USA-GIAP 2004 di Quentin Tarantino con Uma Thurman, David Carradine, Daryl Hannah, Michael Madsen, Vivica A. Fox, Lucy Liu, Michael Parks, Gordon Liu (Chia Hui Liu), Larry Bishop

Recensione n.1

Sorprendente.
Quasi misticheggiante nella sua perfezione estetico/formale.
I primi due pensieri post visione di Kill Bill vol.2.
Sorprendente: ci si attende un film d’azione con contaminazione di mille generi di action movie… invece ecco un film dove il sentimento prevale sull’azione…
La Sposa continua la sua sanguinosa vendetta, ma Tarantino decide stavolta di mostrarci il “dietro le quinte” della Sposa e degli altri, i “cattivi”. Scopriamo così una ricerca del sentimento da classico film western (“Sentieri Selvaggi”). Non a caso infatti si sprecano le inquadrature e gli omaggi al genere. Appare una lentezza narrativa del tutto impensabile dopo il volume 1. E anche la musica aggiunge poco a quanto udito nel primo episodio.
Lo stesso Tarantino ci tiene a precisare che “il primo film, per quanto buffo che sia, voleva essere un film vero e diretto di vendetta, vendetta al femminile che è molto più giapponese; c’erano sì toni da spaghetti western, ma erano appena accennati. Tutti abbiamo visto i film di vendetta, non avevo bisogno di ripetere la storia per la milionesima volta”.
Misticheggiante: si rimane estasiati dai repentini cambi di registro, di genere, di citazione, di colpi di scena, di inquadrature, dai rallentamenti e dalle accellerazioni narrative…un’esperienza forse mai provata prima in una sala cinematografica.
Kill Bill si conferma “il film” per eccellenza che incarna appieno il nuovo millennio.
Andate a vederlo, forse non lo amerete, ma lo “sentirete”.
Tarantino vorrebbe far uscire i due capitoli come se fossero un unico film in una sorta di Director’s Cut, che prevede quindi anche l’aggiunta di alcune scene inedite. L’uscita è prevista sia al cinema che in Dvd.
Intanto la voglia di realizzare un terzo film sembra aver contagiato seriamente Tarantino, che però non specifica bene di cosa parlerà questo nuovo tassello che si unirà a Volume 1 e 2. Secondo quanto dichiarato dal regista, ci vorrà non prima di quindici anni per iniziare a lavorare seriamente a questa nuova pellicola, visto che nel frattempo è intenzionato a dedicarsi a nuovi progetti.

Vito Casale

Recensione n.2

Si può piangere quando si vedono le immagini di un film, senza che queste stiano rappresentando una scena d’amore o di dolore? Sì, si può. “Kill Bill Vol.2.” è l’esperienza più emozionante che mi sia capitata di vivere da tempo all’interno di una sala cinematografica. Quentin Tarantino ha dichiarato che probabilmente per un terzo capitolo della saga di Bill dovremo attendere quindici anni. Questo perché anche lui si è reso conto di avere messo in scena qualcosa di inarrivabile, difficile da ripetere, che potrebbe avere un seguito solamente quando il corso del tempo avrà cambiato le cose e le persone. La seconda parte di “Kill Bill” corre sulla pelle, e trasforma la violenza della prima parte, espressione della rabbia di Black Mamba, in una riflessione emotiva sulla vendetta. Ora non è più una necessità, ma un piatto da consumare freddo, lentamente, con il piacere di gustare ogni singolo attimo. Un abbraccio alla figlia, un pianto di commozione, un viaggio in macchina. Tarantino rallenta i tempi, li lascia assaporare, fa accadere le cose, e sostituisce la spada, compagna di ventura e di odio, con la filosofia, quella orientale, quelladi Pei Mei, che usa la saggezza (il continuo toccarsi la barba) e le mani, simbolo dell’umanizzazione dei sentimenti. La musica di Morricone viene chiamata in causa per aggiungere e introdurre il potere della dolcezza, che pervade lo schermo insinuandosi nella durezza delle immagini e negli occhi di Uma, idimenticabile in ogni scena. “Kill Bill Vol.2” è anche un omaggio a un certo cinema, e riferimenti si sprecano. Da Leone ai film di Kung fu, da Lucio Fulci alla “Black Exploitation”, Tarantino ha fatto sorbire ai suoi attori decine e decine di film e ha trascinato con l’entusiasmo il suo gruppo in una girandola di sensazioni, colori e suoni che hanno lentamente costruito il suo manifesto. Perché, si il regista ha fatto un film per il pubblico, ma anche per se stesso, per dire davanti allo specchio: “Cinema ti amo”.

Mattia Nicoletti

Recensione n.3

La seconda parte del quarto film di Quentin Tarantino comincia là dove era iniziata la prima, in quel meraviglioso bianco e nero che ritrae la Sposa insanguinata, accarezzata da una mano che potrebbe essere di un carnefice o di un’amante, senza però che il colore del sangue ne accentui la drammaticità. Eppure, se questo esordio non era nel primo episodio di buon auspicio, data la montagna di combattimenti e squartamenti propinatici, questa volta si dimostra buon profeta, difatti la violenza stempera la propria carica aggressiva e ridondante, i tempi si dilatano e la cronologia narrativa si compone di tanti brandelli di storia, schegge impazzite che si confondono e ci confondono, a cominciare proprio dall’episodio scatenante la vendetta, tema centrale della pellicola, girato per l’appunto senza colori e nel quale l’esecuzione spietata viene improvvisamente estromessa dallo splendido innalzarsi di un dolly. La vendetta acquista col passare dei minuti una valenza quasi romantica, spirituale, grazie soprattutto alla geografia dell’ambientazione, che perde le accezioni metropolitana ed orientale del primo episodio per ritornare alla terra amata, l’America rurale delle highways e del cinema western, al confine con il Messico. Ritroviamo così le strade polverose, i cappelli e gli stivali dei cowboys, tanto per ribadire ancora una volta i riferimenti cinematografici del regista (che finalmente, dopo tante colonne sonore “alla Leone”, sceglie di utilizzare direttamente una partitura morriconiana). Il Bill del titolo acquista il ruolo centrale che tutti si attendono, grazie anche al magnifico volto di David Carradine, duro come una pietra ma carico di fascino ambiguo, che riesce a fare apparire quasi giustificabile l’orribile gesto commesso. Ma la caratterizzazione più preziosa è quella di Michael Madsen, il duro che deve cedere alle esigenze della sopravvivenza e lasciarsi maltrattare dal datore di lavoro, mostrando splendidamente come anche per lui la vita di tutti i giorni sia lastricata di sofferenze e frustrazioni; strazia il cuore vederlo tornare di sera nella sua baracca come un cane bastonato, ed ascoltare nella penombra del crepuscolo una romantica ballata di Johnny Cash.
Questo volume due chiarisce gli intenti dell’opera tarantiniana che nell’uno restavano poco chiari; l’impronta marcatamente e spudoratamente di genere di attenua, e nel complesso l’opera rappresenta davvero la perfetta fusione tra la stilizzazione di Pulp Fiction e l’”umanizzazione” di Jackie Brown, per la quale anche se gli eroi compiono imprese impossibili, in fondo possiedono anche loro dei sentimenti comuni agli altri esseri umani, tanto che l’epopea di Uma Thurman trova, al di là dei suoi stessi intenti, una giustificazione nobile, ovvero il ricongiungimento con la figlia.
Il merito dell’autore sta nel rifiutare ogni univocità di lettura della sua opera, difatti gli elementi più disparati fanno capolino continuamente tra i solchi della rappresentazione, passando dalla classicità della Hollywood classica ai generi “stranieri” (western-spaghetti, kung fu…), le scelte stilistiche si modificano di continuo, dal bianco e nero alle cromature sporche da telefilm anni ’70 alle tipiche lentezze del cinema d’autore, ed il tempo si attorciglia in soluzioni mai banali. In ultima analisi un film sul cinema, l’opera d’arte più ricca di colori, sapori ed opzioni stilistiche dell’autore statunitense, che farà certamente la gioia dei suoi fans. Io continuo a preferirgli la classicità di Jackie Brown, ma è un’opinione strettamente personale, ed in ogni modo Tarantino dimostra di essere tra i pochi cineasti ad essere sempre in movimento; la sua è una vera e propria febbre di ricerca o, parafrasando Chaplin, una febbre dell’oro.

Mauro Tagliabue

Recensione n.4

Continuando a seguire quella che era la frase pubblicitaria del primo volume (“A roaring rampage of revenge”), la Sposa incontra e affronta gli altri tre suoi nemici: Budd, il fratello alcolizzato di Bill; Elle Driver, la cinica monocola, e, infine, il suo ex amante nonché maestro Bill, per la cui squadra di killer lavorava. Rischierà di essere sepolta viva, “resusciterà” (nella sceneggiatura originale si legge “like Fulci’s zombies”), ritroverà sua figlia B.B., che credeva morta. E scopriremo che Black Mamba è anche Beatrix Kiddo e una dolce mamma. Uscito sei mesi dopo l’ouverture, il volume 2 rischia la delusione di chi era rimasto estasiato dal precedente campionario di icone, feticci pop e aggressioni visivo-sonore: sorprendentemente, infatti, Tarantino imposta il film su toni e stili nettamente divergenti, quando non contrastanti. L’azione è sostituita da dialoghi calibratissimi e di rara intensità (Carradine che disquisisce di pesci rossi, vita e morte mentre prepara dei sandwich o che metaforizza la natura da killer di Beatrix tirando in ballo la genetica supereroistica di Superman), il tono si abbassa e si fa intimista, i ritmi si dilatano interiormente: con questo, Tarantino non rinuncia al suo cinema grandiosamente citazionista (soprattutto Zhang Che e i kung-fu movie degli anni ’70 nel capitolo dedicato a Pai Mei e, in generale, gli spaghetti western – in colonna sonora ci sono almeno sei tracce di Ennio Morricone – non disdegnando neppure la porta aperta sull’orizzonte del Sentieri selvaggi fordiano) e rende ancora più vivi e pregnanti i suoi personaggi, confermando la convinta impressione che il primo volume non era soltanto un baraccone fine a sé stesso. E se, tra un incipit in bianco e nero da antologia e un catfight di rara efficace violenza, il film mantiene una sua coerenza impressionante (chissà cosa succederà quando il film uscirà nella versione montata a film unico?), l’ultimo capitolo introduce finalmente un Tarantino inedito, spiazzante e altrettanto sorprendente: romantico, tenero, fieramente démodé. E, si badi bene, non è la poesia dei perdenti o dei disillusi dei suoi precedenti film: qui tira in ballo sentimenti genuini e “positivi”, come l’amore coniugale e filiale, il senso della maternità e quello della femminilità, l’accettazione serena che è possibile cambiare vita da una parte e della morte dall’altra. In un contesto del genere, dunque, il duello finale con Bill, brevissimo e addirittura risolto a sedere, è un colpo d’ala che toglie il fiato e costringe a ripensare tutto il film non come una banale vicenda di sanguinosa vendetta ma come una sfolgorante e sensuale storia d’amore (si vedano le immagini finali sui titoli di coda in cui, davanti a trasparenti genialmente hitchcockiani e con in sottofondo Goodnight Moon di Shivaree, la protagonista guida finalmente pacificata per strade nonostante tutto tortuose e ancora curvilinee), un melodramma sulla perdizione e la redenzione in cui la violenza dei sentimenti è ancora più forte e lancinante di quella dei corpi intesi come macchine per uccidere. Nota bene: se il proiezionista fa il bravo (e, ahimè, in Italia non è davvero detto), c’è una simpatica bonus scene al termine di tutti i lunghissimi titoli finali.
BN/COL AVV-KU FU 137’ * * * * *

Roberto Donati

Recensione n.5

Una porta che da un interno buio, dove è collocata la macchina da presa, apre verso un esterno luminoso, simmetrica nel centro del quadro. Solo che La Sposa, a differenza di John Wayne in Sentieri Selvaggi, non la varca completamente. E’ una tra le prime sequenze di Kill Bill – Vol. 2, che potrebbe ben rappresentarne il senso. Il citazionismo continuo, il riutilizzo di materiale “altro”, non diviene mai completa aderenza al mito, ad un genere, ad uno stilema definito, bensì risulta solo il trampolino di lancio per uno stile ormai personalissimo, riconoscibilissimo, che può piacere o non piacere, ma che è assolutamente cinema allo stato puro. Un gioco pop-intelletttuale che prende, sempre, una strada propria, autonoma, che riesce, nella referenzialità evidente, a sorprendere sempre. E se il volume 1 di questo Kill Bill stupiva per lo stile vorticoso, per il lussureggiante rimpasto di elementi delle più disparate provenienze, continuamente accelerati, e per le discutibili “scorrettezze” morali ai danni dello spettatore, questo secondo capitolo sorprende per il testuale ribaltamento dei caratteri salienti del primo, rimanendo, con un’abilità fuori del comune, nell’ambito della stessa cifra stilistica. Per cui laddove il primo era azione, violenza, ritmo, questo è dialogo, respiri ampi, meditazione, e anche rigore morale. Perché a parte qualche infrazione, come l’occhio di Daryl Hannah/Elle Driver schiacciato sul pavimento dal piede della sposa, Tarantino rispetta lo spettatore. Esempio ne è la straordinaria sequenza del matrimonio, il Capitolo Sei – Massacro ai Due Pini, il primo di questo secondo capitolo, in cui la macchina da presa di Quentin esce dalla cappella con uno straordinario carrello all’indietro, inquadra i killer pronti ad entrare in chiesa e si allontana, alzandosi a volo d’uccello, facendo solo intuire dal rumore degli spari cosa stia accadendo.
Si è detto che questo Kill Bill vol. 2 è soprattutto un film di dialoghi; i quali non raggiungono la follia e la divertentissima inutilità di Pulp Fiction, ma rimangono un esempio straordinario di parole al cinema, un campionario di battute divertenti, ironicamente epiche, fintamente solenni, che si mescolano con una colonna sonora come sempre eccellente, in cui spicca un brano di Morricone. I dialoghi consentono a Tarantino di giocare per tutto il film sulla figura del campo/controcampo, realizzata con mille e più variazioni, originando momenti di grande cinema (si veda il dialogo tra Bill e La Sposa al tempio di Pai Mei, in cui il volto dell’uomo è ripreso attraverso il riflesso nello specchietto dell’auto e rimane in campo al fianco di quello della Sposa).
E l’apparente futilità degli straordinariamente ritmati dialoghi consente a Tarantino, come in Pulp Fiction, di mostrarci come nel suo mondo gli eroi, né buoni né cattivi come nella diegesi di ogni spaghetti-western, agiscano straordinariamente con la massima naturalezza, mentre le vere sconfitte maturano nella “normalità”. Micheal Madsen dà il volto al più emblematico, in questo senso, dei personaggi, che, iniziata una “pulita” carriera da buttafuori, lui funambolico killer e improbabile formidabile spadaccino, subisce le cattiverie del suo datore di lavoro, rassegnato, per poi tornare alla sua solitudine accompagnato da una ballata di Johnnny Cash. Un romanticismo toccante e al tempo stesso divertito, che penetra, coerentemente, in universo ideale fatto di rutilanti frammenti di strati culturali apparentemente inconciliabili tra loro. Come non ridere di gusto al momento del confronto tra Bill e La Sposa, quando lo spietato killer si inerpica in una serie di riflessioni divertentissime sugli eroi dei fumetti? Un folgorazione geniale e beffarda, che trova linearità solo grazie alla forza prorompente del regista del Tennessee.
Delle continue sorprese che il film riserva, il finale ne rappresenta forse la più grossa. Un lieto fine improbabile, mieloso, hollywoodiano, che viene, tuttavia travolto dall’ironia beffarda e vitale di Tarantino, che pare filmare questa sorprendente conclusione con una grassa risata, venata di malinconia e romanticismo.
Un film sorprendente, quindi, sotto tutti gli aspetti, e superiore al primo, di cui non è una semplice “prosecuzione”, ma una sorta di seguito stilisticamente del tutto slegato dal primo, e ad esso unito dall’indiscutibile capacità del suo autore, unico regista in grado di gestire, con tale uniformità, il gusto sardonico dell’assimilazione onnivora di riferimenti di livelli svariati. Un’unica domanda, continua a sorgere, soffocata da tanto splendore: ci divertiamo più noi spettatori ad inseguire, meravigliati, la foga assimilatoria di Tarantino, o è lui, che si continua a sollazzare filmando il suo immaginario? Forse fino a che la qualità rimane questa, la risposta ha poca importanza.

Simone Spoladori

Recensione n.6

Il secondo volume del tomo tarantiniano vede ancora la spo a assetata di vendetta a caccia di Bill e di cio’ che rimane della sua gang di killer. Rispetto al primo episodio il ritmo, gia’ non febbrile, si dilata ulteriormente, sottraendo spazio all’azione e aggiungendone ai dialoghi: alcuni divertenti, altri noiosetti e molti ormai di “maniera”. Se, infatti, le dissertazioni su “Like a virgin” di Madonna da parte dei malavitosi de “Le iene” scardinavano con genialita’ le regole del “genere” contaminando di vitale follia i personaggi, il pistolotto finale di Bill, su Batman e Superman, risulta invece smaccatamente cerebrale e suona forzato. Caratteristica che, purtroppo, finisce per estendersi alla maggior parte dei dialoghi, dai poco interessanti scambi iniziali tra Bill e il fratello, fino al siparietto sul pesciolino calpestato, stile Famiglia Addams, del pre-finale. Le sequenze piu’ riuscite restano ancora quelle d’azione, perfettamente coreografate e dirette con estrema fluidita’ e grande senso del ritmo, senza l’approssimazione imperante negli attuali action-movie. Tra i tanti personaggi disseminati nel racconto, spiccano le piccole parti di Gordon Liu (il maestro Pai Mei) e dell’incisivo Michael Parks (Esteban Vihaio), mentre i co-protagonisti deludono un po’ le aspettative, sia a causa delle caratterizzazioni che dell’espressivita’ degli interpreti. In particolare non convincono la ghigna costante e l’aplomb da camionista di Daryl Hannah/Elle Driver e l’opacita’ di David Carradine/Bill, la cui maschera monolitica viene spacciata per carisma. Discorso a parte per la protagonista Uma Thurman: rispetto al primo volume acquista spessore come personaggio e credibilita’ come attrice, valorizzando un ruolo cucitole su misura dall’adorante Tarantino. Quanto alle immancabili citazioni, ormai cifra stilistica del regista, l'”Hong-Kong Movie”, comunque presente, cede la scena al “Western”, perlopiu’ “Spaghetti”, e cerca l’afflato epico rispolverando le sonorita’ indimenticabili di Ennio Morricone. Probabilmente ci sara’ chi andra’ in sollucchero in mezzo a tanta esibizione di cultura cinematografica, mentre altri, alla dodicesima zoomata che fa tanto “wuxia” film o all’ennesimo confronto presentato come sfida all’OK Corral, si limiteranno a constatare nell’indifferenza, senza capire che la citazione non e’ gratuita, ma fondamento della struttura del film, e racconto essa stessa, e bla-bla-bla… Che dire, fa piacere ch qualcuno cerchi strade diverse, ami il cinema, lo viva con passione e competenza e abbia una visione chiara di cio’ che vuole e di come ottenerlo. Ma da qui a goderne, c’e’ una bella differenza e il risultato resta saldamente ancorato al “ni'”.
Avviso per i fedelissimi: non siate impazienti e gustatevi i bei titoli di coda fino in fondo. Le sorprese non sono finite!

Luca Baroncini (da www.spietati.it)

Tarantino cita Fulci: ma chi era costui?

La recente uscita su grande schermo di Kill Bill Vol. 2 ha riportato d’attualità il dibattito sul cinema di genere, soprattutto quello italiano tanto amato e citato dalle opere di Quentin Tarantino, rispolverando per l’ennesima volta, come periodicamente accade, la figura del compianto Lucio Fulci, nomade ed anarchico autore approdato all’horror dopo anni di peregrinazioni attraverso i generi, la cui opera nel corso degli anni è assurta al ruolo di oggetto di culto tra gli aficionados. Numerosissimi sono i siti dedicati – direttamente o meno – al regista anche fuori dai confini nazionali (date un’occhiata all’ottimo shokingimages.com/fulci/) soprattutto in Francia, dove le malelingue spargono il solito veleno sul fatto che oltralpe i nostri migliori registi di genere ricevano molta più attenzione che qui da noi; del resto è un dato di fatto che sulle colonne dei leggendari Cahiers du cinema Dario Argento sia stato lodato sin dagli esordi, quando in patria è stato scoperto dalla critica, amaramente, in tempi in cui il livello delle sue opere si è notevolmente abbassato. Constatato però che ancora oggi al di fuori della cerchia degli appassionati del cinema “de paura” il nome di Fulci risuona perlopiù anonimo, non appare peregrino fare un breve excursus sulla sua carriera, evitando un titanico elenco di opere (filmografia e quant’altro sono facilmente reperibili sul Web) e concentrandoci sulla seconda parte della sua attività, che dopo la “svolta gialla” di Una sull’altra lo ha visto intraprendere una lunga ed articolata strada attraverso i pericolosi sentieri del giallo, del thrilling ed infine dell’horror, per giungere sino al gore più estremo. La vicenda artistica del nostro, infatti, segue un percorso parzialmente parallelo a quello di Argento, e non vorremmo farlo rivoltare nella tomba, dato che lui ha sempre sconfessato il modello argentiano, ed anche sul piano personale i due non si filavano un granchè dai tempi in cui Lucio si “permise” di girare ben due seguiti dello Zombie-Dawn of the dead argento-romeriano senza chiedere alcunché a Dario…

Tra i primi gialli è possibile individuare una trilogia la quale espresse al meglio il Fulci creatore di suspance, e che lo vide alle prese con intrighi notevolmente contorti da dipanare. Si tratta de Una lucertola con la pelle di donna, Sette note in nero e Non si sevizia un paperino, nei quali sin dal titolo sono espliciti i rimandi argentiani, che avevano sempre al loro interno nomi di animali o numeri. L’ambientazione borghese dei primi due film origina atmosfere claustrofobiche, la Lucertola dominata da superfici lucide, spesso bianche, immerse nell’oscurità o nella penombra di luci fioche che penetrano trasversalmente da finestre, stipiti delle porte, lampade. Ma il vero gioiello è Sette note, dove le cromature si fanno più accese ed espressioniste, dominano le tinte forti ed uno stile molto ricercato, dominato dai sovrabbondanti zoom che traghettano lo spettatore direttamente tra le ragnatele ed i fantasmi della mente della protagonista. Il film possiede un’ottimo intreccio ed una soluzione finale davvero entusiasmante, gravida di celebri rimandi letterari. Il Paperino si distingue invece per una non troppo celata tematica sociale, infatti la vicenda svolgentesi in un paesino dell’Italia meridionale ne mette in luce le contraddizioni, l’arretratezza culturale ed il pregiudizio feroce che porterà a conseguenze nefaste. Ma pure in un’atipica ambientazione, l’anima thrilling del film si caratterizza per una notevole fattura.

L’horror puro irrompe nella decade successiva, gli anni ’80, con Paura nella città dei morti viventi (il film citato in Kill Bill 2 nella sequenza della sepoltura e successiva “resurrezione” di Black Mamba) ma soprattutto con Quella villa accanto al cimitero e E tu vivrai nel terrore! (conosciuto pure come L’aldilà), entrambi dell’81, che consacrano Fulci grande autore di genere. Il primo film riprende l’arcano della casa maledetta col quale molti hanno dovuto confrontarsi, ed inevitabilmente l’immaginario che domina l’opera, il gotico decadente, spinge Lucio oltre i confini nazionali verso lande anglofone. Il terrore nasce anche qui, come nel Paperino, dalla terra, questa volta intesa non culturalmente ma fisicamente, la cantina infatti sarà la stanza principale della Villa. La compiuta svolta orrorifica giunge con L’aldilà, e scusate se insisto ma il debito argentiano non si fa attendere, l’incipit dell’opera mostra infatti un antico libro ed una voce off che legge una profezia che poi innescherà il meccanismo narrativo del film (analogamente accade in Inferno, e per la verità anche nel successivo Tenebre). L’opera possiede poi il fascino del racconto di un mondo alla deriva, contaminato da mostri contro i quali gli umani non possono che soccombere, come accadeva nella trilogia zombesca di Romero e nei due Demoni di Bava ed Argento (ancora lui!). L’ultima celebre sequenza resterà un caposaldo del genere, e la celebre frase ”ora affronterai il mare delle tenebre e ciò che in esso vi è di esplorabile” fa il pari con la leggendaria “quando non ci sarà più posto all’inferno i morti cammineranno sulla terra” di Zombie.

Com’è facile notare gli archetipi dell’immaginario del brivido, letterari e cinematografici, vengono utilizzati largamente da Fulci, sempre però con una notevole personalità di visione, e precisamente una voracità nell’estremizzare la violenza che appare un’espressione della volontà di sbarazzarsi definitivamente di tali archetipi, di modo che il crudele meccanismo di morte operi ancora per una volta e poi sia definitivamente cancellato.

Attraverso una tale chiave di lettura vanno interpretati i successivi film di questo folle e vagamente squilibrato viaggiatore, a partire dalla trasferta oltreoceanica de Lo squartatore di New York, tesissimo giallo tinteggiato di settantiano poliziottesco, in omaggio ad un genere da lui mai espressamente praticato, ma pure di scenari urbani alla Callaghan e come al solito di buone dosi di gore nelle sequenze degli omicidi o meglio degli squartamenti. Si tratta di opere spesso dal debole intreccio, poco curate nelle interpretazioni, nella realizzazione e nella fotografia (anche a causa del low budget), come negli “americani” Aenigma e Murderock uccide a passo di danza, entrambi ambientati in un ristretto microcosmo giovanile, rispettivamente un liceo ed una scuola di ballo, il cui tema centrale è il giuoco delle parti che si fa strada tra le varie rivalità tipiche dei teen-agers, creando finti sospetti ed accrescendo di conseguenza la tensione. Murderock è una sorta di musical e contiene numerosi rimandi a Flashdance, grande successo commerciale dell’anno precedente. Aenigma è invece un piccolo gioiellino; nonostante i difetti sopra indicati, la tensione non abdica mai per i 90 minuti della sua durata, a partire dall’ottima sequenza d’apertura dove i titoli di testa scorrono sugli occhi truccati della protagonista, che sarà preparata a dovere dagli amici per un romantico appuntamento rivelatore invece della spietatezza e crudeltà nei suoi confronti. La vendetta che seguirà sarà l’anima del film, che rimanda in parte a Carrie, oltre che per l’ambientazione a Suspiria e Phenomena, ed i cui zoom sugli occhi della protagonista riecheggiano il mitico Sette note.

Si tratta di opere minori ma interessanti per comprendere la vastità dell’immaginario fulciano, e forse per comprendere il tratto più interessante della sua opera: in tempi nei quali, a partire dagli ’80 per affermarsi compiutamente nella decade successiva, il cinema popolare e di genere perde mordente e poi definitivamente scompare, tramontando la possibilità di fare cinema “da due soldi” fuori dagli schemi imposti dalle grandi case di produzione, il regista romano viaggia controcorrente alla ricerca di tutti quei filoni e sottofiloni che hanno sempre reso vitale il cinema del passato, pagando peraltro il pedaggio dell’invisibilità, e venendosi relegato ai margini dell’industria cinematografica (chi ha visto i film degli ultimi dieci anni della sua carriera al cinema?). Eppure questo arzillo anziano, alle soglie dei ‘90 e dopo trent’anni di carriera (il primo film è del ‘59) non si rabbonisce affatto, anzi estremizza ancora di più il suo discorso sul cinema dell’orrore lasciando che gli elementi gore delle opere precedenti si moltiplichino a tal punto da mangiarsi letteralmente tutto il resto, storia, personaggi, suspance, paura… E’ difficile esprimere un giudizio sulle sue ultime apparentemente mediocri opere, anche se merita almeno una visione il misconosciuto La casa nel tempo, interessante riflessione sull’eterno tema realtà-sogno (o meglio incubo) allegato alla collezione Rosso Sangue che comprende pure il mediocre La dolce casa degli orrori (difficile comunque reperirli). Pellicole quali Il fantasma di Sodoma, Quando Alice ruppe lo specchio e Un gatto nel cervello, sono certamente operazioni minori e poco riuscite nelle quali, come detto, l’effettaccio splatter pare essere l’unico elemento che le giustifichi. Ma forse vanno prese come delle dichiarazioni a metà tra la provocazione e l’allegoria metacinematografica, ad opera di un regista che prefigurava la sua imminente fine, e che amo leggere in questo modo: in ultima analisi i gore, gli slasher (insomma gli horror più estremi) non sono altro che gallerie di efferatezze, giustificabili quali esorcismi, valvole di sfogo a fronte di una realtà spesso dura e piena di regole da rispettare, ed allora l’operazione di Fulci giunge ad una scarnificazione del genere; dopo averlo percorso in lungo ed in largo, ci dice che tutte le possibili varianti del cinema del brivido sono degli abbellimenti, spesso di grande valore ma in fin dei conti superflui ed eliminabili, così che resti solo l’essenzialità, il gesto di sangue nella sua manifesta irrealtà. E tanto appare crudele ed anche voyeuristicamente bello il gesto al cinema, tanto è tremendo ed inaccettabile nella realtà. Sarà una mia libera interpretazione, ma la funzione dell’horror per Fulci pare essere quella di un esorcismo del male.

Lucio Fulci ci ha lasciati nel 1996 alla vigilia delle riprese de MDC – Maschera di cera, il film della riconciliazione col produttore della pellicola Dario Argento, proprio il medesimo giorno della dipartita del grande Krzysztof Kieslowski; la coincidenza negò in parte al Nostro le postume e retoriche celebrazioni di rito, ma in fondo credo sia stato un bene, ha evitato di farci sorbire i falsi elogi di coloro i quali in vita l’hanno sempre ignorato.

Mauro Tagliabue