Recensione n.1
Due uomini agli antipodi esistenziali si incontrano casualmente in una farmacia di una piccola città di
provincia e vivono alcuni giorni insieme, comunicandosi l’insoddisfazione di se stessi e della propria vita. Milan (Johnny Hallyday), che in passato faceva il cow-boy in un circo, è in città per una rapina in banca. È armato, veste una vistosa giacca di pelle, ha l’andatura sicura dell’uomo “che non deve chiedere mai”. Manesquier (Jean Rochefort), al contrario, è un tranquillo professore di francese che vive in una casa antica e piena di oggetti démodé, un intellettuale che molto ha letto e che suona il pianoforte, ma che non ha mai osato vivere secondo le proprie aspirazioni più profonde e segrete.
L’uno ha sempre ricercato il piacere immediato e la totale assenza di legami, l’altro ha perseguito con costanza un ideale di vita borghese senza sorprese né scossoni. Per Milan l’amore è stata una continua ricerca, un passare con disinvoltura da un letto all’altro, Manesquier frequenta invece senza passione la stessa donna da quindici anni. Inevitabile che l’uno voglia diventare l’altro, che il pistolero calzi le pantofole e il professore si tagli i capelli a spazzola per assomigliare ad un galeotto appena uscito di prigione.
Sicurezza o azzardo? Trasgressione in nome di se stessi o adesione acritica alle norme sociali? Qual è il prezzo che siamo disposti a pagare per essere autentici? Ma anche: vita attiva o riflessiva? Nella vita è meglio essere “attori” o “spettatori”? Chi di noi non ha avvertito, almeno una volta, la possibilità di un’esistenza totalmente diversa, insieme all’ebrezza e ai brividi che ci dà anche solo immaginarla?
Il film è costruito attorno ai due attori e alla tipologia umana che essi evocano, più che sull’esile intreccio. Estrema cura è riservata ai dialoghi (o meglio ai lunghi e raffinati monologhi del professore), la regia è sempre elegante. Non mancano momenti di autentica poesia, come ci ha abituato da sempre il cinema di Leconte, anche se l’andamento è incostante e non sempre si riesce a catturare l’attenzione dello spettatore. Buono lo spunto ma si avverte una sensazione di incompiutezza.
Mariella Minna
Recensione n.2
Un uomo misterioso arriva in un piccolo paese della Francia, incontra casualmente in una farmacia un professore ormai in pensione e si stabilisce da lui. Entrambi attendono la fine della settimana per un appuntamento importante e decisivo. Patrice Leconte mette in scena, seguendo un itinerario molto classico, l’incontro di due personalita’ contrapposte che si rivoluzioneranno a vicenda. E per rendere credibile la progressiva contaminazione dei protagonisti, gioca sul carisma di due miti francesi: Jean Rochefort, suo attore feticcio, e Johnny Hallyday, star della musica. L’eleganza formale, la sperimentazione tecnica (girato in digitale e poi riversato) e la leggerezza del racconto, pero’, non riescono a coprire l’artificiosita’ del rapporto che si instaura tra i due protagonisti: in pochi giorni apprendono l’uno dall’altro cose che in decine di anni non sono mai riusciti nemmeno a mettere a fuoco. Alcune gag funzionano e divertono (il rapinatore saggio che pronuncia un’unica frase al giorno, la cantilena della fornaia), ma i dialoghi propongono continui botta e risposta per nulla spontanei e forzatamente illuminanti.
Il personaggio di Manesquier, interpretato da uno scatenato Jean Rochefort, e’ il tipico vecchio inacidito dai rimpianti, che parla sempre piangendosi addosso (ma soprattutto sempre), di quelli che se li incontri in autobus ti metti a invocare aiuto al finestrino. Invece viene spacciato per simpatico e arzillo. Molto piu’ sincero il Sordi di “Incontri Proibiti”: film non riuscito, ma con uno sguardo sulla vecchiaia assai piu’ critico e non per questo meno simpatico. L’alter-ego di Manesquier, il taciturno Milan cui presta la sua maschera vissuta Johnny Hallyday, si rivela invece l’ormai becero duro dal cuore d’oro, che vive di stenti ma non disdegna la poesia. Su tutto un’aria mortifera che trova nel finale patetico adeguata glorificazione.
Luca Baroncini
Recensione n.3
**** spoiler alert: level 1
“Non parla molto”
“Se ne sta sempre zitto. Poi ogni giorno, puntuale alle dieci, se ne esce con una frase…”
“E prima?”
“Medita.”
“E dopo?”
“Si riposa.”
Ragazzi che bel film! Questa pellicola è l’esempio lampante di quanto la sceneggiatura sia il vero scheletro di un film: dialoghi superbi, con un’ironia misurata, tagliente, acuta e mai fine a se stessa. Certo, probabilmente a poco sarebbe servita se davanti alla macchina da presa non ci fossero stati due volti come quello tenero e buffo di Jean Rochefort (chi non lo ha amato ne “Il marito della parrucchiera”, sempre di Leconte? Se avete voglia di trascorrere una serata diversa -ogni tanto ci si può anche affrancare dalle solite pellicole americane, ve lo dice un “americanologo”…- cercate di recuperarlo: non ve ne pentirete!) e quello da vero duro, da uomo vissuto che ne ha viste di tutti i colori, di Johnny Hallyday: non sono solo due attori, sono due persone “vere” che ameremmo invitare una sera a cena, magari a base di omelette, baguette e patate fritte. Ogni battuta pronunciata (tra l’altro ottimo il lavoro dei doppiatori) lascia il segno, evitando accuratamente ogni tranello di retorica. Da questo incontro quasi pirandelliano dove uno vorrebbe vivere la vita dell’altro e viceversa, dove il futuro è solamente una pagina di un calendario, dove la vecchiaia è sinonimo ancora di opportunità o, forse, di ulteriori occasioni sprecate, vi porterete per sempre nel cuore la sensazione di aver visto qualcosa di diverso, qualcosa di, forse, unico. Certamente non un film pseudo-intellettualoide. No. Ma neanche un film per chi al cinema ci va solo per sostituire il cervello con i popcorn.
DA TENERE: Sì, ma proprio da tenere in casa: in pochi minuti vi affezionerete ai due protagonisti e non li lascerete più. Alla faccia dei soliti amici che hanno evitato il film perché c’era “Johnny Hallyday, quel cantante di una certa età”…
DA BUTTARE: Ai soliti critici: per cortesia, smettiamola di parlare di “scelta sperimentale” per giustificare il fatto che il regista ha girato il film in digitale per poi riversarlo in pellicola, e diciamo la verità: costa molto, molto, ma molto meno e si può lasciare la “videocamera” sempre accesa senza rischiare la bancarotta.
NOTA DI MERITO: Patrice Leconte sinceramente lo avevo perso di vista da un bel po’ (ebbene sì, lo ammetto: anch’io ogni tanto ascolto i critici quando sconsigliano i film…), ma mi fa un enorme piacere averlo ritrovato in forma smagliante per “L’uomo del treno”. E con me, evidentemente, quelle centinaia di persone che hanno affollato la sala cinematografica in un giorno infrasettimanale. La qualità paga, il passaparola evidentemente pure.
NOTA DI DEMERITO: Non è questo il caso perché la proiezione è avvenuta, stranamente, in un buon cinema, ma la domanda vale per mille altre volte: in tempi di multisale che vanno alla grande solo con pellicole ultrapubblicizzate e di cinema che chiudono a causa, pare, della loro temuta concorrenza, nessuno ha ancora pensato in qualche modo a specializzarsi? Possibile, ad esempio, che a Verona si debbano vedere certi film solo in anguste sale dove la comodità e l’audio sono un optional? Perché certi comfort li hanno solamente i rumorosi mangiatori di popcorn??? Gestori, rischiate e lamentatevi di meno!!! Altrimenti… Bingo!
Ben, aspirante Supergiovane