Titolo originale: The Fine Art of Love – Mine Ha-Ha
Regia: John Irvin
Sceneggiatura: Jim Carrington ,Sadie Jones
Scenografia: Dante Ferretti
Fotografia: Fabio Zamarion
Costumi: Carlo Poggioli
Musiche: Paul Grabowsky
Montaggio: Louisa Harding ,Roberto Perpignani
Anno: 2005
Nazione: Italia/Repubblica Ceca/Gran Bretagna
Distribuzione: 01 Distribution
Durata: 107′
Data uscita in Italia: 25 novembre 2005
Genere: drammatico(?) erotico (?), sentimentale(?), sicuramente con il contributo del ministero e della rai, attraverso le sue “corporate”. la direttrice Jacqueline Bisset
l’autista Tomás Hanák
Simba Eva Grimaldi
Lady Helena Galatea Ranzi
Ispettore Enrico Lo Verso
Ogni film può o non può avere un intento educativo, ma l’opera in questione certamente è in grado di essere un esempio altamente didattico di una certa realtà del cinema, anche se probabilmente in un modo inatteso dagli autori.
La prima cosa che mi viene in mente dopo aver visto l’opera di Irvin è che questo film ha ricevuto il sostegno del ministero dei beni culturali (Italiano!), e veniamo quindi al primo teorema educativo de “L’educazione fisica delle fanciulle”, cioè la dimostrazione lampante di come per ottenere dei fondi o agevolazioni statali (e della tv di stato), una delle ricette più ambite è: mettere insieme un’accozzaglia di nomi blasonati e qualche curriculum araldico, legare tutto questo a un’insigne matrice letteraria (il romanzo di Frank Wedekind) e riferirsi a un immaginario storico-teatrale, quindi mescolare per bene finché non ha la parvenza di “culturalmente meritevole”. E il piatto è servito!
Lo spettatore in sala si sforza di trovare un interesse, non dico culturale in senso “nobile”, ma un “interesse”, anche solo di intrattenimento.
Cerchiamo di fare ordine: in un collegio sperduto molte trovatelle sono educate ad una rigida disciplina, alla danza, al galateo. E questo ha uno scopo, cioè l’essere addottrinate ad una sorta di saggio finale con la presenza di tutte le autorità tedesche ed un famelico principe. Su un’ordinanza imperiale tutto questo è lecito ed ha il fine nascosto nel fatto che questa educazione fisica sia destinata a dare al principe dei “fiori freschi” per le sue voglie sessuali. Gli spettacoli svolgono questa funzione, fare da antipasto ai pruriti del nobiluomo, che poi si scatenerà a suo modo sulla “prima ballerina”, la prescelta! Magari alle altre autorità toccano le ballerine meno brave e “sode”; ai più sfigati le ballerine di fila. Ecco qui la trama, il mistero e la “detection” insita nella trasposizione cinematografica, non particolarmente adatta al romanzo di Wedekind, ma ancor meno all’idea di farne una fiction tv.
Ci si chiede, come mai in un periodo di “vacche magre” si producano film così, invece di concentrare risorse ed energie su menti fresche, nuove idee, gente piena di entusiasmo.
L’ “interesse culturale” del film potrebbe essere quello di rinfrescarci un certo immaginario fine ottocento, secondo poi la singolare visione di Wedekind, per restituirci soprusi e violenze di casato, già visti e letti in mille altre variazioni, ma questi progetti ormai si fanno in epoche di “vacche grasse”, quando ci si preoccupa, come dopo un succulento pranzo, di qualche sfizio minore.
Ci sforziamo di trovare un senso, ed alla fine lo scoviamo. Il film può essere una metafora non voluta della situazione di chi fa spettacolo oggi: le trovatelle sono tutti gli operatori o aspiranti tali che operano nel cinema, i quali curano minuziosamente i loro progetti, che nel film sarebbero gli “spettacoli finali”; il principe perverso e le autorità sono interpretati dagli enti che presiedono alle istituzioni che operano nel cinema, i quali, con le dovute eccezioni, usano e sfruttano in vario modo i “novelli”, tutelando saldamente privilegi acquisiti di vecchi e nuovi.
L’urlo finale di una delle protagoniste è il nostro, quello di spettatori e professionisti, che temiamo, come la ballerina che non riesce a uscire dalla labirintica tenuta principesca, di non trovare la via di fuga dalla sala, e ci sovviene quindi il pensiero che una dei personaggi è morta chiusa in una sala segreta. Il dubbio è che non stiamo vedendo un film, ma una messinscena di un killer che ci vuole eliminare, assoldato da qualche produzione cinematografica decadente (come il principe agli albori del nuovo secolo) che vuole conservare la precedenza assoluta su risorse e sostanze.
Durante la proiezione mi alzo perché voglio chiudere le tende del WC, dal quale viene un riverbero di luce che disturba la visione del film. Il pubblico mi guarda male, come a dire che il mio gesto e la mia cura sono “inopportune” per un film del genere.
Temo che nella cultura italiana vi sia un malinteso senso di internazionalismo; non basta conoscere quattro lingue e trovare dei partner internazionali per proporre una cultura realmente mitteleuropea o cosmopolita. I maestri del cinema italiano e le nostre attrici leggendarie spesso sapevano “si e no” due paroline di francese, e il loro patrimonio espressivo era fortemente localizzato, eppure ci hanno regalato opere che in ogni dove riconoscono come essere internazionali. L’anima di un film deve essere prima di ogni cosa internazionale, se si vuole proporre qualcosa di tale; non è questione di lingua, ma di linguaggio cinematografico, però così rischiamo di addentrarci in un altro discorso. “L’educazione fisica delle fanciulle” è il tentativo riuscito di mettere insieme lingue, coproduzioni e riferimenti letterari senza essere per nulla internazionali, ma piuttosto provinciali.
Nei paesi dell’est le linee editoriali sono, per esempio, fortemente diverse da questo film, che, guarda caso, vanta una coproduzione ceka.
Nella recensione c’è la locandina e l’Urlo di Munch, che è anche il nostro, ed ha un valore artistico maggiore del finale “urlo di interesse culturale” della ballerina stuprata, una maldestra “esecuzione” di espressionismo tedesco.
Però non penso che l’opera in questione sia un brutto film come invece crede il pubblico e gran parte della critica, della quale anche noi facciamo parte. Il film è ben recitato, dietro c’è comunque il “mestiere”; le luci, la fotografia, l’impianto coreografico, scenografico e iconografico sono ben studiati. E’ molto semplicemente un film inutile, uno sforzo inutile. Uno spreco di risorse e di talenti.
Un interrogativo monta prepotentemente…
Perche? Why? Pourquoi? 为什么? (cinese) Warum? (tedesco), Por qué? (spagnolo), Por que? (portoghese, siamo su Central!) なぜか (giapponese), 왜? (coreano).
Il cinema è un’altra cosa, lasciamolo a chi ha delle idee, non ai matusa e nemmeno alle altrettante nuove leve plasmate da inutili master, ma solo a chi ha materia grigia e un po’ di competenza. Ci vuole poco, tutto il resto è impegno e lavoro. Grazie.
Gino Pitaro newfilm@interfree.it