottori cotonati o vetusti che sembrano usciti da un laboratorio di facce presumibilmente adatte alla situazione, l’ennesimo trauma da rimuovere (questa volta tirato per i capelli più che mai), l’utilizzo grossolano della terapia psichiatrica con una lunga seduta di ipnosi che sembra tratta da una stirpe di “Topolino”. Insomma, il solito clichè con cui Hollywood interpreta la pazzia, la normalita’, la vita. Tutto suona quindi falso, dalla prima all’ultima inquadratura. E’ la tipica confezione d’oltreoceano che stempera le differenze a favore di un’uniformità solo apparentemente problematica. Peccato, perchè lo spunto iniziale e’ interessante, con un uomo capitato da chissà dove che dice di essere un alieno proveniente dal lontano pianeta “K-Pax” e viene subito considerato un pazzo da manicomio. Il dubbio sulla sua reale natura viene mantenuto fino alla fine, con varie false piste per confondere lo spettatore. Ma questo non basta per salvare il film dalla noia e dalla facile lezioncina edificante (prima di aiutare gli altri devi guardare dentro te stesso).
La regia cerca la strada soft, permeando le inquadrature di un’atmosfera new-age, ma soffre della “maniera” di tutto il progetto. Basta pensare a Jeff Bridges che per far capire al pubblico che si sta avvicinando la data in cui il presunto alieno tornerà a casa, strappa un foglio da un calendario grande quanto metà schermo. Trovate didascaliche vecchie come il cucco che fanno sentire la presenza di un regista, di uno sceneggiatore, di una troupe che filma una storia. Elementi che non diventano mai trasparenti e che impediscono il distacco necessario per calarsi nel racconto. Anche le interpretazioni non aiutano: Jeff Bridges e’ più bolso che mai e Kevin Spacey, oltre al suo carisma, offre la classica interpretazione da Oscar, convinta ma non convincente. La colpa, però, e’ soprattutto del suo personaggio, davvero impossibile da rendere senza cadere in più di un’occasione nel ridicolo involontario (vedi il dialogo con il cane). Arriviamo quindi al nocciolo del problema: la sceneggiatura. Un esempio chiarificatore può essere la trovata di affiancare, casualmente, a Jeff Bridges un amico nume tutelare della scienza ed unico conoscitore della costellazione della Lira, da cui Kevin Spacey dice di provenire. Trovate degne davvero di un fumetto per bambini e in stridente contrasto con il tono sognatore, ma tutto sommato realistico, della pellicola. Deludente, piatto, ingenuo, summa di beceri luoghi comuni, dal lontano e utopico “K – Pax” al più casareccio e ruspante “K – Pacco” il passo e’ breve!
Luca Baroncini