Sono stati fortunati Keith Fulton e Louis Pepe, perche’ se il velleitario progetto di Terry Gilliam fosse divenuto realta’, il loro backstage si sarebbe confuso tra i tanti extra della versione DVD. L’impossibilita’ di trasformare “The Man who killed Don Quixote” in un film compiuto, lo ha invece reso la preziosa testimonianza di un fallimento. Il documentario e’ quindi un interessante dietro le quinte che insegna le tante difficolta’ che un progetto deve affrontare prima di essere film e poter raggiungere un pubblico, vivendo cosi’ di vita propria. Difficolta’ che comprendono la ricerca degli attori, la scelta delle location (non geniale la decisione di un set confinante con un territorio militare), i problemi logistici (prenotazioni di aerei e alberghi), la gestione delle comparse, sedute collettive di “reading” della sceneggiatura, la predisposizione delle scenografie e dei costumi. Un’enormita’ di occhi, bocche e mani che attendono un “si'” o un “no” e che il regista deve miracolosamente far interagire in modo equilibrato, in attesa, a sua volta, di “si'” o “no” da chi il progetto lo sostiene economicamente. Tanti i motivi che hanno concorso al disastro finanziario (32 milioni di dollari) e creativo: la troupe sparsa in giro per il mondo, l’assenza di reale comunicazione tra i vari elementi del cast, un nubifragio a inizio lavorazione, il male alla prostata del protagonista Jean Rochefort,che ha dovuto abbandonare il set, ma su tutto l’incapacita’ del regista di circoscrivere il suo estro, di dare una forma alla sua potente visione, di sfogare in modo costruttivo il suo ego. Un’ambizione smisurata, poco incline al compromesso, che si e’ trovata a scontrarsi quotidianamente con l’assenza di un budget adeguato e con un’organizzazione approssimativa (anche se gli spot girati successivamente per la Nike, qualche inclinazione al compromesso la dimostrano). Il documentario segue la fase di pre-produzione e i pochi giorni di riprese. Terry Gilliam mantiene sempre un ottimismo contagioso, come se gli ostacoli fossero carburante della sua grande capacita’ visionaria, ma intorno a lui l’entusiasmo cala progressivamente: chi si appella alla razionalita’ (l’aiuto regista Phil Patterson), chi pare dubbioso (la costumista Gabriella Pescucci), chi preoccupato (i produttori), chi spaesato (Johnny Depp), chi addolorato (Jean Rochefort), chi semplicemente assente (Vanessa Paradis, mai arrivata sul set). Il backstage alterna interviste e discussioni a qualche fotogramma del girato (sempre magico il filtro della pellicola). L’animazione di Chaim Bianco, il “Terry Gilliam’s Picture Show”, riassume con ironia glorie e disfatte del geniale ma discontinuo regista, e non manca un riferimento al maleficio che pare aleggiareintorno al testo di Cervantes e alla sua trasposizione cinematografica. Anche Orson Welles, infatti, ne fu ossessionato per dieci anni e la sua lotta con i mulini a vento si risolse in medesima sconfitta. Alla fine gli unici a uscirne indenni sono stati i nostri Franco e Ciccio, diretti con meno pretese da Gianni Grimaldi nel 1968 in “Don Chisciotte e Sancio Panza”.
Da non perdere, dopo i titoli di coda, l’efficace trailer con la corsa dei tre formidabili giganti (quando la realta’ supera il cinema, vedere per credere!) sulla beffarda scritta “cooming soon”.

Luca Baroncini