di Luc Jacquet
con la voce narrante di Fiorello
Se c’è un genere cinematografico davvero vitale nel panorama attuale, questo è il documentario (ammesso, e non concesso, che lo si possa considerare a tutti gli effetti un genere e non un contenitore di “generi”). Mai come negli ultimi anni abbiamo assistito ad exploit commerciali interessanti legati al cinema non spettacolare: i film di Michael Moore in tutto il mondo, Essere e avere in Francia e ora La marcia dei pinguini (di nuovo in Francia, ma poi anche negli USA).
La marcia dei pinguini, forse attira anche per la naturale tenerezza che questi animali riescono ad ispirare nel pubblico, ma il film, di fatto, non punta mai ad indorare troppo la pillola. Semmai Jacquet riesce a trovare un elegante e divertente equilibrio tra il documentario vero e proprio e il film di narrazione. Servendosi infatti di una voce narrante (che ogni tanto, con un riuscito falsetto di Fiorello, diventa la voce dei pinguini nati da poco), Jacquet racconta a tutti gli effetti l’avventura vissuta ogni anno dai pinguini “imperatore” in Antartide. A migliaia, mettendosi in fila, percorrono decine di chilometri di fredda banchisa per raggiungere il luogo dell’accoppiamento. Qui si assiste ad un corteggiamento danzante, alla deposizione dell’uovo, poi dato ai papà per covarlo, mentre le femmine partono in cerca di cibo. Al ritorno, sarà la volta del padre fare lo stesso viaggio di ricerca. I piccoli intanto nascono, cresco, muovono i primi passi e dopo, una volta cresciuti, s’immergono anche loro nel freddo oceano dell’antartide. Per quattro anni non si saprà più nulla di loro.
La bellezza raggelante, ma anche avvolgente, dei paesaggi dell’Antartide regala a Jacquet una scenografia mozzafiato in cui il regista-biologo si muove con destrezza, senza lasciarsi mai distrarre eccessivamente, e, anzi, non perdendo mai di vista i suoi protagonisti. Innumerevoli sono i momenti di grande impatto. Sicuramente i totali che illustrano la vastità della marcia; le riprese subacquee con la fuga disperata dal leone di mare, che sembrano trasformare l’oceano nella savana dei leoni e delle gazzelle;la nascita dei piccoli e i loro primi passi; le tristi, vere, e per questo drammaticamente non patetiche o ricattatorie immagini di morte.
Jacquet, probabilmente fin dall’inizio del progetto, ha capito che non aveva senso solo documentare, ma era necessario raccontare. A ben pensarci, nel cinema, non c’è niente di più vitale di un documentario. Jacquet l’ha pienamente dimostrato, tralasciando la pedanteria scientifica, e affidandosi ad un’esile narrazione che cela in sè tutta l’emozione necessaria a dare sostegno ed equilibrio ad un progetto di questo genere.
Potrebbe sembrare singolare, per l’edizione italiana, l’idea di servirsi della voce di Fiorello (specialmente se pensiamo che in originale le voci sono tre e che in Usa il narratore è Morgan Freeman), eppure la scelta s’è dimostratat piuttosto funzionale, anche nei momenti in cui lo show man italiano si serve del falsetto. Fiorello ha del resto dimostrato più volte, in tv e in radio, di essere un uomo di spettacolo di gran talento, e anche senza la possibilità di fare troppo il fantasista (in fondo si tratta pur sempre di un documentario), egli riesce a regalare professionalità e calore a questa versione italiana.
Quale sorte avrà al botteghino di casa nostra un film del genere è davvero difficile prevederlo, ad ogni modo è già un segnale positivo che abbia avuto una distribuzione decente. Speriamo bene!
Sergio Gatti
Nelle remote profondità dell’Antartide i pinguini imperatore compiono ogni anno una lunga marcia per raggiungere il luogo più adatto per riprodursi. Il ciclo della vita segue un rituale tutt’altro che semplice, la cui riuscita ha del miracoloso. Già l’impervio cammino iniziale miete le prime vittime, ma è dopo l’accoppiamento che cominciano i maggiori problemi. Al comparire dell’uovo, infatti, la femmina passa il fragile involucro al compagno, che per due mesi lo protegge con il calore del corpo mantenendolo in equilibrio precario sulle zampe. Intanto la futura madre si dirige stremata verso l’oceano in cerca di cibo. Alla nascita del piccolo, ritornano le madri e se ne vanno i padri, fino a quando i cuccioli non saranno abbastanza autonomi per staccarsi definitivamente dai genitori. Ovviamente la selezione naturale è durissima e sono in tanti a non farcela. Tra venti a centocinquanta chilometri all’ora, gelo in agguato costante e predatori affamati, portare a compimento la missione riproduttiva è impresa quanto mai ardua. Nemmeno per la troupe capitanata da Luc Jacquet deve essere stato facile affrontare condizioni climatiche e ambientali così proibitive. Il risultato, però, sorprende visivamente ma delude per il tono favolistico adottato dalla narrazione che, cercando di compiacere la platea infantile, svilisce il forte potenziale delle immagini. La voce fuori campo del pur bravo Fiorello, infatti, carica di enfasi e retorica la maggior parte delle sequenze, sottovalutando le capacità deduttive dello spettatore. Particolarmente fastidiosa, poi, l’umanizzazione psicologica dell’animale, con l’attribuzione ai pinguini di sentimenti, pensieri ed emozioni prettamente umani. È una scappatoia che nei cartoni animati permette spesso di ironizzare sulle debolezze dell’uomo, consentendo l’immedesimazione dello spettatore, ma in un documentario risulta del tutto fuori luogo. Anche perché la natura messa in scena è già di per sé talmente peculiare e spettacolare che non si capisce davvero per quale motivo si sia deciso di banalizzarla attraverso un commento pedante che assume i toni fastidiosi di una catechesi sulla famiglia. Geniale ma ingannevole il marketing, che ha dichiarato “La marcia dei pinguini” vincente su “La guerra dei mondi”, dimenticando di spiegare la differenza tra “media per sala”, effettivamente più alta per il documentario, e “incasso complessivo”, che ha invece ampiamente premiato il film di Steven Spielberg.
Luca Baroncini de Gli Spietati