Recensione n.1

Con quei personaggi la’, io ci sono cresciuta: a differenza degli attori veri, non invecchiano mai e le loro storie hanno plot rassicuranti e sempre uguali, come le favole che cullano di creativa regolarita’ bambini e non solo. I complessi piani di Willy Coyote si ritorceranno contro di lui e Bugs Bunny se la cavera’ sempre con elegante faccia di culo: sappiamo gia’ come va a finire anche quando li ritroviamo coinvolti in una tipica storie di spie (con tanto di Timothy Dalton che impersona se stesso).
Looney Tunes puo’ essere considerato il Kill Bill del cinema hollywoodiano, un repertorio ragionato di citazioni inequivocabili, una summa per immagini e topos del divertimento in sala. E’ divertente? Non sempre. Joe Dante si rilassa girando un film per bambini, indulge nei suoi personali onanismi metacinematografici (che io adoro) e dimentica del tutto di montare una storia interessante, come se i bambini fossero di bocca buona e il metacinema non imponesse anche un rigore diegetico.
Gli spunti, le battute, le situazioni sono pero’ innumerevoli, preziose e feconde: questo film e’ un manifesto del cinema postmoderno, che pretende di poter fare polpette delle regole della coerenza interna e della verosiglianza, chiedendo il diritto di regalare anche agli attori in carne e ossa le licenze speciali a cui hanno diritto i cartoni. Un film che potrebbe uccidere un materialista pignolo gia’ dai titoli di testa, insomma.
Brendan Fraser rompe la quinta in cui Daffy Duck entra, e quando la sfrutta Daffy Duck si incazza, salvo poi piu’ tardi – come da suo personaggio – estendere a tutti l’ubiquita’ cartonesca: Parigi (dove davanti al Louvre c’e’ la Tour Eiffel) val bene uno strappo al sipario. Un metafilm politico, con battute esplicitamente no-global e situazioni piu’ sottilmente di critica alle strategie produttive degli studios: Steve Martin in versione Austin Powers e’ una via di mezzo tra Steve Jobs, Bill Gates, Richard Branson e Silvio Berlusconi.
La sequenza al Louvre e’ gioia pura, la migliore introduzione che un bambino possa avere all’arte: ignoro se questo film possa piacere a qualcuno, bambino o adulto che sia, ma le mie sinapsi da ieri sera svolazzano come i personaggi dei cartoni liberati nel mondo reale.

Mafe

Recensione n.2

E’ davvero sconfortante ritrovare un regista discontinuo ma estroso come Joe Dante alle prese con un pastrocchio insulso e brutto come “Looney Tunes: Back in action”. In teoria sarebbe il seguito di “Space Jam”, con alla base la stessa idea di un’interazione tra personaggi reali e cartoni animati della Warner Bros. Nella pratica si verifica un fenomeno bizzarro: sono davvero tante le idee che movimentano ogni sequenza, ma la creativita’ non e’ supportata da una regia capace di tenere sotto controllo i singoli elementi che compongono il film. Ci si trova cosi’ sottoposti a un vero e proprio bombardamento visivo senza alcun amalgama in grado di dare un senso agli eventi che si succedono con ritmo inutilmente frenetico. Il difetto piu’ evidente e’ quindi l’assenza di una sceneggiatura (Pixar docet): la trama e’ esilissima e i dialoghi sono piatti. La maggior parte delle gag ripropone situazioni da avanspettacolo dall’esito piu’ che prevedibile e le pochissime battute brillanti smorzano il sorriso a causa di una impropria gestione dei tempi comici. L’usuale ironia di Dante fa capolino in alcuni dettagli (qualche frecciata allo show business e alle regole del marketing), ma sfocia in una comicita’ fracassona che, difetto imperdonabile, non fa mai ridere. Anche la tecnica latita. “Chi ha incastrato Roger Rabbit” e’ di quindici anni fa, ma appare molto piu’ sofisticato. Soprattutto, non sempre convince la sincronizzazione tra persone e cartoon, con attori che, si capisce benissimo, fissano il vuoto mentre fingono malamente di interagire con i disegni animati. Purtroppo nemmeno la recitazione sopra le righe dell’intero cast e delle comparse (ogni gesto e’ fastidiosamente amplificato e smorfie e moine non si contano) riesce a salvare il film dal completo disastro: Brendan Fraser e’ piu’ che volenteroso ma non ha il dono dell’espressivita’; la televisiva Jenna Elfman e’ graziosa ma si agita inutilmente e non risulta affatto simpatica; Joan Cusack esaspera le gia’ terribili battute che le toccano; Timothy Dalton pare spaesato e in performance alimentare; Heather Locklear sfodera un lifting perfetto (forse la cosa piu’ riuscita del film), ma la Palma dell’insopportabilita’ spetta di sicuro a Steve Martin. Truccato come Mike Myers, gigioneggia oltre ogni limite non riuscendo mai astrappare il benche’ minimo sorriso e suscitando, invece, una sincera irritazione.Non manca un ricco corredo di citazioni (uh!) che pare abbia mandato in sollucchero buona parte della critica.
Come se riciclare, a volte anche con brio, bastasse a riempire il vuoto narrativo in cui sprofondano i personaggi. Una sequenza si salva: il divertente e fantasioso inseguimento all’interno dei quadri del Louvre. Ma non basta certo una piccola boccata di ossigeno per dare respiro al film.

Luca Baroncini (da www.spietati.it)