Come al solito il titolo italiano e’ un gioiello di idiozia, zuccheroso-normalizzante, vagamente ipocrita nel voler servire a un presunto pubblico di benpensanti una storia d’amore saffico tra adolescenti in un collegio femminile americano. In ogni caso e’ all’altezza del film, tempestivamente messo sul mercato in concomitanza con il Gay Pride.

Aridatece Fucking Amal, verrebbe da dire. Perche’ la spontaneita’ dell’esordio di Moodysson e’ ben piu’ pregevole dell’impostazione tragica di questo film (nel duplice senso della ricercata teatralita’ e del disastroso risultato conseguito). Eppure l’inizio lasciava presagire un approccio interessante, mediato dal punto di vista di una ragazzina che osserva l’affaire da distanza ravvicinata e affida a un diario le proprie riflessioni. Purtroppo, nonostante si respiri aria da Sundance, il disegno dei personaggi risente dell’hollywoodiana sindrome della tipizazzione forzata, per cui la narratrice e’ la classica timida, la protagonista (Perabo, peraltro ammirevole nella totale dedizione alla causa) e’ la lesbica tosta e indipendente, se l’insegnante di matematica e’ rigidamente incapace di capire le sue allieve, la vecchia bacucca che insegna lettere e’ una specie di prof. Keating in gonnella, che inizia le sue studentesse ai piaceri della poesia e del teatro shakespeariano. Rivoltante, al riguardo, il dibattito in aula sulla natura dell’amore. C’e’ anche un anziano giardiniere che simpatizza con la ragazzina del diario (e’ il pellerossa Uccello Scalciante di Balla Coi Lupi) e le elargisce perle di saggezza che non vi dico.

Ma tutto il film soffre dello stridore assordante dei mezzi retorici adottati senza ritegno: una pletora di ralenti a sottolineare i passaggi che si vogliono intensi e commoventi, le canzoni ammiccanti che partono di punto in bianco, con una farraginosita’ che mette i brividi, i primi piani in controluce con annessa lacrima sulla gota, le scene di sesso, anch’esse in controluce, patinate come in un soft-core. Per tacer del finale, che non rivelero’ per i poveri sventurati che andranno a vederlo.
La dimostrazione lampante che il coraggio della messa in scena, nell’adottare registri cosi’ smaccatamente melodrammatici da sfidare il comune senso del ridicolo (cio’ che Hollywood generalmente si guarda bene dal fare), e’ un pregio che vale a poco, se non e’ sorretto da un senso dello stile.
Deprimente (ma non per i motivi per cui vorrebbe esserlo)

Giuseppe (da IAC)