Se le forze di difesa israeliane fossero state disorganizzate e scalcinate come nel film di Gitai, a quest’ora a Tel Aviv e a Gerusalemme ci sarebbero Siriani, Egiziani e Giordani e neppure un ebreo.
Non si può nemmeno dire, per evitare la considerazione precedente, che questo film va visto come un film comunemente inteso e non come un documentario, visto che Gitai non svolge una storia umana o di amicizia o di valore o di codardia, come negli ultimi film di guerra apparsi sugli schermi. (Persino Midway era un film sopra il mero documentarismo grazie a diverse vicende umane intrecciate.) In Kippur Gitai riprende, con tecnica scadente, campi corti e angusti, piani sequenza troppo lunghi e dialoghi del tutto irrealistici nel ritmo, le operazioni di evacuazione (medevac) di una squadra soccorso in elicottero. L’altra faccia della guerra e del fonte, insomma. E non fa altro, per due ore. Qualche fuggevole tentativo di introspezione sui personaggi, un medico, due ufficiali, basato su scambi dialettici più banali di un film di Van Damme e tanta, tanta noia. Per un film di stampo documentaristico, il tema principale e le sequenza fondamentali sono girate in maniera dozzinale, improvvisando, senza preparazione tecnica nè addestramento, per quanto minimo, agli attori. Basterà dire che nessuno della squadra, in pieno teatro di operazioni, porta un elmetto. Goffe danze inconcludenti intorno ai feriti a terra e sui mezzi, con le vittime sballottate e sbatacchiate al punto che dopo le inevitabili risate non si può far altro che concludere che, piuttosto che soccorrerli in quel modo, era meglio lasciare i feriti al loro destino. Non si pretende un realismo alla Spielberg, ma che diamine, questa è una presa in giro, non un film. Indifendibile.
Guglielmo Pizzinelli