Recensione n.1

La febbre è quella che sale quando improvvisamente ti rendi conto che la vita che stai conducendo non è quella che volevi e nonostante tutto non hai gli strumenti per uscirne fuori. E’ questo che tenta di narrare Alessandro D’Alatri nel suo ultimo film che vede Fabio Volo, attore generazionale, nel ruolo di Mario, geometra trentenne, che vive con la madre vedova che progetta di mettere in piedi una discoteca con degli amici ma finisce a lavorare in Comune alle dipendenze di un dispotico capoufficio. L’incontro con Linda, una quasi esordiente Valeria Solarino, però gli aprirà nuove prospettive.
“Un film non tanto sul lavoro, quanto sull’Italia” sostiene D’Alatri ed effettivamente la pellicola fotografa in modo accurato lo stato dei giovani nella nostra nazione, quei 25/30enni con mille sogni che dovranno chiudere a chiave nel famoso cassetto per far spazio alla dura realtà caratterizzata da precariato, frustrazione e dipendenza genitoriale.
Buona l’interpretazione di Fabio Volo che per ammissione dello stesso regista “ si è cimentato in una esperienza veramente attoriale che credo lo consacrerà definitivamente” come annoverabili sono le interpretazioni di Valeria Solarino e dell’eccezionale Arnoldo Foà.
La febbre è sicuramente un film da andare a vedere per riflettere sul mondo giovanile e sui desideri a cui, forse, molti di noi hanno rinunciato.

Valentina Castellani

Recensione n.2

Alessandro D’Alatri continua a occuparsi dei trentenni e dopo avere messo al centro del suo sguardo il rapporto di coppia (“Casomai”) si concentra sulla frustrazione di essere giovane, creativo e volenteroso nell’Italia contemporanea. E’ ancora la fluidita’ del racconto il punto forte della sua visione, abbinata a uno stile, di evidente derivazione pubblicitaria, che puo’ non piacere ma ha il pregio di distinguersi da un’impaginazione convenzionale. Al di la’ della forma accattivante, pero’, il ritratto di costume imbastito da D’Alatri procede a intermittenza, alternando notazioni interessanti a parecchi luoghi comuni. C’e’ troppa carne al fuoco nella sceneggiatura, efficace nei dialoghi, ma non nel delineare le motivazioni attraverso cui i personaggi arrivano al confronto, e incapace di trovare un compromesso tra la voglia di dire e quella di insegnare. Cosi’ il protagonista finisce per avere una problematicita’ perlopiu’ apparente, prigioniero di un’aureola che lo rende eroe minimale, solo contro un mondo brutto e cattivo. Si’, e’ duro con gli amici e ingiusto con la madre, ma uno sguardo accondiscendente sembra preservarne sempre la purezza. Nel ritratto di provincia di D’Alatri c’e’ spazio solo per il perimetro delle pulsioni, perche’ tutto e’ teso alla dimostrazione. L’apice del peggio, in tal senso, si ha nell’ubriacatura plateale sotto la pioggia, con tanto di ricovero in ospedale, ma trova riscontro anche nell’inconsistenza della storia d’amore, nel semplicismo con cui la carriera di volenteroso impiegato comunale e’ interrotta dai soliti personalismi, nella rapidita’ con cui gli amici del cuore diventano conoscenti e nell’inverosimiglianza della fuga da casa senza una valigia e con il solo bagaglio della mitezza e del buon senso (restando comunque sempre pulitino e ordinato). Per non parlare della banalita’ del finale in stile bucolico “quattro cuori e una capanna”, in cui la vita di campagna e’ scontatissima panacea. In tal contesto anche i personaggi non possono che trovare rifugio nello stereotipo, incappando nella macchietta (il capo ufficio invidioso), nell’inutilita’ (la cubista letterata) e nel luogo comune (la madre chioccia), nonostante le buone interpretazioni fornite dal cast. Per fortuna il film e’ anche altro e accenna a tematiche importanti che raramente trovano spazio al cinema: la difficolta’ di comunicare la propria felicita’ (nella mestizia e’ piu’ facile ritrovarsi complici), il muro alla comunicazione costruito dall’invidia, le trappole della burocrazia, i rischi della compiacenza (per accontentare tutti si finisce per scontentare se stessi), la delusione nei confronti di una societa’ che non si preoccupa di dare corpo ai sogni. Quello di cui si sente la mancanza e’ un punto di equilibrio in grado di dosare i vari elementi senza che prevalga la sensazione di un accumulo privo di approfondimento. Comunque sia la scorrevolezza ha la meglio. Cosi’ come la simpatia del protagonista Fabio Volo, piu’ personaggio che attore ma in grado di incarnare, pur nella paraculaggine, un innegabile sentire del nostro tempo.

Luca Baroncini (de www.spietati.it)

Recensione n.3

Una caffettiera inquadrata dalle interiora è una delle immagini oniriche ritagliate e attaccate con dolce e giovanile malagrazia all’ultimo film di D’Alatri. La naturalezza e la bellezza rimpicciolita della vita in provincia si sposa con il grigiore remunerativo e gratificante di un lavoro arrivato dopo quattro anni, a sorprendere senza enfasi il faccione-faccino sveglio di Fabio Volo-Mario. Il lavoro del candido e umano novello, preso dall’entusiasmo e comunque grato all’altisonanza gravosa, noiosa e necessaria di quella parola e tutto ciò che comporta. Ecco che si integra nell’habitat strano, che conversa con l’anziano collega e stringe legami collaborativi e affettivi con un pizzico di prudenza, mentre gli amici obbligatoriamente”liberi” gli ricordano i sogni e il locale da aprire, ed eccolo ancora innamorarsi bucolicamente di una studentessa dagli occhi intelligenti (una cubista? Scusate l’incredula grettezza), finchè non subentra l’odio e l’invidia da mondo degli adulti, ovvero la demenza senil-puerile che cercano di propinarci come tale. Rilevanza particolare al pop italiano dei Negramaro, contestualmente più valoroso e originale di quanto non sia. Un’ampiezza visiva interessante, ormai fattasi cifra stilistica, che si colora di scuro nelle visioni-riflessioni condite di dignità e rivincita e pienezza acquisita e intrinseca. I personaggi di Alessandro D’Alatri vivono di luce propria, una luce flebile, poco appariscente e reale, resistente alle intemperie. Una verve insolita e venata di tristezza e anomalie (si pensi a Senza Pelle) forse persa in parte nei meandri di un viaggio temporale inflazionato nel precedente Casomai. Qui il tono “medio” e non mediocre degli eventi ritorna, ritorna quell’esperienza dialogante e lenta costruita attorno ai gesti del carattere, che forse avrebbe dovuto aggrapparsi con forza a quella camminata post-duello degli ultimi minuti e sceglierla come finale, prima di impantanarsi nello zucchero, di classe ma pur sempre stucchevole, di quello definitivo.

Chiara F