Titolo originale: Samaria
Regia: Ki-duk Kim
Sceneggiatura: Ki-duk Kim
Fotografia: Sun Sang-Jae ,Sang-jae Seon
Musiche: Ji-woong Park, Park Ji
Montaggio: Ki-duk Kim
Anno: 2004 Nazione: Corea del Sud
Distribuzione: Mikado Durata: 95′
Data uscita in Italia: 17 giugno 2005
Cast:
Young-gi, padre di Yeo-jin Lee Uhl
Yeo-jin Kwak Ji-min
Jae-young Seo Min-jung

Recensione n.1

Un Kim Ki-duk “regalatoci” così, come saldo di fine stagione, è una vera manna dal cielo per tutti i cinefili. Ma se per Primavera, estate, autunno, invero e ancora primavera, primo film del nostro ad essere distribuito nel Belpaese, si gridò al miracolo, giustamente in quanto Kim era già tra i massimi autori contemporanei, e se grande rilevanza è stata data al meraviglioso Ferro 3, questo La Samaritana è uscito un po’ alla chetichella, incontrando certo i favori ma non l’entusiasmo della critica, forse poco attenta ad un film “vecchio”, girato a cavallo tra i due film summenzionati. E invece La Samaritana è, per chi scrive, un capolavoro, la miglior pellicola dell’anno assieme all’altro coreano Old Boy. Lucidamente diviso in tre parti, rappresenta tre sentimenti, tre ossessioni, tre modi di concepire il cinema, sia nel contenuto che nella forma. Kim gira agile e non cura spasmodicamente la mise en scene, usa la macchina a mano e trasmette fisicamente il suo entusiasmo, la foga nel voler dar vita ai propri “fantasmi” artistici. Il primo episodio (Vasumitra) rappresenta una maniera delicatissima di declinare l’amore omosessuale, provocatorio, disturbante ed equivoco; Jae-Young si fa chiamare come una prostituta indiana, appunto Vasumitra, che attraverso il rapporto sessuale convinceva i suoi amanti a convertirsi al Buddismo. Il film non spiega se la ragazza si prostituisca per danaro, per il piacere sessuale o per una forma disturbata di spiritualità. L’amica Yeo-Jin le tiene il gioco per amore, un amore assoluto che esploderà con tutta la sua autenticità nella seconda parte (Samaria). La quale
è davvero estrema, ed in cui prende il sopravvento lo stile violento dei primi film di Kim, nei quali, allora come adesso, il tema centrale è quello della vendetta, letta qui come tentativo di redenzione “religiosa”, ma senza un preciso riferimento confessionale, anzi elevandola a religiosità “laica” e spirituale. Samaria indica una società che maledice la decadenza del corpo. La scena dell’ingresso del padre di Yeo-Jin nella comune tranquillità borghese di una famiglia, che svela la natura “pedofila” del padre di famiglia e la sua conseguente morte, è di quelle da raggelare il sangue. La terza parte (Sonata) lascia spazio ad una cifra più contemplativa e spirituale, pervasa di metafore geografiche davvero azzeccate, una su tutte quella finale con il padre di Yeo-Jin che insegna alla figlia a guidare tracciando un ideale percorso con delle pietre dipinte di giallo. E’ il Kim, per intenderci, di Primavera…, che chiude una storia di violenza e vendetta in una landa deserta, con Yeo-Jin che, all’inseguimento del padre, rimane incagliata con l’automobile, ed una pioggia torrenziale inizia a scrosciare lavando metaforicamente i suoi peccati. Curiosamente il finale ricorda quello de E la vita continua.. di Kiarostami, che pure simboleggiava altro.
La pellicola non appare appesantita da eccessive lentezze, Kim riesce contro ogni previsione a fare un cinema filosoficamente alto senza annoiare, anzi coinvolgendo lo spettatore con strutture narrative mutuate dal cinema di genere, e senza mai dilungarsi in inutili appesantimenti. Le sue opere, infatti, non durano mai più di 100 minuti, ma dicono molto più che migliaia di metri di pellicole magari incensate con Oscar, Leoni o Palme. Da non farsi scappare assolutamente. VOTO: 9

Mauro Tagliabue

Recensione n.2

Innanzitutto segnaliamo l’iniziativa editoriale di Dino Audino Editore di pubblicare un libro sul cinema e sull’autore coreano Kim Ki-Duk, scritto da un collaboratore e navigatore di “Central”, cioè Vittorio Renzi. E’ il libro più esaustivo scritto finora in Italia su questo grande cineasta.
Il grande pubblico conosce Kim Ki-Duk fondamentalmente per due film: “Primavera, Estate, Autunno, Inverno e…ancora Primavera” e per “Ferro 3”.
E veramente difficile non riuscire ad emozionarsi con il cinema di Kim Ki-Duk. Ci propone uno spaccato di umanità dolce e feroce, come pochi altri registi. I personaggi del regista coreano sono capaci di fare scelte radicali che portano gli stessi protagonisti a conseguenze estreme. Vorrei dire di più, i due film citati e questo nuovo “La Samaritana” sono e saranno fondamentali per chi vuole dotarsi di una cineteca rappresentativa del cinema importante del primo decennio del duemila.
Sono diversi i registi di questo periodo che sanno rendere dolce ciò che è amaro e amaro ciò che è dolce, che sanno coniugare bene gli opposti, e forse nelle culture orientali ciò è più facile. La Corea di Kim Ki-Duk come quella di “Old Boy” (altro film recente consigliato) è comunque una nazione che presenta anche forti legami con l’immaginario e la cultura occidentale, pure da un punto di vista religioso. Questo però non significa che la proposta della realtà coreana sia quella di una realtà occidentalizzata in tutto e per tutto, ovvero i registi coreani sostanzialmente ci offrono la realtà di un sincretismo dove a vecchi mali si sono sostituiti i nuovi, ma dove comunque rimane forte la concezione di una società che ha i suoi riti, una propria e forte visione del mondo, del lavoro, della vita, ecc.
Il plot che sostiene “La Samaritana” ha la genialità della semplicità, e ci si meraviglia che nessuno abbia pensato prima a un’idea del genere.

Due amiche per pagarsi un viaggio in Europa adescano clienti su internet, ma con ruoli diversi: una si occupa degli affari (Yeo-jin), tenendo cassa, e l’altra (Jae-young) si prostituisce.
La prima è presa da sensi di colpa e paure, l’altra, che vende il suo corpo, vive ciò con gioia, leggerezza e naturalezza. Un giorno la giovane studentessa prostituta si butta da una finestra per sfuggire alla cattura da parte della polizia e muore.
Yeo-jin, presa dall’angoscia e dall’acutizzarsi dei sensi di colpa, decide di riscattare se stessa e Jae-young ricontattando tutti i clienti per offrire loro ciò che aveva concesso l’amica, restituendo ai clienti i soldi guadagnati in precedenza. In questo modo lei opera una scelta di redenzione e abnegazione, decidendo di portare la stessa “croce” dell’amica, restituendo un guadagno non più condiviso e reso ancora più sporco dalla morte. Era ovvio appunto che la parte più difficile di questa “società di profitto” era di Jae-young, seppur vissuta con freschezza e curiosità umana, ma poi le cose si complicano…
Ora, se non è un’idea geniale questa, mi chiedo cosa sia un’idea geniale….
Attraverso questa scelta drammatica il regista ci consente di esplorare la cultura coreana e il sincretismo con un immaginario religioso e occidentale, senza nessuna forzatura.
Kim Ki-Duk poi possiede la capacità di dare plasticità poetica a corpi e movimenti in modo assolutamente eccezionale, vocazione che gli deriva da una grande tradizione iconografica del suo paese di origine.
Curiose per noi occidentali alcune scelte che sembrano ricondurci ai vicini giapponesi, e cioè al teatro No e Kabuki. Gli attori ogni tanto sembrano volutamente fissare sul loro viso una maschera o espressioni grottesche, che sembrano figlie di tradizioni teatrali dell’estremo oriente. Inoltre, nei film di Kim Ki-Duk, aggredire una persona con palline colpite da una mazza da golf o provocare una persona facendogli la pipì addosso in un orinatoio pubblico, sono cose naturali e ben riposte nella cultura di riferimento che è quella coreana, ma altrove il risultato potrebbe essere ben diverso.
Vedere questo film mi suggerisce il consiglio di affittarvi il DVD di “Ebbro di donne e di pittura” di Kwon-taek Im (2002) per ripercorrere un pochino l’humus storico della Corea del Sud di oggi, ma anche “La Moglie dell’Avvocato” di Im Sangsoo (2004); due opere distribuite nella nostra penisola e facilmente reperibili.
Ora, c’è un altro discorso da fare. Sono centinaia i film meravigliosi che vengono prodotti in estremo oriente, e molti di questi avrebbero potenzialità enormi sul nostro mercato, ma solo una piccola parte di questi esce in Italia, però alcune di queste opere sono disponibili in DVD con sottotitoli in molte lingue, per esempio in inglese (ma spesso non in italiano). Se un regista o uno sceneggiatore cercasse idee per un film pescando nel cinema orientale, avrebbe un patrimonio infinito di possibili remake, pronti ad essere “aggiustati” per la cultura occidentale, poiché molti di questi film sono radicati nella cultura d’origine, ma hanno una vena autenticamente universale. Di solito, giapponesi, coreani e cinesi passano per essere dei grandi perfezionatori di cose già inventate (in realtà le cose sono molto più complesse), ma nel cinema accade spesso il contrario: il cinema euro-americano cerca ispirazione in quello dell’estremo est.
Buona visione, e per una volta invece dei soliti pop-corn scegliete del buon sushi! Quello coreano è buono e costa un po’ meno di quello giapponese.

Gino Pitaro newfilm@interfree.it