Una corona di spine che trafiggono il capo. Le mani inchiodate alla croce. Lacrime. E gocce di sangue. Perché una vita fatta soprattutto di dolore è l’immagine più ricorrente?
Non ci sono risposte per l’essere umano.
Solo domande. Tante. E importanti.
Dov’è finito Dio? Tra le macerie dell’antica Gerusalemme, nelle bombe che dilaniano corpi tra le strade polverose del Medio Oriente. In qualche pergamena rimasta sotto terra per 2000 anni. Nell’innocenza di un neonato. In una preghiera, o nella croce quotidiana che un uomo qualunque deve portare sulle spalle. In un film su Gesù o in una contestazione religiosa… Dov’è Dio?
“Mary”, l’ultimo film di Abel Ferrara, non ha risposte. Ma solleva un’infinità di riflessioni, sospese tra la rabbia e la speranza.
Tre storie si intrecciano, in un gioco continuo di montaggio alternato e dissolvenze incrociate. Tre personaggi, tre modi diversi di rapportarsi al Divino. Alla follia e alla mostruosità del Divino.
C’è Tony Childress, regista del film-nel-film “Questo è il mio sangue”: una controfigura polemica di Mel Gibson? Mosso dalla logica del guadagno e del successo personale, arrogante, superficiale, inconsapevole delle questioni profonde che può sollevare un film ispirato anche ai Vangeli apocrifi di Tommaso e Maria. Perché, come dice una voce all’interno del film, “la storia può anche essere raccontata in modi diversi, non importa: ma Dio ci ama e ci parla d’amore”.
C’è Marie, Maria Maddalena nel film di Childress, la Mary del titolo, che non riesce più a staccarsi dal suo ruolo, sopraffatta dal personaggio, incapace di tornare alla vita “normale”. Metodo Stanislavskj alle estreme conseguenze, in un certo senso. Realtà e finzione si mescolano, indistinguibili, nella scelta radicale di seguire la via dell’illuminazione, la folgorazione della fede, la rivelazione. Crisi d’identità vorticosa, che risucchia e manda in frantumi qualsiasi certezza.
E c’è Ted. Conduttore di uno show televisivo sulla figura di Cristo. Programma così semplice da sembrare irreale: un’intervista a due, luci addosso che fanno rilucere il profilo sullo sfondo nero, buio come un cielo senza stelle. Ha una moglie dagli occhi pieni di luce, Ted, e un bimbo in arrivo. E dentro, il tarlo della colpa, che si mangia l’anima. Metamorfosi: da vittima a carnefice. Ma con coscienza, e con la voglia di cambiare, e di credere, nonostante i dubbi. Fino alla richiesta, nell’intensa scena della disperata preghiera di fronte alla Crocifisso, del sacrificio: atto estremo di chi si è posto mille domande, e forse tra tanti dubbi una risposta l’ha trovata.
Questi i tre livelli di “Mary”, cuciti insieme da una struttura libera, che li intreccia, li sovrappone, li dissolve, li mescola. Dialoghi che scivolano al di là dei confini prestabiliti, per esempio, come le parole della Maddalena che risuonano nella loro sacralità su immagini che di sacro sembrano non possedere niente.
Da ogni dissolvenza, da ogni intreccio, da ogni immagine trasuda il dolore dell’esistenza.
E la preghiera si nutre di dolore, la solitudine della croce è il dolore per eccellenza.
L’uomo può scegliere. Ha il libero arbitrio. Può scegliere di peccare, e di tradire. Può rifugiarsi nei salotti televisivi a discutere sulla natura di Dio. O può costruirlo e interpretarlo, a propria immagine e somiglianza, in un film studiato nei minimi particolari pur di risultare credibile. Paradosso di questo intenso film di Abel Ferrara, che sembra voler distruggere l’illusione del cinema, finzione senza anima, ma che nel cinema – in un certo modo di intendere e di fare il cinema – cerca invece salvezza. E’ un cinema carnale, quello del regista newyorkese, che in questo sembra aver fatto propria la lezione del “Vangelo secondo Matteo” di Pasolini. Macchina da presa puntata sui visi, sugli occhi, come se fossero un libro aperto: dietro, sullo sfondo, la città scompare, diventa segno grafico luminoso, come New York, oppure esplode, nel buio, come Gerusalemme. La sofferenza, la sofferenza di chiunque, è un’esperienza singolare, in qualche modo religiosa, con una propria dignità da rispettare: é una Passione, se è vero che, come dice Gesù nei Vangeli apocrifi, Dio è dentro tutti noi.
“Mary” è un film teso, in bilico su un filo sottile, tra la condanna e la redenzione, tra la colpa e l’innocenza, tra il vittimismo e la volontà di reazione. La scelta tra la tenebra o la luce è possibile? Sembra di sì. La speranza di una redenzione è vivida: la salvezza è possibile. Basta cercarla, e volerla, nella concretezza della vita.
Stefano Borgo