Esco dalla sala cinematografica, subito come di scatto, e riprendo la via per Mesagne, quella vera. Nel percorso tra San Vito, dove ho richiesto asilo cinematografico a causa dell’impossibilità di entrare in quello mesagnese, e Mesagne, mi aumenta un fastidio che diventa via via incazzatura. Il Sud di Rubini è un sud della memoria, mi dico, confermato a posteriori da alcune sue interviste, ma allora perché non mantenerlo tale raccontando una storia sospesa nel tempo e nello spazio; non Mesagne, ma Pesane, come riportato erroneamente in una critica; non ora ma alcuni anni fa, senza rimandi alla contemporaneità. Il film mistifica l’immagine del Sud che io vivo e conosco, riportando una quotidianità non reale. Mi si dirà, così è il cinema, una finzione in cui tanti paesi ne rappresentano uno, una stazione abbandonata sostituisce quella reale. Finzione appunto, anzi fiction aggiungerei io per rincarare la dose. Insieme di stereotipi che io sento parlando con gli amici e parenti del nord italia, mia terra d’origine. La stazione, spersa senza taxi è realtà in molti paesini ma non del sud ma della provincia italiana, pure nella pianura padana soprattutto ora, con la politica di abbandono delle stazioni ferroviarie della FFSS S.p.A. Gli attori: grande, per una volta, Claudia Gerini la più vera e la meno se stessa e, ovviamente, Sergio Rubini aiutato da una parte fortemente caratterizzata; gli altri recitano, come nella migliore tradizione teatrale italiana, una parte con mosse e caratterizzazioni proprie della migliore fiction televisiva di qualità. Il film viene sostenuto oltre che dai temi toccati tipici di un grande classico della letteratura, con un po’ di plagio “cammilerico” (leggere la mossa del cavallo con il siciliano scappato a Genova che ritrova la sua cultura messo alle strette da una malavita che rappresenta l’aspetto deteriore dell’antropologia locale) anche da una ottima fotografia e gestione della telecamera pieni di “citazioni” cinematografiche ma efficaci nel rendere più emotivo il racconto. Quanto alla morale potremmo riassumere così il film, paracadutato in un sud tribale e moralmente malato, un emigrante rilavato dalla cultura milanese, non trovando sponde e valori sociali e istituzionali (anche il fratello “volontario e cattolico” tradisce tutte le proprie convinzioni trascinato dalla legge del taglione che, si presume, gli scorra nel sangue) ritrova la propria “famiglia” accettando le regole del luogo e risolvendo, senza modificare lo status quo, il dramma familiare e morale. Assenza delle istituzioni viste, nel caso dell’Arma, come inerti e un po’ ottuse. Peccato per un film che non ha scelto né la estraniazione poetica, né il realismo simbolico del quotidiano, né il comico grottesco di “Liberate i pesci”, né il fumettone noir, ma saltando da questo a quello, e, come ripeto, nel caso della migliore fiction televisiva ha fornito un prodotto pieno di ottimi spunti ma superficialmente trattati.
Marco Alvisi  (bolognese naturalizzato mesagnese) 
Esce nelle sale italiane il nuovo film LA TERRA di SERGIO RUBINI con Fabrizio Bentivoglio, Paolo Briguglia, Massimo Venturiello, Emilio Solfrizzi e Claudia Gerini. 

Prendersi cura delle cose per liberarsene. E’ la prospettiva di questo film che ha un titolo semplice e forte: La terra. Nella luce abbacinante, “messicana” del Salento dove si sono svolte le riprese, la storia strizza l’occhio al “giallo”, ma è soprattutto un dramma etico, il “mezzogiorno di fuoco” di un quarantacinquenne tornato a casa da lontano. (o. iarussi)
 
E’ la storia di Luigi, interpretato dal sempre affascinante e coinvolgente Fabrizio Bentivoglio, che fa ritorno al paese di origine, Mesagne (provincia di Brindisi), dopo averlo abbandonato tanti anni prima. Qui ritrova i suoi tre fratelli (Venturiello, Solfrizzi e Briguglia) che conducono esistenze molto diverse, strettamente legate alla realtà in cui vivono, che è poi la realtà delle piccole città della provincia italiana, soprattutto del sud, alle prese con le ingiustizie del “signorotto” del paese, tra debiti, campagne elettorali, pettegolezzi e volontariato.
Dopo tanti anni d’assenza, Luigi capisce subito di essere cambiato, di aver dimenticato le dinamiche di vita della terra di origine tanto da sentirsi un estraneo e di conoscere davvero poco i suoi fratelli; ma il richiamo del sangue lo porterà a delle scelte e a dei comportamenti che nella vita condotta fino a quel momento a Milano non avrebbe mai pensato di assumere, il passato e il presente gli si pareranno davanti cercando una riconciliazione.
 
Dice Rubini: “Il film racconta come a un certo punto della vita si venga chiamati ad assumersi una serie di responsabilità, le stesse che mai avremmo voluto assumerci. Spesso queste responsabilità provengono dalla famiglia, da una dimensione ematica, dal sangue. Non è questione di proprietà, e tuttavia la terra può dividere, unisce piuttosto il non averla. Luigi, che io definisco ‘il ragionatore’, entra in una spirale dolce e dolorosa, si riappropria della sua famiglia composta da due fratelli e un fratellastro divisi dalla terra ereditata dal padre benestante, fino a compromettersi, fino a trasformarsi”. “C’è un omicidio, viene ucciso una specie di usuraio e arrampicatore sociale e Luigi dovrà risolvere la situazione scabrosa. Succede: quando te ne vai lontano da casa, i famigliari, gli amici, gli altri, ti perdono di vista. Poi un giorno torni, ti fermi e gli altri finalmente ricominciano a vederti e ti chiedono delle cose, spingono perché tu ti prenda cura di certe situazioni”.