Regia Denys Arcand, con Stéphan Rousseau, Marina Hands, Rémy Girard

Recensione n.1

Seguito ideale de “Il declino dell’impero americano” (1986), di cui riprende alcuni personaggi, il film racconta della malattia e dell’agonia di Remy, cinquantenne libertario e libertino che confessa di avere vissuto ma che, soprattutto, deve prendere commiato da un’esistenza che ancora lo lusinga e lo tenta. Casanova impenitente, amante del vino e della buona tavola, ma anche dell’arte e della cultura, da sempre impegnato a sinistra, ha trascurato puntualmente gli affetti familiari per vivere alla grande o, forse, solo a modo suo. Il figlio, Sébastien, è l’incarnazione del suo opposto e contrario. Lavora con successo nella finanza, è felicemente fidanzato, ha una vita regolarissima ed è un conservatore convinto. I due si ignorano e si detestano cordialmente. Sarà la madre ed ex-moglie, Louise, a implorare il figlio perché l’aiuti a garantire una fine decorosa e il più possibile accettabile a Remy.
Lo spunto biografico che funge felicemente da filo rosso narrativo lungo tutta la pellicola dà adito a una serie di riflessioni talvolta profonde tal altre ludiche ma sempre avvincenti e intelligenti sulla decadenza dell’Occidente. Giustamente premiata la sceneggiatura che si esprime al meglio nella cura dei dialoghi, raffinati e forbiti, ironici e beffardi ma anche teneri e sentimentali. Non è solo un uomo allo specchio, nel momento culminante dell’esistenza, è un’intera società che si interroga sulle proprie manchevolezze e pregiudizi. E sul proprio “barbaro” passato, ormai rimosso. Ma anche sul “barbaro” presente, che è interno alla società stessa, pur essendone nemico, e che non può essere facilmente estirpato, proprio come un tumore allo stato terminale.
Denys Arcand fa sfoggio di grande maestria nel dirigere in maniera impeccabile un vero e proprio coro di attori, tutti ai massimi livelli. La critica più prevedibile sarà quella alla “furbizia”, al tentativo mai celato di accattivare lo spettatore, non risparmiando al pubblico le emozioni del dolore e dei sentimenti. Critica che non abbracciamo, convinti come siamo che sia piuttosto la vita a presentare anche momenti di commiato, con tanto di riappacificazioni, addii ai luoghi del cuore e teneri ricordi legati all’infanzia e all’adolescenza. Da segnalare anche la citazione e l’omaggio a “Cielo sulla palude”, il film di Augusto Genina con Ines Orsini che interpreta Maria Goretti, sulle cui immagini si stempera la vita. A commento dei titoli di coda, i sinceri e commossi applausi di un pubblico certo avvezzo a visioni di qualità.

Mariella Minna

Recensione n.2

Dopo avere affrontato “il declino dell’impero americano”, il gruppetto di universitari e’ cresciuto e si ritrova al capezzale dell’amico morente per constatare l’avanzata dei “barbari”: coloro che, indipendent mente dal paese di appartenenza ma seguendo una “way of life” tutta occidentale improntata al capitalismo, hanno perso di vista la qualita’ della vita, omologandosi ad uno stile tecnologico, individualista e competitivo, fondato su un’efficienza di facciata, tanta apparenza e molti consumi. La materia, quanto mai attuale, e’ scottante e a grande rischio di retorica, ma il brillante Denys Arcand riesce a te sere una sceneggiatura perfettamente equilibrata, in cui la tesi da esporre e’ dietro l’angolo senza, per fortuna, prendere mai il sopravvento. I personaggi hanno infatti idee chiare circa i principi a cui aderire, ma non sono monolitici nelle loro scelte e ironizzano con leggerezza sugli “ismi” che hanno scandito il loro cammino di crescita personale. Anche la malinconia con cui si intrecciano i ricordi non scade mai in uno sterile piangersi addosso.
E’ proprio la loro contradditorieta’ ad evidenziarne il lato umano e apermettere un’immediata empatia. In fondo sono i soldi del “barbaro” figlio Sébastien che consentono al padre Remy di morire nel modo piu’ sereno possibile, riducendo al minimo il dolore. Il film, grazie al cielo, nonostante una certa semplificazione nella problematicita’ degli sviluppi (forse non e’ cosi’ facile occupare l’intero piano di un ospedale o trovare un poliziotto cosi’ comprensivo) non propone facili soluzioni, ma offre molteplici spunti di riflessione: i vari temi sfiorati non vengono sempre sviscerati, ma rispecchiano con efficacia le dinamiche dei protagonisti e il contesto sociale in cui si muovono. L’unica lezione impartita dal regista supera i confini di ideologie, dogmi e postulati per raggiungere le corde dell’emozione tout-court. Ed e’ una lezione di buon cinema (il film e’ piacevole, scorre in fluidita’ e c’e’ caso che al riaccendersi delle luci lo spettatore si accorga di non avere cambiato posizione) e, perche’ no, di vita. In genere un tema difficile come la morte viene censurato o fronteggiato con toni grevi, inclini a virate patetiche o inutili melensaggini. Arcand,invece, sceglie prima di tutto di parlarne e, anzi, di renderla protagonista trasversale del suo lungometraggio, poi la mostra con estrema naturalezza: un passaggio obbligato e doloroso, reso meno insopportabile dal calore di amici e familiari e dalla lucidita’ con cui vengono prese decisioni non facili (l’utilizzo della droga a scopo terapeutico e l’eutanasia). Grande plauso all’intero cast, in particolare Stephane Rousseau (sara’ un caso la sua somiglianza con il nostro presidente del consiglio?) e l’incantevole Marie-Josée Croze, premiata a Cannes per la sua interpretazione, cui basta uno sguardo per riempire lo schermo.

Luca Baroncini (da www.spietati.it)

Recensione n.3

Ha questo di bello, il cinema: che sa ancora sorprenderti, regalarti sorrisi e risate e attimi di commozione. E proprio quando meno te le aspetti è capace di toccarti le corde del cuore.
La sala era quasi deserta, alla proiezione de “Le invasioni barbariche”. D’altra parte il regista, il franco-canadese Arcand, è semi-sconosciuto, il titolo non dice molto e la locandina ancora meno. Come si potrebbe riempire la sala in queste condizioni?
Alla fine, quando le luci si sono riaccese, il poco pubblico presente è rimasto lì, incollato alle poltrone, ad asciugarsi gli occhi, commosso.
Perché “Le invasioni barbariche” è un piccolo grande film.
Un film difficile da realizzare. Il tema non è proprio originale: la morte. Ci sono migliaia di film che parlano della morte, in tutte le salse. Dagli horror ai melodrammi, dai thriller alle commedie nere: sembra che non ci possa quasi essere un film senza che qualcuno muoia. Perché in fondo la morte fa parte della vita. Mi tornano in mente le parole di Pasolini, quando sosteneva che “è necessario morire, perché finché siamo vivi manchiamo di senso”. La morte compie un montaggio fulmineo della nostra vita, trasforma il presente in passato, e consente finalmente, alla vita, di esprimersi.
Questo film nasce da un’idea semplice: Remy, un professore ormai in pensione, sta morendo, e attorno al suo letto si riuniscono i vecchi amici, l’ex moglie, il figlio Sébastien volato in Canada da oltreoceano. E’ lui “il principe dei barbari”: il figlio perfetto, con una carriera perfetta, una fidanzata perfetta, una moglie perfetta. Le sue armi sono il telefonino, il computer, e tutte le diavolerie moderne. E nonostante i silenzi che ne hanno contraddistinto i rapporti col padre, lui, grazie ad un fiume di soldi, riuscirà ad aiutarlo, a regalargli una morte serena e pacifica. I temi appena sfiorati, spesso con ironia, sono tanti e delicati: dall’eutanasia al potere curativo delle droghe, dalla corruzione della classe politica alla mala-sanità, dalla solitudine esistenziale ai valori dell’amicizia.
Una cosa mi sono chiesto, mentre le immagini scorrevano sul grande schermo: come mai questo film, così povero a livello cinematografico, mi sta così emozionando? Voglio dire, non è che sia un gioiellino di tecnica cinematografica, anzi: le inquadrature sono tutte simili, non hanno niente di particolarmente originale o artistico. Sono semplici primi piani di volti, spesso frontali. E allora, cosa c’è che rende questo film così speciale, che lo rende più emozionante di pellicole farcite di immagini girate con macchine da presa acrobatiche?
E’ un cinema fatto soprattutto di parole. L’attenzione e la cura nei dialoghi sono maniacali.
Tutto ruota attorno ai dialoghi, cinici e diretti, sferzanti e intelligenti.
La parola è più forte dell’immagine. Nonostante il viso di Remy sia molto espressivo, nonostante gli sguardi della giovane Marie Josee Croze buchino lo schermo, è la parola ad essere al centro del mondo.
Più che una dichiarazione d’amore verso il cinema come mezzo visivo-espressivo, “Le invasioni barbariche” è perciò una professione di fede nel cinema come racconto. E’ il racconto a renderci padroni della nostra storia, della nostra vita. E’ grazie al racconto che possiamo comunicare e condividere con gli altri la nostra vita.
Quello del film, poi, è un racconto che ha più voci. Tra una battuta (divertentissima) e una riflessione a metà tra l’ironico e il malinconico, tra una citazione colta e il ricordo di un aneddoto particolarmente piccante le voci si mescolano, e diventano un tutt’uno, un’unica musica. Una musica che rende forse più dolce l’addio. Perché, grazie al racconto, quei vecchi amici stanno ancora una volta respirando l’inebriante profumo della vita. Di una vita – così piena di sogni ed errori, di speranze e disillusioni, di gioie del sesso e di pene d’amore – che ormai sembra far solo parte del libro dei ricordi.
Come una fiamma che, nascosta sotto la pellicola, continua a bruciare e palpitare, e ci regala sorrisi e commozione.

Stefano Borgo