Scheda film
Regia, soggetto e sceneggiatura: Bruno Dumont
Fotografia: Guillaume Deffontaines
Montaggio: Bruno Dumont e Basile Belkhiri
Scenografie: Riton Dupire-Clément
Costumi: Alexandra Charles
Suono: Emmanuel Croset e Philippe Lecoeur
Francia/Germania, 2016 – Commedia – Durata: 122’
Cast: Fabrice Luchini, Juliette Binoche, Valeria Bruni Tedeschi, Raph, Didier Desprès, Jean-Luc Vincent
Distribuzione: Movies Inspired
Uscita: 25 agosto 2016
Sale: 26
Volare, oh oh…
“Una riforma sociale deve fare tre cose: innanzitutto abbattere i muri che separano fra loro i diversi ceti sociali, per aprire ad ognuno la strada dell’ascesa sociale; quindi creare un livello generale di vita tale da garantire un minimo di sopravvivenza anche ai più poveri; infine provvedere affinché tutti possano essere partecipi dei benefici.”
Adolf Hitler
Con Ma Loute troviamo già nel titolo un primo grado di separazione. Loute in francese vuol dire donna, ma la stessa pronuncia porta ad un altro termine, lutte, che vuol dire invece (come è più intuitivo) lotta. Da questo doppio significato si ramificano i sotto testi più importanti del film.
La storia è ambientata nel 1910, sulla Côte d’Opale, e vede un ispettore di polizia e il suo assistente indagare su alcune misteriose sparizioni, mentre i rampolli di due famiglie, Ma Loute Bréfort e la giovane e spregiudicata Billie Van Peteghem, intrecciano un idillio d’amore che sconvolgerà sia i Bréfort (pescatori e traghettatori) che i Van Peteghem (ricchi borghesi degenerati).
La prima lotta è quella del regista: Bruno Dumont, che è sempre stato un cineasta che si muove tra due grandi registri: l’aulico e il grottesco. Con P’tit Quinquin ha invaso il campo del cinico più spregiudicato, filmando un’opera fresca e unica, che gli è valsa il plauso di molta della critica internazionale. Con Ma Loute affonda di nuovo nel registro basso, facendolo dilagare ancora di più per tutta la durata del lungometraggio. Ci sono dei brevi momenti in cui il poetico sembra far capolino, l’elevazione religiosa della nobildonna interpretata da Valeria Bruni Tedeschi ne è un esempio, ma viene subito schiantato a terra, o trasformandolo nello stesso istante e volutamente nella caricatura di se stesso, oppure accomunandolo per senso e messa in scena a un altro episodio che invece accentua il senso del ridicolo, come il volo finale dell’ispettore di polizia, che per tutto il film viene paragonato, per suggestione sonora e visiva, ad un grosso palloncino.
Il dualismo principe però lo troviamo contenutisticamente proprio attaccato al titolo, come si diceva all’inizio. “La mia donna” ci riporta al senso prettamente narrativo dell’opera, anche se una narrazione lineare non è mai veramente presente perché intervallata e deformata attraverso la lente stroboscopica del surrealismo più anarchico, narrazione dove il protagonista, di nome Maloute guarda caso, lotta tra cannibalismo e passione e dove la sua amata non si impossessa mai di un’appartenenza sessuale precisa, trasformandosi in continuazione da maschio a femmina e viceversa. “La mia lotta” ci conduce invece nei meandri della lotta di classe tra la famiglia di nobili e i traghettatori della baia giù dalla collina (questi ultimi tutti interpretati da attori non professionisti). Ricordiamoci poi che siamo all’inizio del 900, proprio gli anni in cui nacque il cinema, che per Dumont non è altro che un eterno contrasto, un’eterna tensione tra più narrazioni e tra più modi di ispirarsi alla vita.
Il richiamo al cinema surrealista di Bunuel è evidente, in Ma Loute scopriamo molte similitudini con Il Fascino Discreto Della Borghesia, in particolar modo per quanto riguarda la messa in ridicolo dell’aristocrazia, che proprio in quegli anni stava mutando in classe dirigente dei grandi colossi industriali, all’alba del capitalismo, all’alba della lotta. Per altro Dumont da subito non si schiera con i più poveri, ma mantiene un costante velo di distacco, riportando tutti i personaggi a uno stato esistenziale decisamente kafkiano, negandogli sia la tragedia, sia la commedia e lasciandoli in quel limbo che si chiama tragicomico, arrivando alla paradossale conclusione di trasformare la ricerca dell’uguaglianza in un feroce e violenta lotta per la sopravvivenza.
Un’opera come questa ha la capacità di mettere in luce la potenza dell’immaginifico come diretta estensione della vita e allo stesso tempo come ribaltatore di molti principi morali, e riporta ad un altro dualismo, questo più indiretto: e se il cinema un giorno si dividesse solo tra pura realtà, attraverso il documentario, e opere di finzione che usano la metafora, l’allegoria e i più disparati gradi di separazione per richiamarla, abolendo la via di mezzo di una messa in scena che ci descrive il mondo semplicemente edulcorandolo?
Voto: 8
VC (MB)