Scheda film

Regia e Soggetto: Gianni Amelio
Sceneggiatura: Gianni Amelio, Davide Lantieri
Fotografia: Luca Bigazzi
Montaggio: Simona Paggi
Musiche: Franco Piersanti
Scenografia: Giancarlo Basili
Costumi: Cristina Francioni
Italia, 2013 – Drammatico – Durata: 104’
Cast: Antonio Albanese, Livia Rossi, Gabriele Rendina, Alfonso Santagata, Sandra Ceccarelli
Uscita: 5 Settembre 2013
Distribuzione: 01 Distribution

 Senza macchia e senza paura

Per comprendere fino in fondo l’ultimo lavoro di Gianni Amelio, bisogna partire dal presupposto che L’Intrepido vuole parlare di un tipo di eroe moderno, che riesce a fare a meno dell’utilizzo della forza e della prevaricazione sul prossimo, anche se malvagio. Il fine è quello di distaccarsi da un filone cinematografico che racconta di un machismo fin troppo marcato nel descrivere l’eroismo classico e moderno. Questo tipo di impronta accompagna tutto il percorso narrativo del lungometraggio ed è sicuramente un tema stilistico apprezzabile e convincente. Detto questo tuttavia va aggiunto che il film reca innegabilmente dei buchi abbastanza consistenti nello svilupparsi della trama, buchi che rendono il racconto piuttosto confuso e frammentato, boicottando in parte quello che è l’intento generale, ossia quello già accennato di un sovvertimento positivo del concetto di forza.
La storia naturalmente è ambientata ai giorni nostri, durante la più grande crisi economica, sociale e morale degli ultimi ottant’anni. Forse il momento adatto per un cambiamento. Il lavoro del protagonista, interpretato da un magistrale Antonio Albanese, che si cala molto bene nei panni dell’uomo qualunque, è quello del “rimpiazzo”, che consiste nel prendere il posto di chi si assenta dal proprio lavoro, anche solo per qualche ora. Oltre ad adoperarsi in questo multi-lavoro così peculiare inoltre, il nostro eroe cerca di tenere il più possibile saldo il rapporto col figlio, sassofonista professionista in crisi creativa ed in conflitto con il proprio lavoro di artista, e di aiutare, per quanto gli è possibile, l’amica Lucia, ragazza inquieta e guardinga, che nasconde un segreto, dietro la sua voglia di farsi avanti nella vita.
Il titolo del film è ispirato agli albi a fumetti che il regista ha detto di aver letto spesso da bambino. Il punto di partenza rimane quindi quello di mischiare realtà e fantasia, attualità e nostalgia, in un unico flusso narrativo, per evocare la sensazione di incertezza dei nostri tempi, ma anche per dare un senso di speranza infantile, che prova un bambino quando legge i fumetti del proprio eroe. L’aspetto che convince poco però, è che dietro lo scopo di parlare di un eroe atipico e fragile e di regalare al pubblico un’atmosfera sognante, ci sia comunque l’intento di raccontare una storia ben precisa. Ed è proprio quest’ultimo aspetto che è venuto totalmente a mancare. La consequenzialità del racconto infatti risulta quasi assente, facendoci assistere ad un’opera che si nutre sì di idee interessanti e piuttosto innovative, ma, forse proprio per seguire questo fine così alto, esce spesso fuori dai binari, presentando piuttosto una serie di episodi isolati che si legano piuttosto male l’uno con l’altro.
Anche le figure dei due co-protagonisti per altro, il figlio Ivo e l’amica Lucia, risultano delineati in modo abbastanza confuso. Sebbene infatti il personaggio di Ivo impersoni fichi bene il ruolo dell’artista (e quindi dell’arte stessa) che non riesce più a capire il pubblico per cui deve esibirsi e che quindi si rifugia in una torre d’avorio, perdendo il contatto con tutto quello che in passato aveva reso l’arte come una vera e propria guida spirituale, l’evoluzione del personaggio vero all’interno della storia non ha un effettivo senso compiuto, lasciando troppo spazio a questi simbolismi, che a lungo andare possono davvero risultare fin troppo leziosi. Per quanto riguarda il percorso di Lucia invece non possiamo neanche attenuarne la mal riuscita narrativa con una buona riuscita nell’esplicazione dei sottotesti, dato che non si riesce a capire bene quale sia il ruolo di questa ragazza nella storia, sceneggiata da Amelio e da Davide Lantieri, se non quella della già abusata figura della giovane ragazza delusa dalla vita e dagli uomini, figura vista e rivista in non so quanti altri film e che in questo in particolare si esaurisce presto senza lasciare molte tracce apprezzabili.
Ecco che quindi L’Intrepido risulta un lavoro decisamente ambivalente nella sua riuscita. La parte sottotestuale infatti è ricca e coerente e regala spesso anche momenti di ampia riflessione, sulla società dei nostri giorni e sui riadattamenti che quest’ultima dovrebbe compiere su se stessa, per poter uscire dalla forte crisi identificativa che sta vivendo. D’altra parte l’aspetto più strutturale, certamente importante quanto il primo, scricchiola sin dagli inizi della storia, faticando a trovare una convincente riuscita.
E intanto a Venezia lo fischiano già. I soliti esagerati. 

Voto: 6

Mario Blaconà

 #IMG#Tempi moderni

Antonio Pane non ha un’occupazione ordinaria: nella vita fa il “rimpiazzo” ovvero sostituisce chi per qualche motivo deve assentarsi dal proprio posto di lavoro, non importa se si tratti di una supplenza di qualche ora o di una giornata. E’ un uomo mite e sorridente, “eroe” latore di speranza in una società che al contrario è sempre più schiava dei suoi affanni: lui ha imparato a gioire di piccole grandi soddisfazioni, come quella di poter ascoltare i progressi musicali di suo figlio Ivo, sassofonista alle prese con le fragilità e le insicurezze dei suoi vent’anni. Nel corso delle sue giornate itineranti Antonio si confronta con persone, vite e storie diverse in un lungo viaggio attraverso la crisi e i suoi risvolti.
“All’inizio delle riprese l’ho definito una commedia, ma in tanti saranno pronti a smentirmi anche se si ride parecchio” ha sottolineato Amelio nelle note di regia ma a dispetto delle dichiarazioni del regista l’elemento umoristico non sembra manifestarsi in maniera così evidente e travolgente: il film infatti è concepito quasi come una favola sul mondo del lavoro e sulla contemporaneità, un ritratto dolce-amaro venato di malinconia e di speranza, che non rinuncia a qualche accenno più leggero ma che certo non sembrerebbe fare della risata il proprio tratto distintivo.
Dopo il coinvolgente Il primo uomo – tratto dal romanzo di Albert Camus – Amelio torna a raccontare l’Italia di oggi, in una parabola sull’umanità, la solidarietà e il desiderio di rimanere ancorati a stralci di “normalità” anche quando ogni forma di routine e stabilità sembra andare in frantumi: L’intrepido – che deve il suo titolo all’omonima rivista di fumetti d’avventura per ragazzi – racconta una Milano plumbea, affaticata e dolente, dove per rimanere a galla e non essere inghiottiti dalla disperazione e dagli stenti bisogna lanciarsi in una lotta quotidiana contro i fantasmi della disoccupazione, della povertà, dell’emarginazione. E per fotografare questa realtà statica e al contempo tumultuosa il regista di Così ridevano si affida a una manciata di personaggi su cui spicca il protagonista Antonio, che ha superato da tempo i quarant’anni e si trova sospeso in quel drammatico limbo in cui la sua disponibilità e potenzialità lavorativa non trova una corrispondenza nel mercato occupazionale; ad affiancarlo c’è suo figlio – che insegue il sogno di una vita a suon di musica ma è instabile e vulnerabile – e Lucia, una giovane precaria che fatica ad arrivare a fine mese e convive con l’incubo di non riuscire ad andare avanti.
Amelio mette da parte l’asciuttezza e la compattezza narrativa del suo cinema per plasmare un progetto che si costruisce in accumulo, girando attorno allo stesso schema e alla ripetitività delle situazioni: nel tentativo di vivacizzare lo sviluppo della storia lo stile si modella a seconda delle circostanze, e così mentre i toni para-neorealistici sfumano nelle accelerazioni à la Charlot, il ritratto “sociale” si amalgama al melodramma familiare. Il risultato però sembra mancare di spontaneità e prende ben presto le forme di una poco coinvolgente celebrazione della solidarietà e della bontà, in una zuccherosa e poco sfaccettata carrellata di buoni sentimenti che spesso finisce per sfociare in conclusioni narrative decisamente discutibili.
L’intrepido – ritagliato su misura per calzare con precisione sartoriale le caratteristiche interpretative di Antonio Albanese – incappa in una fissità narrativa che finisce per coinvolgere anche i contenuti, mentre il film si popola di personaggi e situazioni al limite del caricaturale: la sensazione è che più che una ricerca onesta sui cortocircuiti della vita contemporanea, Amelio si sia impantanato in una serie di luoghi comuni e che nel tentativo di restituire delicatezza e dolcezza alla storia abbia finito per appiattire ogni sfumatura, limitandosi a una lettura piuttosto grossolana del contesto che vorrebbe raccontare.
La desolazione delle periferie e i ritmi forsennati di una città che non sembra nemmeno accorgersi delle ferite che la affliggono fanno quindi da palcoscenico a una favola schematica e un po’ fredda, appesantita da una sceneggiatura che non aiuta a risollevare i destini della pellicola e che anzi sembra diluire ancora di più le potenzialità empatiche della storia, già minate da personaggi insoluti e inspiegati, mestamente sconfitti dalla vita ma incapaci di restituire tridimensionalità anche al loro disagio. 

Voto: 4 e ½

Priscilla Caporro

 Pane per i nostri denti

Antonio Pane come professione fa “il rimpiazzo”, ovvero quando una persona per qualunque motivo desidera assentarsi dal lavoro, lui la rimpiazza, fosse anche solo per qualche ora. Antonio ha anche un figlio, Ivo, che adora e che da sempre spinge perché possa fare la professione che desidera, suonare il Sassofono. Antonio conosce ad un concorso pubblico Lucia, carica di problemi e coetanea di suo figlio e che desidera aiutare.
Una storia carica di speranza e con un lieto fine che è preceduto da sconforto, crisi personali, quelle di tutti e tre i protagonisti, tutte intarsiate negli anni della crisi economica del nostro paese, quella che costringe Antonio ad adattarsi a fare di tutto e Lucia a non riuscire a trovare la propria collocazione professionale; il tutto sullo sfondo di una Milano plumbea, invernale che non lascerebbe alcuna speranza a un uomo di 48 anni escluso dalla vita lavorativa ma che intrepidamente decide di costruirsi una nuova vita, grazie all’aiuto di un boss della malavita che lo traghetta nel mondo di coloro che desiderano venire temporaneamente sostituiti, in una sorta di aspettativa dalla propria professione, ma sui generis, perché la loro aspettativa vale solo per qualche ora, il tutto per poter rimanere permanentemente allenati, un po’ come i pugili che desiderano sempre essere tesi come corde di violino. Antonio Albanese interpreta il proprio personaggio con leggerezza e una bravura frutto dei personaggi che spesso ha portato sui palcoscenici della penisola. Amelio riesce ad offrirgli una parte che pare calzargli a pennello, a causa di quel fare stralunato che solo il comico ormai bolognese di adozione riesce a infondere alla figura di Antonio Pane. Un film incapace di scacciare la crisi, ma capace di dare un vero alito di speranza a coloro che lo vedranno. 

Voto: 8

Ciro Andreotti