Recensione n.1

L’originalità del titolo e il suggestivo cartellone lasciano presagire un percorso insolito nel panorama del cinema italiano. E le aspettative, nonostante qualche riserva, non restano deluse. Il punto di forza del film di Matteo Garrone (presentato con successo a Cannes) non e’ tanto nella storia, quanto nell’approccio stilistico. Il racconto prevede un atipico (ma in fondo classico) triangolo, in cui un aitante giovane si trova a dover scegliere tra l’amore ossessivo di un nano e quello di una bella ragazza. Il forte legame che si crea tra i tre viene più suggerito che mostrato e i personaggi hanno a disposizione molte più informazioni rispetto allo spettatore. Alcune vengono svelate nel corso della narrazione, altre restano un mistero insondabile che la conclusione lascia solo intuire. La sceneggiatura, però, non riesce a mantenere costante la necessaria tensione e incappa in qualche forzatura, come nella banale entrata in scena del personaggio femminile o nella prevedibile meccanicità del pre-finale, quando giunge l’inevitabile resa dei conti.
Gli interpreti si calano nei personaggi con naturalezza, evitando schematismi o impostazioni accademiche. Molto bravo il protagonista Ernesto Mahieux e due volti da tenere d’occhio i giovani Valerio Foglia Manzillo e Elisabetta Rocchetti. A tenere le fila della storia, una regia attenta a valorizzare l’ambiente in cui si muovono i personaggi, coadiuvata dalla suggestiva fotografia di Marco Onorato. C’e’ una sorta di continuità visiva tra il deserto litorale campano e la perenne foschia di Cremona, quasi a sottolineare il fardello di ombre e dubbi che grava costantemente sui personaggi. Come se agli spostamenti da un capo all’altro della penisola non corrispondesse alcuna presa di coscienza in grado di lasciar finalmente trasparire qualche raggio di sole.

Luca Baroncini

Recensione n.2

° Peppino Profeta è un uomo di bassa statura che imbalsama animali per passione e, occasionalmente, presta la sua abilità per servizi particolari a un boss della camorra; Valerio è un giovane che viene affascinato dalla figura di Peppino, inizia a lavorare con lui e ne subisce l’influsso; Deborah è una ragazza dalle labbra rifatte di cui Valerio si innamora, ricambiato. Ambientato tra una Campania aperta ma incredibilmente opprimente e una Cremona altrettanto grigia e cupa, una sorta di noir dei giorni nostri dove il vertice del triangolo di esistenze e amori non è una donna, ma una complessissima figura di tassidermista, in parte isolato dalla società per il suo aspetto fisico e in apparenza sgradevole ma, invece, vitale e capace di slanci ed emozioni assolutamente comprensibili e umani. Ma, come si capisce fin dal titolo, il centro del film è rappresentato dalla morte che cristallizza e imbalsama attimi ed esperienze: il rapporto con essa, come quello con l’imbalsamatore, è fatto di fascinazione e paura, attrazione e repulsione, ingratitudine e riconoscenza, ma in ogni caso la morte va conosciuta e toccata con mano per poterla affrontare e, forse, esorcizzare. La regia di Garrone, infinitamente più sicura rispetto alle sue prime opere, filma personaggi e ambienti come piccoli mondi isolati fra loro che tentano una conoscenza reciproca che è, allo stesso tempo, possibile ma difficilissima: ed è proprio in quel fragile momento – come nell’incontro/scontro tra interni chiusi ed esterni soffocanti, luci smorte e neri paurosamente abissali – che nasce la tragedia, e non tanto con la comparsa dei topoi più classici inerenti alla sfera della minaccia e del terrore (come la pistola nel finale). La sceneggiatura di Ugo Chiti, Garrone stesso e Massimo Gaudioso si ispira lontanamente a un fatto di cronaca reale, ma alterna sagacemente realismo provinciale, minimalismo esistenziale e astrattismo formale ed è capace di notevoli ellissi e di intelligenti non detti che aumentano l’interesse dell’opera: miracoloso, poi, come i personaggi (Foglia Manzillo e la Rocchetti sono esordienti, mentre Mahieux proviene dal teatro e dalle sceneggiate napoletane di Mario Merola) siano già vivi sul nascere e come abbiano bisogno di pochissime battute per evolversi ed esprimere tutta la loro dignità, mentre qualsiasi situazione ha quel briciolo minimo di surrealismo simbolico perché appaia sempre e comunque credibile. Uno dei film più intriganti e ostici del recente cinema italiano, innervato di una sottilissima tensione metafisica (la stessa che provano i personaggi fra loro e, soprattutto, nei confronti di Peppino) che raggiunge livelli di saturazione e di apoteosi poetica talvolta davvero spiazzanti e impensabili. La colonna sonora della Banda Osiris è fatta di niente ed eppure angoscia realmente; Salvatore Sansone, interprete del film precedente di Garrone (Estate romana), è l’aiuto regista. Presentato con successo a Cannes e variamente premiato: occhio indagatore e chiare idee di regia, Garrone merita in pieno il titolo di “nuova promessa”. DRAMM 101’ * * * *

Roberto Donati