Recensione n.1
Non piu’ giovane talento, ma matura certezza, Alejandro Amenabar conferma la rara capacita’ di raccontare le sfumature e sceglie, ancora una volta, l’incontro tra mondi paralleli in apparenza inconciliabili. Fin dal suo esordio (il folgorante “Tesis”), bene e male scorrono intrecciati, cosi’ come non e’ netta la linea di demarcazione tra realta’ e immaginazione nel successivo “Apri gli occhi”, e tra il mondo dei vivi e quello dei morti nella trasferta americana “The Others”. In “Mare Dentro” il confine attraversato e’ ancora quello tra la vita e la morte, ma il regista abbandona le implicazioni ultraterrene per dedicarsi a una storia vera, quella del cinquantenne Ramon Sampedro che, tetraplegico dall’eta’ di venti, chiede “solo” di morire. “Una vita che elimina la vita non e’ liberta’”, gli viene ricordato, “ma anche una vita che elimina la liberta non e’ vita”,
risponde il protagonista. La tesi sposata dal film e’ a favore dell’eutanasia, ma Amenabar (anche co-sceneggiatore e autore delle musiche) evita le trappole perniciose della lezione ad ogni costo e si concentra sulle esigenze del personaggio (piu’ di una volta il protagonista parla a nome suo e non di tutti i tetraplegici), che solo nel finalissimo diventano un po’ didascalicamente un esempio per tutti (del resto la ripresa in video della sua morte e’ avvenuta realmente). Il regista, nato a Santiago del Cile ma spagnolo di adozione, inscena con estrema naturalezza e grande sensibilita’ la rischiosa e problematica vicenda, creando personaggi, anche minori, di vibrante intensita’, impostando contrasti forti e appassionanti e cercando di motivare il piu’ possibile gli sviluppi narrativi. Oltre alla regia, pudica ma incisiva, gran parte della carica emotiva deriva dalla strepitosa interpretazione di Javier Bardem (giustamente premiato a Venezia con la Coppa Volpi), attore dalla fisicita’travolgente qui azzerata da un’immobilita’ miracolosamente comunicativa. Ma tutto il cast, supportato dallo spessore di personaggi gia’ ben calibrati in fase di scrittura, regala emozioni profonde. Suscitera’ pareri discordanti, verra’ accusato di essere ricattatorio e di spettacolarizzare un evento intimo come la morte, aprira’ lunghe e inconcludenti discussioni (almeno fino a quando una normativa adeguata non cambiera’ qualcosa), ma al di la’ di giudizi affrettati, restera’ un’opera acuta e vitale, in cui la misura della forma si sposa con intelligenza alla capacita’ di prendere una posizione.
Luca Baroncini (da www.spietati.it)
Recensione n.2
Si presenta da subito come un film sull’eutanasia ed i suoi crismi, e in parte lo è, ma Mare dentro con il procedere dei minuti manifesta una nascosta quanto affascinante tematica fondante: la forte contrapposizione tra onirico e reale, di cui si ciba il racconto, è infatti il terreno dove si scontrano due modi diversi di comprendere e guardare il mondo.
Le risaputa padronanza della cinepresa di Amenabar diventa così lo strumento per seminare su entrambi i campi, alla ricerca di un brandello di certezza.
Quando si scende negli inferi della tematica sociale, esistenziale, perfino politica, il rischio è sempre quello di chiudersi nell’aspetto razionale della questione, tra esclusivi punti di vista, tesi precostituite, languidi lacrimoni puntati su emozioni facili (non c’è niente di più razionale di un’emozione preconfezionata, non intima, estranea a noi perché figlia della retorica collettiva).
Da una parte il regista cileno si cimenta in un racconto tradizionale perfettamente sceneggiato e interpretato, dall’altra si concede momenti di lirismo pacato scossi da sfolgoranti visioni (cielo, mare e paesaggi), calca la strada degli opposti (spazi, personaggi, ambienti, inquadrature) che anelano alla riconciliazione, recupera la genuinità della metafora per instillare suggestioni che toccano le nostre strutture cognitive più remote, primitive.
E’ così che i rapporti tra Ramòn e gli altri ci parlano dell’esistenza di un tetraplegico, di chi lo accudisce, di chi lo vuole aiutare, ma non sanno, non possono andare oltre la semplice rappresentazione realistica: con improvvisi accenti onirici Amenabàr si tuffa allora oltre i frustranti confini materiali per ricercare indizi di verità nell’immagine, nei colori, nelle atmosfere.
La posizione in merito alla questione alla fine c’è ed è palese, ma conta poco: valgono molto di più quei fotogrammi di una bellezza inaudita, che tentano la connessione con i centri nevralgici della nostra istintività, della nostra purezza emotiva. Sono le immagini a generare quegli spunti di riflessione che le parole non sanno trovare.
Ecco allora che è nel mare – non nel mare come luogo reale o come idea stereotipata, ma solo in quell’incredibile mantello azzurro di scintillii balenanti, fluido e compatto, caldo e materno, dipinto sullo schermo da Amenabar – che si riconcilia quella spaccatura tra vita e morte; è nel volo planare su paesaggi genuini e primordiali, attraversati come tunnel di morte in un’estasi di vita, che le nostre corde emotive più profonde si smuovono, senza sapere definirle o poter dar loro un nome; e così via, tra cieli luminosi e carezzevoli che battono solo nei nostri sogni più belli e finestre che delimitano l’infinito.
Non c’è conoscenza, aggiunta di informazioni o nuovi punti di vista sull’eutanasia. C’è un’esperienza sulla vita e la morte che pare extrasensoriale ed invece è tutta artistica, evocativa. La pulsione alla vita, sembra voler dire Amenabar, non è un diritto, un dovere, una prigione, una crescita, una prova, come cercano di raccontarsi i protagonisti: è qualcosa di inspiegabile attraverso il linguaggio, che va oltre le nostre strutture razionali, ma è molto vicino alla pace e la gioia che ci regala la bellezza di quel cielo, quei paesaggi, quel mare. Un mare che abbiamo dentro, e che – per assurdo – si può agguantare anche attraverso la morte.
Francesco Rivelli