Recensione n.1
E’ un approccio molto intellettuale quello di Todd Haynes nel nuovo lungometraggio “Far from heaven”. Presenta infatti alcuni dei piu’ classici e saccheggiati temi cinematografici e li ripropone facendo il verso ai film di Douglas Sirk degli anni cinquanta. Quelli tutti emozioni contratte, foglie autunnali in Technicolor, gonne a palloncino, cappellini impossibili, sorrisi di facciata, villette a due piani immerse nel verde, torte di mele appena sfornate.
Le apparenze ovviamente ingannano, la vera felicita’ non e’ quella che si ostenta, diventa quello che sei: il cinema ha sempre parteggiato per una liberta’ di pensiero e di costumi, forse proprio per dare al pubblico la possibilita’ di vedere realizzato, in un gioco un po’ perverso e frustrante, cio’ che la quotidianita’ negava. E cosi’ la moglie perfetta Cathy Whitaker, sposata al marito perfetto Frank Whitaker, deve fare i conti con l’urgenza delle pulsioni. Il marito preferisce i giovanotti e lei si ritrova innamorata del sensibile giardiniere nero.
Due dei massimi tabu’ dei perbenisti anni cinquanta, quello razziale e quello sessuale, vengono quindi affrontati nel film di Haynes attraverso una rilettura post-moderna. E’ curioso come la novita’ sia nel recupero, ma riciclare con pacatezza e intelligenza permette di attualizzare il messaggio. Julianne Moore, giustamente premiata a Venezia per la sua interpretazione, si conferma una delle attrici piu’ brave della sua generazione. Perfetta nel mostrarsi perfetta e con un sorriso di disarmante tragicita’.
Ma fondamentali, per la creazione dell’atmosfera old-style, si rivelano anche costumi, scenografie e fotografia. Ovviamente tanta cura formale rischia di cadere nel citazionismo gratuito ed infatti il film non infiamma come i melodrammi a cui si ispira. Forse perche’ abbandona l’ironia della prima parte per prendersi sul serio, finendo cosi’ per diventare un ibrido, non cosi’ dissacrante da divertire, ma nemmeno cosi’ doloroso da commuovere.
Luca Baroncini
Recensione n.2
Il film, ottimamente confezionato, ci riporta all’America degli anni Cinquanta, con tutti i suoi pregiudizi, razziali e sessuali. La bella Cathy, moglie e madre perfetta, e l’elegante Frank, marito e padre integerrimo, conducono un’esistenza felice, in una tipica casa della middle-class americana (di quelle con giardino annesso) in cui non scappa mai un’imprecazione fuori posto. Cathy è sempre perfettamente vestita, di preferenza con colorati e cangianti abitini a ruota, sempre impeccabilmente truccata, la pettinatura ingessata in tonnellate di lacca. Nel contemplarla davanti allo specchio, la figlia non potrà non esprimere il desiderio più che legittimo di assomigliarle un po’.
Eppure tra i due coniugi qualcosa manca: si astengono completamente dal dovere coniugale, causa le frequenti emicranie di lui. Se si fosse realmente trattato di un film dell’epoca, le motivazioni reali sarebbero state soltanto suggerite. Essendo invece una rilettura moderna, la scena d’amore fra i due uomini è esplicita. Come è evidente il trasporto sentimentale di Cathy nei confronti dell’intelligente giardiniere (da “L’amante di Lady Chatterley” in poi, figura protagonista dell’immaginario erotico femminile) ahimé di colore, con tutte le conseguenze del caso. Fa da sfondo l’ambiente perbenista e ipocrita, pettegolo e limitato dell’epoca.
La natura, con i colori autunnali delle foglie, suggerisce per tutto il film una sorta di congelamento dell’anima, una rinuncia all’autentica felicità che nasce solo dall’espressione del sé. Solo nel finale, infatti, gli alberi saranno in fiore, ipotizzando una rinascita, una nuova vita, una primavera del cuore. Operazione intelligente e raffinata, di sicura godibilità soprattutto estetica, se non estetizzante. L’intreccio è il pretesto per un omaggio a un’epoca ormai lontana e perduta e ad un cinema altamente prolifico. Il risultato è piacevole, convincente, originale.
Mariella Minna