Cos’ha di diverso il lungometraggio di Rob Zombie (gia’ leader del gruppo “White Zombie”) rispetto alla marea di filmetti horror che invadono i cinema, soprattutto durante la stagione estiva? Non certo la trama, che e’ sempre la stessa, con i soliti quattro giovani un po’ stupidotti a caccia di emozioni forti che si ritrovano isolati in una casa di matti decisi a seviziarli e ucciderli. E allora che cosa? Beh, intanto una certa personalita’ nelle scelte visive, con un vero e proprio frullato di immagini che sembrano non stancarsi mai di citare, evocare, provocare, sperimentare, attraverso un’alternanza di tecniche diverse che frammentano senza sosta la narrazione. Ma cio’ che distingue principalmente il film da tanti altri omologhi e’ soprattutto la dose di cattiveria che lo permea dall’inizio alla fine. Non c’e’ speranza, nessuna redenzione, solo la sovraeccitata e compiaciuta messa in scena di un massacro. Evitando facili e depistanti giudizi morali, il film ha una sua forza proprio nel non cedere al compromesso. Sceglie di essere disturbante e non si tira indietro all’ultimo, come il piu’ delle volte accade. Strizza l’occhio alle pulsioni dello spettatore, cerca di sedurlo con ammiccamenti soft-core e ne mette a nudo le paure con morbosita’. Il ritratto di provincia non e’, come sempre, dei piu’ edificanti e i miti americani (da Marilyn Monroe alle ragazze pon-pon non dimenticando la famiglia e le istituzioni) vengono sbeffeggiati con sarcasmo. Certo, non tutto funziona. Il baraccone finale pare il set di un videolip anni ottanta e nel caotico delirio i possibili spaventi cedono il passo all’indifferenza. Ma alcuni momenti, grazie anche all’incisivo commento sonoro, funzionano a dovere: il tentativo di fuga dei ragazzi in macchina bloccato dagli spaventapasseri animati e tutta la sequenza dei due poliziotti accompagnati dal padre di una delle ragazze, che prima di concludersi gioca con sadismo sulle aspettative del pubblico (vedere per credere il quasi fermo immagine “tirato” allo spasimo). E anche altre, come il dialogo sopra le righe, con cui si apre il film, tra il clown e il nonnetto con annessa la sventata rapina, che crea un’atmosfera di perdita di certezze in perfetta sintonia con l’aria malsana del racconto. Il primo paragone che viene in mente e’ con “Non aprite quella porta”, sia la versione originale di Hooper che il riuscito remake di Nispel, ma il film di Zombie e’ meno potente a livello emotivo e non si preoccupa troppo di scavare nell’inquietudine del quotidiano. Cerca piu’ che altro di estremizzare lo sguardo imbastendo una sorta di sit-com del cattivo gusto, giocando con il cinema e i corpi che lo animano e prendendosi gioco di tutto e di tutti. Puo’ non piacere, risultare pesante, ma la vena distruttiva che lo anima e’ genuina e il risultato complessivamente liberatorio. Tra qualche anno se ne parlera’ probabilmente come di un “cult”.

Luca Baroncini (da www.spietati.it)