Recensione n.1

Tratto dal best-seller di Emmanuel Carrère, basato a sua volta su un sanguinoso fatto di cronaca, L’avversario è la storia di Jean-Marc Faure (pseudonimo dell’autentico Jean-Claude Romand), affermato medico che lavora per l’OMS, ha moglie e due figli, i genitori ancora in vita, una cerchia ristretta ma affezionata di amici. Una vita borghese, apparentemente segnata da pochi scossoni e preoccupazioni: cercare e acquistare una nuova casa, più grande e accogliente per la famiglia, solo per fare un esempio. Jean-Marc (uno straordinario Daniel Auteuil) è un uomo tranquillo e riservato, elegante e stimato, garbato e assai educato.
A poco a poco, però, affiorano elementi perturbanti dallo specchio immobile dell’acqua, quasi punte di un iceberg gigantesco, che incrinano l’immagine di serenità obbligata. Nella sua generosità, Jean-Marc si è fatto carico della gestione del patrimonio del suocero, riuscendo a garantire un favoloso tasso d’interesse. Quando il suocero richiederà parte dei suoi soldi, per acquistare una costosa automobile, il genero opporrà resistenza. E anche le giornate di Jean-Marc sono alquanto particolari: un panino consumato in macchina in una stazione di servizio sull’autostrada, una conferenza a ingresso libero e con tanto di traduzione simultanea sull’onnipresente tema dell’Aids.
La macchina da presa si limita a pedinare Jean-Marc senza ricercare effetti particolari né suggerire interpretazioni. È testimone di quanto accade e sospende qualsiasi giudizio morale. Dall’apparente immobilità iniziale, simile alla lastra di ghiaccio che copre i laghetti d’inverno, si passa a un’inquietudine sempre più manifesta, a un nervosismo del protagonista che ancora riesce a dominare ma non più a rimuovere. Sono i piccoli dettagli a tradire Jean-Marc: un’opinione espressa in pubblico su un insegnante. La moglie, Christine, avverte i primi sospetti e tenta, come tutte le brave mogli, di non dare troppo peso.
La gabbia di menzogne che Jean-Marc si è costruito addosso, a partire dagli anni dell’università, lo imprigiona sempre più fino a non riuscire a mettere la “toppa” a tutte le falle che si aprono in contemporanea. Ed è commovente come una relazione extraconiugale, con una “cocotte” da poco, lo redima almeno agli occhi di se stesso. Perché quello che manca alla sua vita è proprio la verità: dei sentimenti, dei pensieri, delle emozioni.
Daniel Auteuil, la cui innata ambiguità d’attore avevamo già apprezzato ne “Un cuore in inverno”, è la colonna portante del film. Senza di lui, niente avrebbe più senso. E’ straordinario come solo un guizzo di luce nei suoi occhi ci faccia capire che mente, ancora una volta, o che è pazzo e non sa che cosa sta per fare o che ha appena fatto. Il suo desiderio di riscatto, le sue manie di grandezza, vivere la vita come fosse un sogno, tutto ciò parla a ciascuno di noi, senza eccezioni.
Ed è proprio nell’esplosione della follia pura, in un contesto di estrema normalità, che ognuno di noi si interroga sulla propria parte oscura, lasciata in ombra. Un pregio del film è sicuramente l’omissione della violenza vera e propria, del sangue e delle urla, e anche il distacco emotivo con cui si consumano gli omicidi. Lucida follia, necessariamente anaffettiva, perché la catarsi si compia. Perché questo piccolo uomo qualunque trovi la pace.

Mariella Minna

Recensione n.2

Vivere nella menzogna. E’ quanto decide di fare il distinto Jean-Marc Faure per rispettare aspettative sociali che ha abbracciato senza mai mettere in discussione: laurearsi a pieni voti, trovare una professione prestigiosa, sposare una bella donna, avere dei figli, comperare una villa, un auto di lusso, insomma essere invidiato, rispettato e, chissa’, forse amato. Un affetto vincolato alla dimostrazione. Che tutto cio’ sia solo una bella immagine, poco importa a Jean-Marc, che sceglie di imitare una vita non sua per ben quindici anni. La cosa curiosa e’ che, potere della “comunicazione”, nessuno si accorge di nulla e, soprattutto, che la storia e’ tratta da un fatto di cronaca realmente accaduto. Gli stessi eventi avevano gia’ ispirato il lungometraggio “A tempo pieno”, premiato al Festival di Venezia nel 2001, ma Laurent Cantet aveva costruito un film soprattutto politico, in cui metteva in discussione un sistema di non-valori basati sull’apparenza. Tant’e’ che la cosa piu’ tragica del film era la conclusione “positiva”, in cui il protagonista confessava le sue bugie alla famiglia, veniva perdonato e trovava un lavoro.
Nicole Garcia, invece, segue con piu’ fedelta’ il caso di cronaca, non giudica il personaggio e il contesto sociale in cui si muove, e lascia allo spettatore il compito di trarre conclusioni.
Non facile costruire un percorso psicologico ed emotivo partendo da una vicenda gia’ nota, ma il regista riesce a creare una sintonia tra le inafferrabili motivazioni del protagonista e il pubblico. E’ una disturbante empatia quella che si sviluppa con Jean-Marc, un itinerario che, seguendo passo dopo passo le sue gesta, finisce con illuminare la parte piu’ buia dei suoi pensieri. Gran parte del merito e’ della strepitosa prova interpretativa offerta da Daniel Auteuil, ormai icona della recitazione contratta e davvero efficace nel tratteggiare nel silenzio un disagio quanto mai forte e urlante. La messa in scena opta per la sobrieta’ e riesce, tra le pieghe del quotidiano, a creare una tensione quasi insostenibile. E’ impercettibilmente crescente, infatti, il contrasto tra la quiete formale di giorni che si trascinano nella iterazione di gesti ormai dati per scontati (aprire porte, svegliarsi, salutare, uscire per andare al lavoro, telefonare, mangiare) e l’ansia senza sosta di una mente incapace di trovare e cercare soluzioni non distruttive. La razionalita’ non offre appigli, cio’ che si vede non e’ cio’ che viene vissuto e la discesa agli inferi non consente scappatoie. La sceneggiatura frammenta il racconto partendo dalla fine, che viene solo accennata per essere poi sviscerata nei flashback che costituiscono il fulcro del film. Scelta non originale, ma necessaria per suscitare una progressiva curiosita’ sui dettagli della storia e per movimentare una narrazione altrimenti prevedibile. Il film, compatto e senza tempi morti nonostante il piglio pacato della regia, diventa ridondante solo nello scioglimento finale. Nessun effetto grandguignolesco, ma un indugiare che lascia trasparire un certo compiacimento.

Luca Baroncini

Recensione n.3

L’AVVERSARIO: LA GIACCA E LA CRAVATTA, LA NEVE E LA FORESTA

Il giardino ben curato, l’onorevole dimora, la cordial conversazione, l’etichetta e il buon lavoro. Le regole della veneranda operar. La compitezza, il costume, la giacca, la cravatta e il vecchio galateo di Monsignor Giovanni della Casa. Mentre avvolge gli inganni stupef centi di Jean-Marc Fau, L’Avversario diffonde un pulviscolo infinito di convenevoli e salamelecchi. Costruisce la rappresentazione totale di una vita borghesissima che si dispiega attorno alle regole irrinunciabili della buona creanza: una girandola di strette di mano, ossequi, salotti buoni e formalità pesudo-burocratiche. Azioni ridotte a meccanici cerimoniali. Dialoghi inutilmente cortesi che ballonzolano su preoccupazioni futili. “Un’altra bottiglia di champagne?”, “Si è messo in testa di comprarsi una Mercedes”, “Vado a farvi il caffè”, “E’carina, sua moglie”, “Che ne pensi del pranzo?”, “Abbiamo già parlato dell’anello domenica scorsa”. La sovranità delle apparenze si manifesta solennemente e ricopre il film con i suoi valori sacrosanti: gli abiti eleganti, gli arredamenti raffinati, i regali, i gioielli. La giacca e la cravatta non abbandonan mai Jean-Marc, sono le vere protagoniste della storia e il simbolo di un culto dell’esteriorità che alla fine straripa dalle cene di gala ed invade l’intera esistenza umana. L’apparenza fine a se stessa delle fo mule sociali smette di essere solo la materia per i ricevimenti e il the delle cinque, diventa fondamento assoluto anche del lavoro e della famiglia. No conta ciò che si fa ma solo poterne parlare, poterlo esibire, poter mostrarsene fieri. Fino ad ammettere persino che dietro l’esibizione e la fierezza non ci sia proprio nulla: nessun lavoro, nessuna laurea. Non importa, perché la forma è l’unica vera sostanza. Jean-Marc Fou ha scorto il vuoto che si annida dietro ogni azione umana, lo ha accettato con tranquillità, ha lucidamente scelto la strada più breve per raggiungere l’unico obiettivo fondamentale: l’immagine. Qui è l’origine dei suoi inganni, qui ci si accorge come essi non siano davvero tali. Un ammasso di garbo e lustrini ha reso possesso dell’intero mondo dove il protagonista vive, una marea di formalità tutte uguali ha coperto la speranza di accarezzare altri valori. E’ come la neve che si accumula su tutto il film. Su una distesa di neve cammina i giovane Jea -Marc durante i titoli di testa, una distesa di neve assorbe il suono delle campane nell’inquadratura conclusiva. Tutto sommerso, confus dal bianco, nascosto da una patina candida di riti senza fantasia. Questa neve è l’emblema di un’esteriorità monotona che trionfa sempre e che il protagonista ha saputo far sua meglio di chiunque altro. Lui cos arge di forme senza contenuto ogni suo rapporto sociale. Dopo una notte di sesso con l’amante Mariane, sdraiato sul letto d’amore, Jean-Marc è ancora in giacca e cravatta. E’ la personificazione dell’universo in cui vive, conduce agli estremi l’essenza delle abitudini di tutti coloro che gli stanno intorno. L’amico fraterno non ha mai sospettato nulla perché in fondo è uguale a lui: “Pur standole vicino non si è accorto di niente? – gli chiedono – Mai una domanda? Mai un dubbio? Non ha visto niente?”. “Forse non son stato capace di ascoltarlo”, ammette. No, non si ascolta più, ormai si è deciso che non è importante farlo. Ma, nei silenzi e nella solitudine, quel vuoto che Jean-Marc Fau ha compreso alla perfezione torna a inquietare e interrogare. Nascosto nella sua auto, mentre tutti lo credono al l voro, l’uomo toglie la giacca e la sistema su un appendino. Dimentica il galateo, mangia biscotti senza usare le maniere educate, si perde nel silenzio e nel senso dell’assenza totale. In quegli istanti egli fluttua dentro le apparenze che ha creato, osserva il significato dietro il significante e vi trova solo il nulla. Non contano più le belle superfici, conta il vuoto. E nella solitudine sono inutili anche le formule dell’etichetta e dello stile: l’enciclopedia della buona creanza dice che non si deve portare troppo disordine negli hotel in cui si alloggia eppure Jean-Marc getta nel caos la camera d’albergo dove si è rifugiato per simulare un viaggio di lavoro. Nella confusione di oggetti gettati qua e là, rimane seduto immobile dentro le sue bugie. L’assenza del contenuto è pesante ma inevitabile. Niente ha valore assoluto, ogni gesto umano rimanda a qualcos’altro che non si sa più nemmeno cos’è. Tutto è immagine, simbolo, forma assunta a cuore della vita. La sola possibilità per entrare ancora in contatto con qualcosa di solido e autentico, forse, è il ritorno alle origini. Alla atura. Il padre di Jean-Marc faceva il forestiere. La foresta si oppone alla neve. Gli alberi fitti formano uno scudo contro i fiocchi che cadono, impediscono al manto bianco di coprire il suolo. A metà del film il protagonista celebra questa possibilità di regresso a uno stato primitivo come unica via per aggrapparsi a qualcosa che non sia solo vano linguaggio, qualcosa che trovi in sé un valore profondo: solo nella foresta Jean-Marc si toglie la cravatta, liberandosi simbolicamente dalle convenzioni sociali, e urlando si lascia rotolare giù per una discesa, fra gli alberi e le piante. Il profumo intenso della natura contro l’artificiosità delle formule umane, il verde degli abeti contro il bianco della neve. Oltre l’argenteria e i tappeti persiani si scorge sempre la vegetazione che resiste nel suo vigore. L’Avversario è un collage di porte e finestre aperte che, dagli interni eleganti, lasciano intravedere il colore brillante dei sempreverdi. I personaggi, spersi fra i loro mobili borghesi, guardano fuori e vedono gli alberi, ma non li toccano quasi mai. Gli aghi dei pini sono lontani e sfuggenti. Jean-Marc si appoggia ai davanzali, scosta le tende, si affianca agli stipiti, ma solo in rari momenti di liberazione esce dalla dimora per sentire il bosco sul suo corpo. Eppure la foresta lotta, lotta con la neve, dà l’impressione a volte di prevalere e a volte di soccombere, sommersa. Un oscillare continuo di bianco e verde che si combattono. La panoramica finale pare suggerirci il trionfo della neve, ma la resistenza della clorofilla è stata eroica e forse anche la vita di Mariane è salvata dalla foresta: ci si trova fra gli alberi quando l’uomo l’aggredisce e ci si trova fra gli alberi quando, lui sopra lei a terra in una posizione che allude al rapporto sessuale, decide di risparmiarla. Il sesso è il volto più forte della natura, di ciò che è realtà corporale e non esteriorità. E il sesso sembra rendere il rapporto con l’amante segreta leggermente più vero rispetto alle altre relazioni sociali di Fau: in questo caso i gioielli regalati e le cene nei ristoranti chic, anziché celebrare il semplice culto della formalità, trovano almeno nel puro atto sessuale uno scopo e un significato. Il dramma dietro le apparenze emerge quando la finzione perde la propria forza, quando qualcuno comincia a sospettare e cercare la verità oltre la recita. Christine si domanda se il marito abbia davvero un lavoro, scopre lentamente la bugia e chiede spiegazioni. Lui cambia argomento, prova a distoglierla con le solite frasi cortesi e inconsistenti, ma è tardi. La donna ormai cerca i valori autentici dietro la bella esteriorità e a poco vale il tentativo di Jean-Marc di convincerla che l’impressione ha valore in se stessa: “Non vi manca nulla, ho sempre fatto in modo che non v mancasse nulla”. E invece sua moglie, ora, vuole che tutti i simboli significhino qualcosa. Cerca il senso dentro la convenzione e rischia di precipitare in una presa di coscienza che non è in grado di accettare, rischia di comprendere che nulla nella vita umana può avere valore assoluto. Che anche un lavoro e una laurea reali sarebbero, a loro volta, solo significanti che tentano di rimandare ad altri significati, in una catena semiotica che non trova mai approdo a meno che non si accetti la forma, qualsiasi forma, come sostanza. Su questa consapevolezza Jean-Marc Fou aveva fondato la propria esistenza, convinto che dovunque la catena si fosse arrestata qualunque immagine simbolica si fosse scelta, nulla sarebbe cambiato. Lui sapeva e viveva così, ma ora Christine pretende il senso che non c’è e che non può esserci. L’unica soluzione per evitare la sofferenza insopportabile c e ne nascerebbe è l’abbandono della stessa condizione umana. E’ la morte. In questo senso gli omicidi di Jean-Marc possono essere visti come estremo atto d’amore: impedire che i suoi cari scoprano improvvisamente cos’è la vita dell’uomo e vengano distrutti da un dolore straziante. “Questo – afferma nel video-confessione – è per te, Christine, e per i bambini, perché vi amo e siete il centro della mia vita”. Assassinare per liberare, coprire tutto con una morte silenziosa che quasi assume lo stesso aspetto dei convenevoli gentili della quotidianità. Anche l’omicidio diviene una raffinata cortesia borghese, eseguita con educazione e contegno: Jean-Marc fa impacchettare con car a da regalo le armi di cui si servirà, Jean-Marc si aggiusta la cravatta davanti allo specchio dopo aver giustiziato i genitori. Egli non attira l’odio del pubblico perché nel suo gesto agghiacciante si scorge la luce dell’affetto, la consapevolezza di come i suoi cari fossero persi comunque perché non avrebbero mai potuto accogliere la verità che egli era stato in grado di accettare: significante e significato sono la stessa cosa. Il fatto che il truffatore non muoia fra le fiamme forse celebra proprio la sua capacità di sopravvivenza e adattamento alla condizione terrena, ma gli spettatori perplessi, in uscita dalla sala, sanno solo chiedersi se Jean-Marc verrà assolto o condannato. Senza accorgersi che questa è solo una piccola questione di morale soggettiva e che il dramma profondo resta spostato un po’ più in là, nella possibilità di trovarsi sul letto della propria amante con ancora addosso la giacca. E la cravatta.

Federico Sperindei