Film profondamente attuale nelle sue tematiche no-global quello del giapponese Rin Taro, che fonde Fritz Lang con Artificial Intelligence, Frankenstein con Blade Runner, il cyberpunk con echi biblici. Tutto già visto, letto, sentito, raccontato, urlato, ma rappresentato attraverso una magnificenza visiva alla cui potenza è impossibile sottrarsi. E sono proprio gli occhi a godere maggiormente dell’incredibile cura con cui ogni dettaglio viene valorizzato.
L’animazione tradizionale dei personaggi, fusa con la tridimensionalità dei fondali, stupisce e affascina. La narrazione, nonostante i tanti personaggi e le tante possibili sfumature delle situazioni descritte, procede lineare evitando approfondimenti interessanti (ma forse dall’effetto ridondante) e semplificando alcuni raccordi. Troppi, infatti, gli incontri casuali che pongono il personaggio nel posto giusto al momento giusto. Non struggente come avrebbe potuto essere a causa di una caratterizzazione di Tami, estrema evoluzione dell’uomo robot, in fondo abbastanza superficiale. Il centro narrativo del film, infatti, rimane spesso in secondo piano, schiacciato dalle micro-storie dei personaggi di contorno.
Ennesimo spunto sui limiti del progresso, “Metropolis” è un’opera complessa che ha richiesto sei anni di lavorazione e si imprimerà nella memoria grazie all’indiscutibile fascino visivo.
Indimenticabile, al riguardo, l’accostamento della romantica “I can’t stop loving you”, vellutata da Ray Charles, mentre sullo schermo si succedono le immagini della distruzione di Metropolis, città creata ad esaltazione dell’egoismo dell’uomo sulle spalle di chi vive in condizioni di estrema povertà. Un po’ quello che la politica internazionale non smette di insegnarci. Per stupirsi senza rinunciare a pensare.

Luca Baroncini