Il matrimonio tardivo di Zaza, trentunenne ebreo di origine georgiana, laureando in filosofia e buon partito, che i genitori sono ansiosi di vedere impalmato. Nella migliore tradizione, organizzano incontri con ragazze giovani e illibate benché il giovanotto ostenti indifferenza se non addirittura fastidio. In realtà è già sentimentalmente legato ad una donna più grande di lui e divorziata, madre di una bambina di otto anni. La famiglia allargata non si farà scrupolo di irrompere violentemente nella casa di lei, pur di salvare l’onore e la presunta felicità del figlio.
Questo l’esile intreccio che è però reso interessante dalla verità delle scene d’amore fra i due giovani e dalla profondità del dolore che la forzata separazione produrrà in entrambi. I genitori, che sono stati a loro volta vittime del perbenismo e del moralismo, infliggono la peggiore delle condanne all’unico figlio maschio: un matrimonio non d’amore. Perché chi è infelice non può fare l’altrui felicità, tanto meno quella dei figli. Chi ha castrato se stesso e i propri desideri ripropone lo schema nevrotico a chi verrà dopo di lui.
Molto curata è la descrizione delle case degli ebrei georgiani, con tutto quel fiorire di rasi e sete, ninnoli e soprammobili. Grottesca la rappresentazione della madre-matrona che “schiaccia”, e non solo in senso metaforico, la figura del marito e del figlio. Se a tratti si sorride per l’apparente inverosimiglianza delle situazioni, il finale lascia l’amaro in bocca. La felicità era lì, è mancato solo il coraggio di afferrarla.

Mariella Minna