Dall’Oriente uno sguardo poco rassicurante sul nucleo familiare. La famiglia pare infatti un’istituzione prettamente formale, svuotata di valori a cui aggrapparsi e rifugio asettico e ingombrante. Il protagonista e’ un avvocato di successo che tradisce costantemente la moglie. Questa, a sua volta, cede all’iniziazione sessuale di un giovane vicino di casa che ogni tanto ha incontrollabili e autolesionistiche esplosioni di rabbia. La coppia ha anche un figlio che finira’ male (in una scena sconvolgente per la leggerezza con cui e’ posta) a causa di una vendetta personale. Anche i nonni non se la passano troppo bene. Uno e’ alcolizzato e in fin di vita, l’altra scopre le gioie del sesso a sessant’anni. Il desolante quadro e’ mostrato con una freddezza da chirurgo, lasciando una distanza tra spettatore e schermo che si fa via via sempre piu’ grande. Le immagini arrivano cosi’ sempre piu’ piccole e lontane. La scelta di evitare qualsiasi coinvolgimento emotivo diventa quindi un’arma a doppio taglio: se da un lato permette al pubblico di non affezionarsi ai personaggi e di vederli come specchio della societa’ in cui sono immersi, dall’altro azzera l’interesse verso il loro destino. Essendo coreano ed essendo in concorso a un festival (Venezia 2003), il film arriva con annesso l’immancabile carico di scandalo. Anche i numerosi incontri sessuali, pero’, soffrono del gelo che permea il film e poco aggiungono alla narrazione, solo qualche dettaglio (sputi, rabbia) in genere assente nelle messe in scena orgasmiche occidentali.

Luca Baroncini (da www.spietati.it)