Regia, soggetto e sceneggiatura: Amir Naderi
Fotografia: Michael Simmonds
Montaggio: Amir Naderi, Donald O’Celleachair
Interpreti: Sara Paul, Trevor Moore, Rebecca Nelson
Marathon, dopo “Manhattan in cifre” (1993) e “ABC Manhattan” (1997), è l’ultimo film di un trilogia dedicata a New York dal regista iraniano Amir Naderi, che già da qualche anno risiede nella Grande Mela. Esule volontario (“Dovevo tagliare i ponti. Me ne sono andato non per motivi politici ma per una scommessa personale: volevo compiere questo viaggio, cambiare la mia vita, correre tutti i rischi possibili e farcela nella big city”), in passato il regista ha lavorato come fotografo sia per giornali che per il cinema nonché come sceneggiatore in collaborazione con Kiyârostami. La sua è una prospettiva inusitata e spiazzante sulla metropoli per eccellenza, vero e proprio distillato della contemporaneità.
Gretchen, una ragazza sui venticinque anni, si è posta un obiettivo ambizioso: battere il proprio record personale di risoluzione di cruciverba nel giro di ventiquattrore. Come ambientazione della maratona sceglie la metropolitana di New York. Attraversa in lungo e in largo la città, sempre e solo lungo le sue viscere, alla ricerca della giusta concentrazione che, sola e unica, può portarla alla vittoria su se stessa. Il rumore costante, l’andirivieni di persone, lo stridio dei treni in frenata, le chiacchiere di sottofondo… tutto contribuisce a creare un habitat ideale, un luogo in cui essere soli, totalmente. A interrompere, con una voce fuori campo, la corsa contro il tempo, solo i messaggi lasciati inutilmente sulla segreteria telefonica dalla madre che la incita o si preoccupa o le dà preziosi consigli o le ricorda come questa sia una passione che le accomuni.
Girato rigorosamente in bianco e nero, con una piccola e maneggevole videocamera, anche per cercare di aggirare i rigidi controlli della polizia, la metropolitana è ripresa da prospettive inusuali e così le persone. È una New York lontana miglia e miglia dall’immagine patinata dei film hollywoodiani ma anche dagli stereotipi turistici. Affiora una città grigia, in costante movimento ma che non ha un centro né un cuore. È tutto un agitarsi convulso, senza meta. Ed è soprattutto l’impersonalità e l’incomunicabilità (il regista è un estimatore dichiarato di Antonioni) a diventare il tratto determinante: l’incontro con il conoscente Ben, per Gretchen non è che una fastidiosa perdita di tempo, benché sia costretta ad ammiccare e a essere simpatica.
Il dramma attende Gretchen al ritorno a casa: varcata la soglia, tutto tace. Cerca vanamente di ricreare quell’atmosfera, riproducendo il rumore della città fra le quattro mura domestiche ma non è sufficiente. E allora crolla nella disperazione più totale: apre tutti i rubinetti, strappa le pagine di giornale con i cruciverba che sono appese alla parete, dà fuoco a tutti i fiammiferi di cui dispone e, soprattutto, esce nuovamente. Quel silenzio la opprime, non riesce più a ritrovare la giusta concentrazione e, soprattutto, la solitudine nella moltitudine. “Cerca di portare lo stesso rumore anche in casa con il nastro registrato, ma è come se il suo sistema fosse andato in tilt; per essere sentito, il rumore dovrebbe essere molto più forte, per questo è necessario il silenzio.”
La città, vista dalla sua prospettiva sotterranea, è un’accozzaglia convulsa di ferraglia e cemento. Eppure la vena pittorica e poetica del regista ferma l’attimo in più di un’occasione, soprattutto sullo splendido volto, così naturale e non costruito, della protagonista. Che, dopo lo sfogo di rabbia, torna a casa, si siede a tavolino e (a sole sette, dico sette, ore dallo scadere del termine) riprende la sfida. Nel più assoluto silenzio, un pesce in un acquario, svolge il suo compito con meticolosità e precisione, perizia e caparbia. Fino a quando le prime luci dell’alba la troveranno esausta ma felice, come dopo una lunga notte d’amore, in una New York ricoperta dalla neve che tanto ci ricorda i “Dubliners” di Joice.
Mariella Minna