Recensione n.1

“Anche oggi ho visto qualcosa che spero di capire fra un paio di giorni”

Su uno sfondo totalmente bianco, un uomo alto e mingherlino col collo lungo e vestito di nero, abbozza una danza improbabile fatta di movenze minime e gesti frammentati. Fuori campo una voce lo segue, lo incita “questo è l’uomo perfetto…cosa mangerà?…a cosa sta pensando?…a una donna, a un cane…? come pensa l’uomo perfetto?…”
Sono le immagini di The Perfect Human, cortometraggio del 1967 di Jørgen Leth; una sorta di indagine antropologica suggestiva e minimalista, un questionario recitato con monotona intonazione di fronte al ballerino sullo sfondo bianco, che cerca di capire chi è e cosa fa l’uomo perfetto.
Le domande non hanno risposta e vengono alternate con le immagini del mondo dell’uomo perfetto: la sua donna, il suo cane, il suo pasto. Alla fine si chiude con anche oggi ho visto qualcosa che spero di capire fra un paio di giorni.
Le Cinque Variazioni prende spunto proprio dal documentario di Leth. Lars Von Trier invita Leth a casa sua e gli dice di amare quel piccolo di film, di averlo visto più di 20 volte. I due si conoscono ma non hanno mai lavorato insieme; mentre un casalingo Von Trier armeggia col video tape e guarda Leth curioso, questo siede di fronte a lui visibilmente imbarazzato, cercando di fumare un sigaro cubano.
L’idea di Von Trier è di giocare al gatto e il topo. Il progetto per il film da girare insieme è che Von Trier proporrà al suo amico cinque ostacoli, cinque regole ferree e autoflagellanti, cinque modi di rigirare il suo vecchio film. Leth accetta subito, d’istinto, anche se non ha ben capito ciò che ha in testa Von Trier, che dal canto suo continua a guardarlo, adesso soddisfatto e con un ghigno sadico che non riesce a nascondere.
Il gatto Trier partorisce su due piedi il primo ostacolo: il film dovrà essere rigirato a Cuba (il sigaro cubano…) e ogni inquadratura deve durare esattamente 12 frame, cioè circa tre-quattro secondi (il film originale durava 12 minuti…). Leth non capisce, che cosa può venirne fuori? Comunque parte per Cuba, si rimbocca le maniche e si mette sulle tracce della sua vecchia indagine antropologica.
Torna in Danimarca e presenta il lavoro a Von Trier. Ne è venuto fuori una specie di video clip sincopato con un cubano macho in primo piano come Perfect Human: delizioso. Von Trier è soddisfatto ma non lo lascia intendere alla sua vittima, semplicemente lo rimanda al secondo ostacolo: questa volta bisogna girare a Bruxelles. Leth riparte di nuovo. Ne viene fuori un film triste e introspettivo, girato in una Bruxelles livida e bagnata da una pioggia incessante: delizioso, profondo. Di nuovo Von Trier non dice niente di buono, anzi muove qualche critica e detta subito la terza regola: questa volta devi essere totalmente libero, cercare di lasciare la tua impronta…
Poi la quarta regola: gira un cartone animato. Non ti preoccupare se fa schifo, tanto a me non piacciono e li trovo tutti brutti…
L’ultima regola, la quinta variazione: questa volta a dirigere sarà Von Trier e Leth dovrà limitarsi a leggere il testo fuori campo scritto dal regista.
Mentre scorrono le immagini del corto di Von Trier, che non gira niente di nuovo ma mette insieme il materiale scartato da Leth, si scoprono le carte del gioco. Fuori campo Leth è costretto a leggere un testo che parla esclusivamente di lui, senza riserve, delle sue paure e delle sue intuizioni, dell’immagine che il suo amico, il gatto Lars, si è fatto mandandolo in giro a ripercorrere la sua vecchia provocazione antropologica. Allora la ruota ha fatto il giro completo e le parti si sono scambiate, Von Trier ha fatto a Leth quello che quest’ultimo voleva fare allo spettatore: guardarsi dentro, interrogarsi sulla natura umana. Solo che non sapeva che la vittima di questo sguardo penetrante e sadico, curioso e quindi rigoroso era proprio lui. Il ritratto che ne scaturisce non può che essere veritiero, d’altronde ne è proprio lui l’autore…
Le cinque variazioni è un viaggio bellissimo, un altro gesto semplice e appuntito del genio di Lars Von Trier. Il film praticamente è girato Jørgen Leth, Von Trier ne è il co-regista nel senso (forse proprio quello più pregnante della parola) di colui che tira le fila, che inventa un percorso e guida, spinge, tutto il resto a conquistarlo: qualcosa che spero di capire fra un paio di giorni.

Andrea Scaccia

Recensione n.2

Il limite del linguaggio cinematografico, da sempre chiodo fisso del geniale e antipatico regista danese Lars von Trier, e’ alla base di questo esperimento visivo, che si presenta come un saggio teorico e si lascia invece gustare come un appassionante lungometraggi.
Il punto di partenza e’ un cortometraggio intitolato “L’uomo perfetto”, girato in bianco e nero dal regista Jorgen Leth nel 1967. Il sadico gioco imbastito dal duo prevede il rifacimento del corto da parte di Leth seguendo i rigidi criteri imposti da von Trier. Regole ferre a cui sottostare per esprimere lo stesso concetto attraver o un linguaggio in divenire: non piu’ di dodici fotogrammi per inquadratura, tramite i cartoni animati (odiati da entrambi), senza alcuna imposizione, e cosi’ via. Si ha piu’ volte la sensazione che cio’ che interessa al re ista danese sia la spettacolarizzazione del suo potere, un gusto sadico di farsi beffe di chiunque riuscendo comunque ad uscirne geniale e vincitore. Quale che siano le reali intenzioni, il risultato e’ davvero interessante. La caccia al tesoro visiva, imbastita dalla diabolica coppia, produce infatti, nei cinque cortometraggi che ne derivano, esempi diversi di utilizzo del cinema partendo dal medesimo soggetto. E il film stesso, arricchito dal rapporto personale tra Lars Von Trier e Jorgen Leth (vero o inscenato?), pone domande non banali sulla creazione artistica: totale liberta’ espressiva o regole a cui sottostare per incanalare il talento? Il cinema come pura ricerca formale? Fino a dove ci si puo’ spingere nel comporre un’immagine? Esiste un limite morale oltre cui e’ impensabile andare? L’occhio di chi guarda cosa ricerca? A tante domande, nessuna certezza in risposta. Solo stimoli, importanti per instillare il dubbio e approfondire la ricerca e, grazie al cielo, nessuna greve imposizione dello sguardo. A qualcuno potra’ sembrare superficialita’, inutile esibizione o gratuito cinismo, invece “The five obstructions” ha il dono prezioso di un insegnamento ironico e pervaso di leggerezza. Quanto di piu’ lontano ci si aspetterebbe da Lars von Trier, e invece …

Luca Baroncini (da www.spietati.it)