USA-GIAP 2003 di Quentin Tarantino con Uma Thurman, Lucy Liu, David Carradine, Daryl Hannah, Vivica A. Fox, Michael Madsen, Michael Parks, Sonny Chiba, Chiaki Kuriyama, Julie Dreyfus, Gordon Liu (Chia Hui Liu), Jun Kunimura, Kazuki Kitamura, Michael Bowen.

Recensione n.1

Ieri sera ho pensato di morire lacerato in sala, tanta era la bellezza sublime e inusitata di questo film. Ogni scena, anzi, ogni inquadratura, è una sorpresa scioccante, è quello che non ti aspetteresti mai, è Cinema allo stato puro, che rivolta le budella e ti scarica addosso una serie di brividi da distruggere tutti i tuoi sensi, oltrechè le tue aspettative, che saranno sempre troppo stupide o mediocri per Tarantino. Non si sono mai visti dei cattivi così violenti e, letteralmente, *paurosi*, neanche in un film dell’orrore. Non si erano mai visti dei combattimenti così. Non si era mai visto un FILM, così. Tremo ancora, di terrore e di gioia.
E dice bene Ernesto Picciafuoco: tutto ciò che viene prima, al confronto, è vecchio e brutto. Kill Bill ristabilisce i parametri estetici di più di un secolo di cinema.

Andrea D’Emilio

Recensione n.2

Kill Bill è una summa del cinema postmoderno, e la trasposizione su pellicola di tutti gli amori cinematografici del regista.
Postmoderno, ovvero citazionista, incapace di inventare narrazioni originali (tutto è già stato detto) e quindi costretto e utilizzare materiali, temi e idee da mondi diversi e disparati. Il risultato di un paio di shekerate, può essere un orribile film trash (e se ne vedono parecchi purtroppo, ad esempio la Leggenda degli uomini straordinari) oppure un capolavoro eccelso, se il regista ha la capacità formale e il gusto estetico per impedire al suo prodotto di strabordare (uscire dallo sheker!) e mantenere un suo equilibrio.
In questo senso Tarantino è stato perfetto: fotografia mai banale, molto diversa da scena a scena (cupa, trasognata, pop,…); attori assolutamente convincenti e ispirati, e magnificamente diretti (basti il balzo in avanti di Lucy Liu, dopo le opache prove con Ballistic e Charlie’s angels). Musiche azzeccatissime, con pezzi rari e la presenza di Morricone, musica di Honk Kong e molto altro. Tutta musica amata dal regista, come tutti i generi cinematografici che vengono citati nel film (uno per tutti i film in cappa e spada di Hong Kong, ma anche Leone). Oltre che amati molto rispettati i generi, con un film che si ispira a hong kong con grande rispetto: la sensazione poco realistica di alcuni combattimenti, quasi paradossale, rispetta in pieno i canoni. I combattimenti sono spesso avvincenti e pieni di suspence, del tutto diversi dai noiosi effetti speciali di Matrix Reloaded.
Dal punto di vista strettamente cinematografico un capolavoro, che lascerà senza dubbio il segno.
Diverse critiche sono piovute a Kill Bill sulla sceneggiatura, perché apparentemente un po’ banale.
La storia in effetti è semplice, però i colpi di scena sono riusciti e il regista riesce spesso a creare tensione (o comunque attenzione, quando fa grottescamente ridere), tanto che alla fine verrebbe voglia di vedersi un’altra ora e mezza per sapere come va a finire. Non sono quindi i dialoghi come in Pulp Fiction a reggere il film, ma poche idee forti ben rappresentate.
Il recente orrendo soap-movie americano di Inarritu, 21 grammi, è un esempio di come per fare un buon film non basti realizzare un presunto film d’autore utilizzando una narrazione complessa e messaggi espliciti: i colpi di scena sono tutti telefonati, e non ci si emoziona quasi mai.
In sostanza, non è obbligatorio infarcire un film di simboli e rendere la trama complessa per trasmettere forti messaggi cinematografici e non, può bastare la splendida semplicità di Tarantino, che di veri messaggi forse ne passa uno o due (il devastante dramma morale della vendetta a ogni costo, l’incarnificazione del Male come pura essenza (Bill)).
Ma quale potenza espressiva!
Il critico vecchio stampo (quello che amava bergman, fellini e antonioni) può quindi probabilmente amare poco Tarantino, perchè non vi trova le logiche classiche del “suo” cinema. E di fatto alcuni critici datati hanno criticato il film.
E’ normale, perchè Tarantino è ormai oltre i classici, e rischia di diventare l’emblema del PostPopmodernismo.

Vito Casale

Recensione n.3

K i l l B i l l e’ Leone+Argento

Kill Bill e’ il capolavoro sommo di Quentin Tarantino, che come tutti i grandi realizza appunto il suo capolavoro a quarant’anni. Kill Bill e’, in maniera ancora piu’ lampante e finalmente evidente a chiunque, Leone+Argento. Dai maestri italiani del pulp riprende l’aggressione audiovisiva, i colori sgargianti, la violenza iperbolica, la musica eccessiva a plasmare tutto, il gusto glamour della messa in scena. Oltre che, ovviamente, l’approccio manierista di chi pensa solo a fare del cinema puro. Tutto questo era gia’ presente nei tre film precedenti, ma piu’ difficile da capire (forse perche’ l’amore per la scrittura e il dialogo erano predominanti rispetto al mero “gioco” della messa in scena). Qui invece si sublima a livelli assoluti. Adesso le discendenze sono chiare, lampanti, e nessuno potra’ piu’ negare che Tarantino e’ il proseguitore della linea Leone-Argento, il piu’ illustre continuatore di una poetica. Solo chi non capisce un cazzo di cinema potra’ ancora negare questa evidenza. Tra l’altro, come in Leone, Tarantino prende un genere storico per eccellenza che non appartiene alla sua cultura di appartenza e, con la sola forza dell’immaginazione cinefila, lo riplasma e riformula. L’operazione e’ leoniana oltre ogni misura. Film cinefilo piu’ di tutti gli altri, Kill Bill corrisponde, anche cronologicamente, a C’era una volta il West per Leone. Saggio sul cinema e sui suoi archetipi, fatto da un cinefilo per altri cinefili. Bibbia della regia e delle possibilita’ tecniche del cinema. Film smisurato ed epico, anche nella lunghezza, di pura bellezza cromatica, fotografica e sonora. Confrontate le due filmografie e vi renderete conto che Tarantino sta modellando la sua su quella di Sergio Leone. Con una consapevolezza di se’ assoluta e sconvolgente (Tarantino e’ tutto tranne che un genio incosciente). Da Argento c’e’ il gusto eccessivo del sangue e delle coreografie di morte, con anche alcune citazioni esplicite: il moncherino di Tenebre, e la pallottola di Opera. La struttura narrativa. Che e’ quella di un romanzo, con tanto di capitoli. E quindi non lineare, con situazioni anticipate, poi riprese, lunghe digressioni a raccontare il passato di un personaggio, eccetera. Inutile dire che tutto questo e’ gestito con una maestria realmente mozzafiato e rivoluzionaria. A livello di struttura narrativa fara’ ancora piu’ scuola di Pulp Fiction. Sotto quest’ottica e’ non solo giustificato, ma addirittura necessario, il taglio in due “volumi”: come un libro troppo grande e smisurato. Eppure, si sente dire da piu’ parti che Kill Bill sarebbe solo un film di regia e non di sceneggiatura, un film “senza storia” e altre caz…e analoghe. La realta’ e’ che Tarantino e’ maturato ancora di piu’ e adesso non si balocca piu’ con i soliti sproloqui pulp che, oltretutto, rifatti ancora oggi suonerebbero solo di maniera. Sta a livelli molto piu’ profondi in Kill Bill, e lo si vede da come ama e descrive i suoi personaggi. Il dolore di Uma commuove e appassiona, tifiamo per lei, la seguiamo col fiato in gola, e i cattivi sono veramente cattivi. Fanno paura, li si sogna la notte, terrorizzano. Bill si staglia come un’entita’ suprema di malvagia assoluta, anche se non lo si vede mai per tutto il film. Tremo al solo pensiero di conoscere il suo aspetto fisico nel secondo volume. E perche’, la ragazzina che brandisce la mazza ferrata? Non fa paura? La violenza e’, qui, realmente sconvolgente. Altro che fumettistica. Fumettistico sara’ Rodriguez. La violenza di Kill Bill e’ durissima, atroce, fa male allo stomaco. Fa stare sulle spine. Chi non e’ rimasto traumatizzato dalla prima inquadratura? Quella dello sparo? Non e’ bellissima? E poi, i combattimenti. Dove avra’ imparato Tarantino siffatta maestria registica nelle scene d’azione? Il bello e’ che a differenza di tutti i combattimenti dei vari action-movie digitali odierni, vedi Matrix, quelli di Kill Bill risultano comprensibili e si fanno seguire in apnea, sono pregni di suspense, non annoiano mai, non si ripetono mai uguali. La narrazione e’ sempre al primo posto, anche nell’azione. E poi, Kill Bill commuove. E’ il piu’ “caldo” dei film di Tarantino, al cui confronto Pulp Fiction sembra veramente un giochetto cerebrale composto a tavolino. Kill Bill emoziona nel profondo, fa piangere e fa paura, e’ realmente popolare. Ed e’ delirante, una successione di trovate registiche assolutamente sregolate e folli. La scena iniziale del combattimento con la negra ha i colori squillanti, pop, di un Diabolik di Mario Bava. Occhio al decòr, ai colori pastello delle porte e della tappezzeria, e’ tutto assolutamente magnifico. E poi il cartone animato giapponese, puro melodramma barocco di inusitata bellezza e poesia. Ancora una volta viene spontaneo chiedersi: dove avra’ imparato? Finora era un regista di tre capolavori. Ma adesso e’ oltre, perche’ la grandezza di Kill Bill e’ tale che quei tre film al confronto svaniscono, risultano invecchiati, delle cosucce. E con Kill Bill realizza si’ un film piu’ di genere puro, meno classico ed europeo, piu’ vicino a un Rodriguez per intenderci, ma al tempo stesso con una profondita’ che Rodriguez si sogna la notte. Confrontate con Once Upon a Time in Mexico (sia chiaro, un capolavoro, ma che rispetto a Kill Bill risulta una sciocchezza di poco conto). Rodriguez si limita a frullare le sue citazioni da Leone in un gran divertissement che pero’ rimane a un livello superficiale, di mero omaggio postmoderno. Tarantino no. Tarantino *e’* Leone. Non lo cita, ma ne restituisce la profondita’ e la grandezza di sguardo e contenuto.

Kaplan

Recensione n.4

° Uscita da quattro anni di coma, la Sposa vuole vendicarsi di chi, il giorno del suo matrimonio l’ha massacrata e ha ucciso l’infante che teneva in grembo, ovvero la squadra di gangster al femminile capitanata dal misterioso Bill di cui anche lei faceva parte. Come recitano i titoli, “il quarto film di Quentin Tarantino” (ma sarebbe meglio dire la sua prima metà) è un capolavoro, nudo e crudo, senza mezze riserve: nato come pastiche-omaggio ai generi popolari più disparati da lui amati (dai kung-fu movie agli spaghetti-western, dal thriller argentiano agli anime giapponesi fino addirittura alla Sposa in nero di Truffaut: ma le citazioni sono davvero troppe), Kill Bill è la storia di una vendetta (“un piatto che si degusta freddo” come recita l’antico proverbio Klingon di startrekiana memoria), di un’umanità femminile straordinariamente vitale e letale. Tarantino non dimentica l’origine ma si appropria degli stili di questi generi in maniera personalissima e colta, celebra la violenza e la sua estetica, rende immensa e genialmente sgangherata una storia lineare e finanche banale smontando l’unità temporale e dividendo l’opera in capitoli come fosse un romanzo, fa poesia e regala dignità umana a personaggi che in mano ad altri si può solo tremare cosa avrebbero potuto diventare, esalta e commuove a ogni singolo fotogramma, gestisce lo spazio della messinscena con una totale libertà che sì fa, più di qualsiasi altra cosa, tanto anni Settanta. Dietro, c’è già la leggenda, com’è nelle corde di un autore scaltro anche dal punto di vista commerciale come Tarantino (la versione giapponese più lunga di due minuti; Tarantino che, novello Von Sternberg, aspetta che la sua musa partorisca in modo che, fra l’altro, si immedesimi maggiormente nella parte; la spezzatura in due volumi, voluta dai fratelli Weinstein della Miramax, sarebbe stata concepita precedentemente anche dallo stesso regista) e sarebbe deleterio citare tutto e tutti. La critica, in casi come questi, dovrebbe fare un atto di scomparsa, un estremo gesto di umiltà atta a sancire la sua totale inutilità: Kill Bill è pura somma visione, degna dei nomi/numi di Leone e Argento ai quali Tarantino si inchina, e ogni parola spesa in più si rivela innocua e inadatta alla sua comprensione e alla sua descrizione. È un film che non va spiegato, razionalizzato, scritto, analizzato, riportato in tutta la sua ricchezza di testi e sottotesti; è cinema-cinema come forse non se ne fa più, che aspira soltanto a essere visto e rivisto e che, allo stesso tempo, esige fortemente e tautologicamente una re/visione. Mi si permetta, però, di citare almeno la tagline da urlo: “In the year 2003 Uma Thurman will Kill Bill”. BN/COL AZ-ANIM 111’ * * * * *

Roberto Donati

Recensione n.5

Sergio Leone, cinema nipponico ed anime: questi elementi, tra estasi cinefile e prudenti ridimensionamenti, verranno in ogni caso ripetuti per descrivere Kill Bill.
Ed è un passo inevitabile, oltre che comprensibile: ogni singolo, splendido fotogramma trasuda di loro reminiscenze, si gonfia della loro linfa, ne porta addosso l’odore.
Combinando e disfacendo, Tarantino perfeziona la corsa alla de-strutturalizzazione ed alla contaminazione dei generi che più gli sono cari, iniziata con una già straordinaria padronanza del linguaggio nell’esordio di Le Iene.
Ed è una corsa che sembra aver raggiunto un punto d’arrivo, per l’equilibrio delle componenti che reggono la sua poetica ed il traguardo che tagliano: questo semplicissimo soggetto costruito sulla misura di una vendetta individuale, calibrato sui duelli dei samurai e dei cowboy ed infarcito di grafica da videogioco ed anime, si trasforma infatti in uno dei film più epici di tutti i tempi (bisogna tornare a C’era una volta il West per respirare qualcosa di simile), impreziosito da un’esplosione di densi contrasti coloristici, avvolgenti accostamenti musicali, richiami horror-thriller, eroismo e pathos allo stato puro.
E’ il film più complesso di Tarantino, sia dal punto di vista tecnico che estetico, un frullato impressionante di contaminazioni che però sgorgano in un’opera originale ed autonoma.
Kill Bill è probabilmente il canto del cigno di un’epoca cinematografica che ormai non esiste più.
La tendenza del cinema contemporaneo è infatti quella di ricreare con perfezione mondi irreali, ma verosimili, non più luoghi concreti e quotidiani, ma virtuali ed avvolgenti. Certo, il pensiero corre a Matrix, ma non dimentichiamo che la fantasia diventa verità da Guerre Stellari in poi, con in mezzo un cinema sempre più schiavo degli effetti speciali, volto ad arricchire la realtà di virtuosismi, sempre meno aderente al vero e sempre più vicino ad un videogioco: The Fast and The Furious, The Italian Job, Charlie’s Angels, sono solo le recentissime punte di una deformazione dell’immagine cinematografica che ha un risvolto barocco in ogni genere, dall’azione (pensiamo al ridondante e paradossale inseguimento di Terminator III sullo stile di Matrix) al comico (la metafisica stanza bianca del Dio Morgan Freeman in Una settimana da Dio).
Kill Bill si inserisce perfettamente all’interno di questa tendenza ed anzi la esalta: i coreografici combattimenti mozzafiato sono inscenati in un mondo dove le donne sono potenti e invincibili, gestito da una mafia che si impone e si gerarchizza sulla capacità di combattere con la spada (Bill si rifiuta addirittura di uccidere Uma Thurman con una siringa avvelenata mentre è in coma), nel quale non sembra esistere polizia ma splendono tranquilli vialoni di villette a schiera, e che salta senza nessi logici da figure moderne (la moto da strada, il locale giapponese dove si suona punk-rock, la croce rossa) ad atmosfere mitiche ed arcaiche (il noviziato d’altri tempi presso Hattori Hanzo, lo splendido duello sotto la neve con Lucy Liu). Tutto risiede su di un livello fantastico, ma viene trattato con cruda realtà.
Al contempo, Tarantino canta l’inno di un cinema che non c’è più, parlando con la lingua dei vecchi film popolari italiani e giapponesi, ma come in tutti i suoi film, non c’è malinconia in questo recupero, solo vivace istinto evocativo ed emulativo, un po’ come il cinema di Truffuat guardava quello di Hitchcock.
Ciò che più impressiona è infine un particolare inaspettato: se il mondo immaginato è fantasia che ricalca la realtà e la dialettica delle immagini è, a causa del suo iper-realismo (il sangue che traborda e schizza dai corpi, le teste che volano…), una fumettistica parodia della finzione scenica, la straordinaria attenzione al canale uditivo fa ancor più di Kill Bill un mondo virtuale che investe la platea e la ingloba nello spazio finzionale.
Partendo dal terrificante sparo iniziale e passando per l’enfatizzazione sonora dei pugni, delle sciabolate e delle cadute, le linee di fuga dello schermo si allungano fino alle nostre orecchie, avvolgendoci a tutto tondo.
Non è altro che l’estrema amplificazione dell’interattività nel cinema odierno, la summa estetica di un film che guarda al passato per parlare moderno.

Francesco Rivelli

Recensione n.6

Volpe Forza Cinque di Pulp Fiction si materializza nelle Vipere.
Mia Wallace: “Ognuna di noi aveva una specialità”
Vincent Vega: “La tua qual’era?”
Mia Wallace: “Lame affilate…”

La sensazione è quella di un progetto plastico e totalmente astratto che prende forma, facendo scaturire botte di colori, forme, suoni, emozioni. La violenza è troppo cruda e visiva, perciò viene assopita in modo superbo (BRAVO TARANTINO!) da strategie quali cartoni animati e prese per i fondelli dei film kung-fu di Hong Kong. Stone in Natural Born Killers aveva fatto la stessa cosa: quando diresse la scena delle violenze paterne su Juliette Lewis, aveva inserito risate meccaniche e riprese filmiche da stupida sit-com.
L’inserimento delle musiche dimostra come il regista sappia non autocitarsi ma allo stesso tempo ripercorra ancora una volta quel filone fatto di soul anni sessanta e grandi voci: non poteva essere più azzeccata Bang Bang (my baby shoot me down) di Nancy Sinatra.
Punto centrale del film è assolutamente un’eroina in tuta gialla a strisce nere e scarpe Onitzuka, che non può neppure essere uccisa da una pallottola nel cranio…

Francesco Flomin

Recensione n.7

Detrattori e sostenitori sono pronti alla sfida. C’e’ chi andra’ in estasi e chi si annoiera’ a morte. Ovvio, nessuna mezza misura. Eppure, da qualche parte, deve esserci anche un fronte del “ni”, disposto a uscire dall’aura di mito che circonda Tarantino e a considerare il nuovo “Kill Bill” senza pregiudizi o aspettative. Proviamo a dare voce a questa silente porzione di pubblico. E’ vero, il talentuoso regista americano ha scardinato le sicurezze di un cinema parzialmente omologato, imponendo uno stile citazionista e iper-violento caratterizzato da una rigenerante follia narrativa e da una crudelta’ ai limiti del morboso (oltre che da un background cinematografico in grado di spaziare con disinvoltura da un genere all’altro). Ma, diciamocelo, e’ anche vero che cio’ che era una novita’ ne “Le iene” e si e’ confermato stile, raggiungendo il grande pubblico, con “Pulp Fiction”, e’ oggi, a sua volta, a rischio di omologazione. Tanti, troppi, i cloni e clone a sua volta l’ultima fatica “Kill Bill”, che trova ragione di essere nei continui rimandi cinematografici di cui si compone, configurandosi come un frullato di immagini del non sempre entusiasmante (ma e’ questione di gusti) Tarantino-pensiero. Spaghetti western, yakuza film, gangster-movie, cinema trash, rivisitati attraverso una contaminazione con videogiochi, fumetti e cartoons, danno vita a una storia di ordinaria vendetta che assume, solo a tratti, connotati straordinari. L’inizio e’ folgorante, con un combattimento tra Uma Thurman-BlackMamba e una delle “Vipere” da punire (Vivica A. Fox) interrotto dall’arrivo della figlioletta di quest’ultima e da siparietti da sit-com, con dialoghi di assurda pacatezza e beep sonori a coprire il vero nome della protagonista. Poi la lunga virata giapponese appesantisce non poco la narrazione e lascia ampio spazio ai tempi morti e alla noia, con una meticolosa perizia citazionistica che esaurisce la sua vitalita’ nei modelli di riferimento. Difficile appassionarsi ai pistolotti del maestro Sonny Chiba (icona del tempo che fu) o lasciarsi contagiare dai riti di forgiatura della spada che rievocano un cinema epico e maldestro di cui, non si capisce bene per quale motivo, si dovrebbe sentire nostalgia. Per non parlare dei tanti combattimenti, ben girati ma alla lunga ripetitivi e debitori di coreografie (il solito Yuen Woo-Ping) che da “Matrix” in poi, passando per “La tigre e il dragone”, hanno inflazionato la loro carica rivoluzionaria diventando routine. Gli aspetti piu’ riusciti restano la rapida ed irresistibile caratterizzazione dei protagonisti (all’autore bastano pochi tratti per rendere un personaggio interessante), la non piu’ originale, ma molto divertente ed efficace, assenza di linearita’ del racconto e l’abilita’ in una messa in scena dove nulla e’ casuale e arriva con chiarezza allo spettatore. Niente utilizzo del digitale, ma una tecnica sofisticata e quanto mai diversificata che unisce stili diversi per crearne uno personale. Discorso a parte per la colonna sonora, cui si deve la riuscita di molte sequenze e che ha una valenza quasi narrativa, perfetta sintesi della macedonia di generi al sangue alla base del film. Poi c’e’ lei, Uma Thurman, la musa del regista, colei che ha reso necessario, causa gravidanza, il posticipo delle riprese. Da sempre sopravvalutata, si cala con convinzione nella sposa assetata di vendetta: a volte bellissima, a volte bruttissima, a volte dolce, a volte feroce, a volte scattante, a volte indolente, a volte luminosa, a volte cupa, sempre, comunque, in sintonia con la visione del regista. Quanto ai famosi comprimari, la miracolata Lucy Liu sembra uscita da un travestimento per le Charlie’s Angels, ma non le si chiede molto altro, la rediviva Daryl Hannah e’, per ora, poco piu’ di una comparsa e di David Carradine si vedono solo le mani. Ma siamosolo al primo volume e l mini-enciclopedia sara’ completata a febbraio, grazie a una campagna promozionale della potente Miramax che, cavalcando la moda dei film a puntate e dilatando l’attesa allo spasimo, ha creato un vero e proprio evento mediatico. Sicuramente e’ il Dio Denaro ad avere ispirato la suddivisione in due parti, ma c’e’ da dire che un unicovolume di quasi quattro ore avrebbe rischiato di essere indigeribile, visto che gia’ la prima puntata non scorre proprio inleggerezza. Si attende quindi, con moderato fermento, il secondo e conclusivo capitolo.

Luca Baroncini (da www.spietati.it)

Recensione n.8

Caleidoscopio di generi , di suggestioni visive, sonore, iconografiche, dai fumetti ai cartoni animati, dallo spaghetti western italiano alle orientali pellicole di arti marziali; la grande giostra del cinema tarantiniano si è rimessa in moto, e mai quanto in questa occasione non conosce confini geografici, di contenuto, di stile. Per il suo film più autenticamente di genere l’autore “di culto” degli anni ’90 sceglie il tema classico della vendetta. E sceglie, come di consueto, una narrazione che stravolge l’usuale linea cronologica di accadimento degli eventi, assurta ormai a cifra fondamentale ed immediatamente riconoscibile del suo stile sin dai tempi de “Le iene”. Per cui lo spettatore è immediatamente catapultato all’interno degli eventi, attraverso un incipit al fulmicotone dove la splendida ed agilissima protagonista Uma Thurman ingaggia una lotta all’ultimo sangue con una donna di colore, interrotta dal ritorno improvviso da scuola della di lei figlia; ma la vendetta non si farà attendere troppo. Attraverso questo meccanismo Tarantino tiene immediatamente desta l’attenzione dello spettatore, salvo poi spiegare l’antefatto a giustificazione di quel primo episodio. Fino a qui niente di nuovo, un’enorme quantità di pellicole di genere, americane e non, adottano il medesimo stratagemma. Ma non si tratta d’un elemento di debolezza del film, tutt’altro.
Come detto il regista recupera meccanismi, vezzi, caratterizzazioni del cinema di genere in toto, ed approdato ormai alla quarta opera possiamo sostenere che il suo cinema si ponga l’ambizoso obiettivo, secondariamente al principale che resta quello di divertire, di nobilitare la tradizione storica di tutta quella fetta di cinema immeritosa dell’appellativo “d’autore”. Ormai tutti conoscono la passione smodata e spesso esplicitata dall’autore stesso per i polizziotteschi, gli spaghetti-western, i film di kung-fu eccetera, e la leggenda dell’adolescente che, come gestore d’un videonoleggio, passò anni a divorare queste poco note pellicole. Ed allora come negare che l’obiettivo della sua opera sia analogo a quello portato avanti attraverso la sua casa di distribuzione, che restituisce allo splendore del grande schermo lavori di autori underground (Jack Hill) o sconosciuti negli States (Mario Bava)? Appare dunque normale che egli utilizzi i medesimi meccanismi di creazione della suspense che da giovane imparò a metabolizzare. I riferimenti più espliciti del film sono evidentemente orientali, le scene di combattimento, che monopolizzano gran parte degli avvenimenti narrati, vedono l’utilizzo di molti strumenti da taglio, coltelli, spade, ma anche lotte corpo a corpo, il tutto reso ancora più affascinante dal fatto che i corpi che si affrontano sono quelli di splendide fanciulle, la Thurman e le sue tre rivali, mentre il personaggio del titolo in questo primo episodio non fa che fugaci apparizioni.
Litri di sangue, arti mozzati, plasticità dei movimenti, ed i personaggi che diventano delle maschere, delle macchiette, decisamente fumettistici e caratterizzati “con l’accetta”, nel senso di connotarli attraverso pochi ma efficaci elementi. Un’inversione di tendenza rispetto al precedente “Jackie Brown” dove si dava risalto al lato umano dei protagonisti. Ora Tarantino si riappropria di tutto il suo immaginario, come e forse più di quanto fece ai tempi di “Pulp Fiction”, infatti qui appare addirittura un episodio di cinema d’animazione che narra la tragedia che convinse la giovane orientale (Lucy Liu) ad entrare nella squadra delle “Vipere”. Impressionante la mole dei riferimenti, sui quali ognuno può sbizzarrirsi a suo piacimento. A me sono venuti in mente, tra gli altri, molti cartoni animati nipponici, da Ken Shiro a Occhi di gatto, Charlie’s Angels (il telefilm), e una citazione fin troppo evidente nell’uso della colonna sonora; gli squilli di tromba e le epiche melodie della parte centrale del film non possono che provenire direttamente dal cinema di Sergio Leone. Non si deve cadere nell’errore di pensare ad un calderone assemblato alla bell’e meglio, l’impronta personale del regista (sin dai titoli di testa, con il celebre logo di ieniana memoria della sua “A Band Apart”) ed il suo controllo sulla messa in scena sono indiscutibili. Certo il film non ha una vera e propria conclusione, ed un giudizio ponderato potrà essere dato solo dopo avere visto il secondo volume, ma credo tutti gli spettatori fremano per sapere che ruolo che giocherà il Bill del titolo e l’esito della vendetta di Black Mamba-Uma Thurman. Da questo punto di vista l’obiettivo del film può dirsi raggiunto. E non si può nemmeno contestare l’eccessivo protrarsi delle scene di combattimenti, assolutamente inverosimili, dove la bionda protagonista affronta e sconfigge un’orda interminabile di uomini; pensate alle pellicole di Spencer e Hill, basate nella loro interezza sulle celebri scazzottate. Tarantino è coerente fino in fondo con la sua idea di cinema, forse come mai aveva fatto in passato. L’influenza più evidente, quella orientaleggiante, origina l’accostamento con un film tra poco sugli schermi (visto in concorso a Venezia) di Takeshi Kitano, la più occidentale delle opere del maestro nipponico, Zatoichi.
Certo, si tratta di autori che possiedono marcate differenze, ma non si può negare un’evidente radice comune d’immaginario, negli zampilli di sangue sgorganti dai vari arti mozzati, nei lunghi combattimenti. Non voglio riferirmi ad una banale globalizzazione dell’immaginario, al contrario parlo di un tessuto comune di riferimenti che mischia cinematografie di diverse provenienze e di diverse qualità (nessuno può mettere in dubbio che Kitano sia autenticamente un autore), dimostrando come la grande arte non sia l’espressione di esigenze e suggestioni meramente locali, legate ad una determinata cultura. E dimostrando come il cinema possa assurgere a straordinario strumento di diffusione della cultura e della conoscenza. Tutto il cinema.

Mauro Tagliabue

Recensione n.9

C’è chi ha parlato di capolavoro assoluto, chi di summa del genere “exploitation”, chi di straordinario omaggio a generi cinematografici fra i più disparati. C’è chi ne elogiato la forma scintillante e lo stile accattivante, chi addirittura ci ha ravvisato significati e contenuti profondi, riflessioni apocalittiche sulla violenza e sulla superficialità di chi ne fa uso.
Il quarto film di Quentin Tarantino, a cinque anni da Jackie Brown, esce dopo un’attesa lunghissima con una precisa responsabilità: dimostrare, dopo due film “giocattolo” e uno che costituiva uno “scherzetto” in tono minore, che il ragazzo onnivoro cinefilo è cresciuto, è maturo, ha finito di divertire soprattutto se stesso ed è in grado di mettere il suo grande talento al servizio di un film vero, di un concetto da esprimere, di un’etica, di un contenuto.
Ebbene, al di fuori di sterili dibattiti generali tra post-modernisti, modernisti e classicisti, il film di Tarantino sfugge completamente alla responsabilità cui è chiamato, caratterizzandosi come la più auto-compiaciuta delle sue opere, straordinaria sul piano della vorticosa commistione di generi, citazioni e riferimenti culturali, ma anche come la più intensamente fine a se stessa, o peggio, al suo autore.
Frullando suoni, immagini, luci ed ombre il ragazzo del Tenessee crea sequenze straordinarie, come l’intero episodio nel locale giapponese, come l’iniziale scontro tra Black Mamba e Testa di Bronzo o come altre piccole gemme sparse qua e là, spesso visivamente straordinarie, speso orchestrate e coreografate come degli irresistibili balletti (e ci riferiamo soprattutto ai divertentissimi combattimenti, che senza effetti speciali digitazlizzati o ritocchi successivi ammiccano ai film di kung-fu e fanno il verso agli scontri di Matrix spazzandoli via però per auto-ironia e ritmo) e soprattutto accompagnate da una colonna sonora strepitosa, anch’essa frutto di un eccezionale lavoro di copia e incolla che non ha eguali nel cinema post-moderno.
Le citazioni si sprecano, visive, come la tuta della Thurman che riprende quella di Bruce Lee in Game of Death (L’Ultimo Combattimento di Chen), viventi, come la presenza di Carradine-Bill, mai inquadrato in volto in questo primo episodio, interprete di molti film di kung-fu negli anni Settanta, cinefilo-registiche, come alcune scelte nel montaggio, nelle luci, nelle inquadrature, addirittura nei titoli di testa, in alcuni stacchi strumentali, che richiamano talvolta gli spaghetti-western, talvolta i B-splatter di cassetta degli anni Settanta, talvolta i sopraccitati kung-fu movies, altre volte ancora il parossistico cinema di Hong-Kong alla John Woo. Tutto mescolato con una geometria mirabile, con un ritmo indiavolato e con una padronanza di ogni genere e riferimento che lascia sbalorditi e giustifica anche quelle trovate “postmoderne”, dallo split-screen agli anime giapponesi, che spesso possono far storcere il naso. E tutto ciò costituisce lo straordinario “involucro”. E dentro? Ecco il problema. Tutto ciò e l’involucro e tutto ciò è … tutto. Non c’è altro. Anzi, a volte quello che si intravede è addirittura preoccupante: la violenza efferata e crudele che permea tutto il film è assolutamente gratuita, non ha giustificazioni contenutistiche e regge solo grazie alla sottesa auto-ironia, che a volte, tuttavia, viene meno. E a quel punto il film disturba, apre squarci su una desolante assenza di valori che non appare, purtroppo, come un contenuto elaborato (quanti capolavori costruiti su un messaggio nichilista di assenza di valori?) ma come una caratteristiche della psiche dell’autore, scorretto, a volte, nel colpire lo spettatore con bassezze ingiustificate. Il boss pedofilo? L’infermiere necrofilo? Perché? Quale giustificazione trovano simili elementi? E altre cadute di stile, come il picciotto della Yakuza sculacciato con la katana? Allentano la tensione o fanno cadere le braccia? Si diverte più lo spettatore ad essere maltrattato o Tarantino a colpirlo beffardamente a ripetizione?

Simone Spoladori

Recensione n.10

Concordo con alcune delle definizioni lette sul sito: Il primo vero capolavoro di questo millennio, al suo cospetto molti altri film diventano d’improvviso vecchi, ‘lenti’ e scontati.
Critica soggettiva.
Passano i giorni e il film resta lí, le scene non vogliono proprio finire nel dimenticatoio, anzi le scene si affacciano sempre piú spesso nella memoria.. “Bang Bang, Bang bang, my lady shot me down” Merito del regista, della musica (merito del regista che ama com noi certi riff di chitarra), della scenografia (ancora merito del regista), della sceneggiatura rigorosa (idem) – merito di una stratosferica Uma Thurman, bellissima diva, umanissima diva. Piangiamo con lei il suo immane dolore, amiamo tutto di lei, i suoi occhi, il suo scatto, il suo sorriso da ragazza timida, il suo risveglio dal coma (qui sí che il ralenty è azzeccato, mica come nei combattimenti di Matrix!), amiamo perfino i suoi piedoni (ad occhio diremmo minimo un 43..) ben inquadrati in primo piano. In questo film, ti sorprendi ad appassionarti di Katane e di cartoni animati giapponesi (robe che in altri contesti potrebbero non farti impazzire), riesci anche a ridere e tra le righe ci vedi Quentin che ti strizza l’occhio.
“Bang Bang, Bang bang, my lady shot me down” Pensateci: prendete un qualunque fotogramma di Kill Bill, fatene un poster e appendetelo nella vostra cameretta!

Jean Bodò

Recensione n.11

… cinema allo stato puro.
Questo e molto altro è Kill Bill, ultima fatica di quel genio e mostro che è Quentin Tarantino.
Genio perché non si può non trovare assolutamente geniali certe intuizioni giocate tanto sulla suspence quanto sulla sorpresa. Mostro perché solo lui a volte sembra capace di tanta crudeltà.
Ma nonostante tutto Kill Bill è un film umile. Non pretende di inventare niente, ma anzi va a pescare stereotipi già visti.
E lo fa sfoderando un sottile quanto perfetto gioco di contaminazione che forse rappresenta il punto più alto della genialità del regista.
Tutto, trama, scenografia, musica, è contaminato. I combattimenti, il sangue, i duelli e quell’insano desiderio di vendetta che anima tutto il film non sono niente di mai visto. Il bello è che si propongono comunque come un’innovazione approfittando di elementi vecchi per dar vita un autentico “nuovo”.
Così per esempio sono i sottofondi musicali alla Morricone che fanno da sfondo a scene di una violenza esorbitante in cui Uma Thurman lotta come un’invasata indossando la mitica tuta gialla a righe nere che portava il re del Kung Fu di tutti i tempi: Bruce Lee. O la ripresa del fumetto manga giapponese che come un flash spiazzante quanto divertente racconta, sempre con tracotante violenza, una storia dentro la storia, quella di Cottonmouth – “Mocassino Bagnato” – una delle giovani e belle assassine di Black Mamba, diventata boss della mafia giapponese, a cui viene persino dedicato l’onore del combattimento finale.
Ogni personaggio, buono o cattivo, ha nel film di Tarantino la sua storia e in realtà è difficile persino riconoscere il male visto che anche le azioni più crudeli vengono vissute con un sentimento pervaso dal senso dell’onore e del dovere. Il dovere della vendetta.
La bellissima quanto agguerrita Uma-Black Mamba ha infatti un unico scopo nella vita. Risvegliatasi dopo 5 lunghi anni di coma deve uccidere i colpevoli: suo marito Bill (reo di aver fatto ammazzare anche la figlia che lei portava in grembo) e il resto della squadra di cui anche lei faceva parte, le “Deadly Viper Assassination Squad”, un’organizzazione di killer al femminile.
A poco a poco la bionda protagonista riesce a perseguire il suo scopo e per farlo non si ferma davanti a niente. La cosa buffa è che anche nelle scene più forti e violente il film rimane profondamente ironico e divertente. Il merito và sicuramente alla velocità e all’assurdità di certe scene e ambientazioni ma anche al mix di elementi opposti e da continui cambi di stili e generi cinematografici.
Kill Bill è il senso di Tarantino per il cinema, un cinema tutto suo, unico e inimitabile costruito sulla base, forse irrazionale, dei gusti personali del regista. Ecco così colonne sonore alla spaghetti western o la musica di uno struggente flamenco fare da sfondo ai combattimenti più cruenti e scene di morte venir consumate nei colori vivaci e allegri di una cucina da tipica famiglia americana, tra i corn flakes e le torte di mele… Irrazionale quanto imprevedibile, Tarantino è questo ma anche molto altro… d’altro canto siamo solo al Volume I.

Giorgia Zamboni