Recensione n.1

Parlare di cinema-cinema, quello epico fatto di personaggi stentorei e malinconici, di una regia secca che omaggia lo schermo e il passato, di emozione pura fra parole e immagini, è sempre più raro. “Million dollar baby” di Clint Eastwood si inserisce in questo filone.
Frankie Dunn (Clint Eastwood) è un vecchio manager di boxe che gestisce una palestra nei sobborghi cittadini. Dopo un incidente accaduto a un suo pugile (Morgan Freeman) vent’anni prima e averlo preso al suo fianco per espiare il “peccato”, Frankie oggi ha deciso che nella vita non vale la pena rischiare. Nemmeno per vincere il campionato del mondo. L’arrivo nella palestra di Maggie, ragazza grintosa dal passato infelice, potrebbe cambiare la sua visione dell’esistenza. Per sempre.
Le parole che escono in seguito alla visione di “Million dollar baby” sono poche. Manca il respiro. Esistono sensazioni forti, anzi fortissime. Descrivere tecnicamente un film di questo tipo, d’altra parte, significherebbe impoverirlo e ridurlo a un insieme di elementi, il cui risultato, come ci insegnavano a scuola, è superiore alla somma degli elementi stessi.
Lasciate fluire le emozioni e percorrete i cammini di Frankie e Maggie, due destini che si incontrano e si toccano. Più e più volte. Due passati di sofferenza e un presente che rinasce.
Non importa cosa succederà domani, perché domani è un altro giorno, e l’importante è credere finchè c’è speranza.
A differenza dell’ Howard Hughes di “The aviator” (unico lungometraggio che può contendere l’Oscar a questo film), eterno sognatore pieno di soldi, il manager interpretato da Clint Eastwood è un uomo che crede di avere già vissuto e si barcamena nella sua staticità. Non sa, tuttavia che, come la figlia lontana a cui scrive inutilmente in una routine ossessiva, l’energia di una persona che ha voglia di vivere per disperazione ha la forza di trasmettergli la luce.
In un film lineare e rigoroso (come Clint), in cui ogni orpello stilistico e movimento di macchina è bandito, gli attori si muovono magistralmente, incluso il compassato Freeman che appare in attesa di Godot ma dispensa saggezze al vecchio allenatore, e Eastwood e Hilary Swank sono una perfetta coppia nella loro opposizione.
“Million dollar baby” è la filosofia della boxe allo stato puro. Difesa, difesa e ancora difesa, per poi muovere l’attacco finale con un gancio destro da K.O., e l’immobilità dei primi momenti si trasforma in movimento per tornare ancora, inesorabilmente, all’inerzia.
E’ la vittoria di chi ha conquistato un brandello di vita e se lo tiene stretto anche fosse per un attimo. Voto 9

Mattia Nicoletti

Recensione n.2

Maggie Fitzgerald è una donna di 32 anni, che dall’età di 13 fa la cameriera. Suo padre è morto e sua madre, sua sorella e suo fratello sono persone che è meglio perdere che trovare. Dalla vita ha avuto solo la passione per il pugilato. Frankie è l’anziano proprietario di una palestra per pugili, ma nella vita s’è lasciato sfuggire troppe occasioni, sia per sé che per i pugili che ha allenato. Maggie però crede nelle sue capacità e lo convince ad allenarla. La ragazza si dimostra un vero talento, ma una svista e l’avversaria sbagliata faranno prrecipitare il sogno del successo in un incubo senza ritorno.
Million dollar baby inganna sin dal titolo. Lo spettatore s’aspetta di andare a vedere una sorta di Rocky al femminile, una Rocky che non perde, invece è tutto l’opposto. Million dollar baby è un film che ti spiazza e ti manda ko, perché non t’aspetti la piega che gli eventi ad un certo punto prendono. Ed è questo a renderlo il film più dolente e commovente di Clint Eastwood, uno dei suoi film più adulti e il più lontano da molti dei miti americani, siano essi la frontiera del west o il successo.
Clint Eastwood gira col rigore già sperimentato in Mystic river (anzi, forse addirittura lo aumenta), non concede mai uno spettacolo gratuito, ma una bellezza nascosta fatta dall’espressività essenziale di alcune scene (per sempio molti confronti a due, sia tra Maggie e Frankie, che tra quest’ultimo e il custode della palestra “Scrap-iron” Dupris), e da una fotografia che, specie nelle scene notturne, avvolge i personaggi e li evidenzia nel loro dolore e nelle loro speranze. Grande anche il lavoro di scrittura (sceneggiatura di Paul Haggins) a partire da alcuni racconti della raccolta “Lo sfidante” di F. X. Toole.
Non c’è un personaggio in questo film che non abbia una storia, un retroterra, che non sia costruito con l’attenzione che di solito spetta ai soli protagonisti. Frankie e Maggie sono le figure centrali, ma non meno centrale finisce con l’essere “Scrab” Dupris, non meno dolente degli altri, anche se forse più rassegnato. Ad un esame attento ci si rende conto che addirittura il ragazzino esile che frequenta testardamente la palestra pur non avendo alcuna speranza di diventare un vero pugile, che anche la madre di Maggie, che addirittura la terribile sfidante Billie “The Blue Bear”, sono tutti quanti ben più che figure dello sfondo. Tutte hanno uno spessore, una storia, delle ragioni per essere come sono: stupidi, illusi, volgari o violenti. Niente è lasciato al caso e anche il profondo amore paterno di Frankie per Maggie non regala alcun momento stucchevole, ma una sincera e profonda commozione come raramente si vede al cinema.
A personaggi superlativi spettano interpretazioni altrettanto all’altezza. Femminile e coriacea Hilary Swank (Maggie), è sempre credibile in qualunque situazione, coi guantoni o il grembiule da cameriera, vincente o terribilmente perdente. E per Estawoood (Frankie) è davvero (e ormai da tempo) finita l’epoca dell’attore con quattro espressioni (col sigaro o senza sigaro, col cappello o senza cappello): è grandioso anche lui. Per quanto riguarda Morgan Freeman (“Scrab”), è dai tempi di Seven che alle prese con personaggi tristi e un po’ disincantati dà il meglio di sé.
Un grande film di Clint Eastwood, forse il più grande dei 25 che ha finora diretto. In ogni caso davvero imperdibile.

Sergio Gatti

Recensione n.3

Ci sono esperienze visive che conducono lo spettatore in un percorso lungo il quale non si possono trovare fermate. Million Dollar Baby è un viaggio di 137 minuti che non lasciano tregua, che entrano, uno dopo l’altro, sotto pelle, che scuotono e colpiscono.
Una disturbante discesa libera i cui comuni denominatori sono la semplicità, l’asciuttezza, l’essenzialità. Dopo lo straordinario Mystic River, Clint Eastwood gioca ancora per sottrazione, e nel suo classicismo oltranzista delinea i contorni di un’opera di sconcertante amarezza, che punta altissimo: sbagliano coloro che vedono in Million Dollar Baby solo un film sull’eutanasia; esso è un inquietante e crepuscolare apologo sul dolore e sul perdono, senza speranza, disperato, nichilista, ma dalla coerenza stilistico-narrativa inattaccabile.
La schiettezza dell’opera è immediatamente evidente, insieme all’impressione che Eastwood prenda di pieno petto la sceneggiatura di Paul Haggis e cali sul suo tavolo tutte le carte. Tre personaggi e la negazione di ogni coralità: tutte le altre figure sono sullo sfondo, nell’ombra, appena funzionali.
Tre volti, archetipicamente segnati dai solchi del dolore, della sofferenza e del tempo, che li consegnano alla categoria dei perdenti, degli sconfitti.
Uno è Frankie Dunn, anziano manager di pugilato, irlandese cattolico con un enorme peso sulla coscienza: lo strappo insanabile con la figlia, a cui scrive tutte le settimane e da cui, tutte le settimane, vede tornare la sua lettera, respinta al mittente. Non conosciamo il motivo della rottura tra Frankie e la figlia, e non lo scopriremo per tutto il film, e questo aumenterà l’inquietudine e l’angoscia dello spettatore, centuplicandone le domande. Eastwood, però, si sofferma su un dettaglio: qualunque cosa Frankie abbia commesso, egli è angosciato dall’assenza del perdono, del proprio perdono, e dall’ineliminabilità degli striscianti sensi di colpa.
Il secondo è Scrab, un monumentale Morgan Freeman. Egli è un anziano ex pugile di talento, che ha interrotto la sua carriera dopo centonove incontri, rimettendoci anche un occhio. Il cutter dell’inocntro che fatale era proprio Frankie, che, sentendosi colpevole anche per questa disgrazia, affida a Scrab la custodia della sua palestra.
Il terzo è quello multiforme di Maggie Fitzgerald, la straordinaria Hillary Swank già premio Oscar per Boys Don’t Cry, ragazza che la vita ha messo alle corde e che troverà un riscatto nel pugilato.
I destini di questi tre volti si incroceranno, si mescoleranno, fino alla tragedia che li dividerà per sempre. Un deflagrazione direttamente proporzionale all’intensità del legame che si viene a creare, soprattutto quello tra Frankie e Maggie, un evidente sostituzione del rapporto padre-figlia che è mancato ad entrambi. Quindi, è bene chiarire che non c’è nulla di più distante da Million Dollar Baby dei canonici sport movie, specialmente quelli pugilistici. Il riscatto sportivo di Maggie non è un contraltare della sua sofferenza, ma uno struggente ideale di pienezza di vissuto, cui la ragazza anela come giusto traguardo. Una pienezza raggiunta anche attraverso piccoli elementi che il crepuscolarismo di Eastwood riveste di significati e di emozioni, come un semplice sguardo di simpatia tra Maggie e una ragazzina con un piccolo cane, o una fetta di torta al limone fatta in casa. Questi piccoli momenti di tregua, di cessazione del dolore, fanno da contrappunto ad una situazione in cui non c’è riscatto, non c’è speranza. Il perdono, il fulcro del film, cercato da Frankie soprattutto fuori da sé, non può essere trovato: il silenzio che lo circonda, le frasi lapidarie del prete con cui si confronta, gli suggeriscono che è il proprio perdono e la propria pace ch’egli deve cercare.
Anche stilisticamente è assolutamente esemplare la misura che caratterizza il film. Toni cupi caratterizzano la fotografia, che immortala ambienti prevalentemente degradati e squallidi, che ben s’intonano con le zone buie dell’animo nelle quali il film è ambientato. Il classicismo dei raccordi pone in evidenza i dialoghi, che valorizzano gli straordinari rapporti tra i protagonisti, e i primi piani, che grazie ad un grande lavoro di luci, scavano tra le pieghe della sofferenza scolpiti sui volti, e regalano straordinari brani di grande cinema. Da sottolineare anche l’esemplare costruzione metaforica di alcuni piani, su tutti la stretta di mano tra Frankie e Maggie, divisi, nel quadro, da una linea d’ombra gettata dal punching ball veloce che sta sopra di loro, che rende con straordinaria immediatezza la nascita di un legame affettivo che quasi per reciproca solidarietà umana “scavalca” l’ombra dei rispettivi abissali dolori.
Accompagnato da musiche composte dallo stesso autore (per la verità un po’ troppo simili a quelle di Mystic River), Million Dollar Baby è uno straordinario capolavoro che prosegue anche un percorso di cambiamento di Eastwood sul piano politico: l’accettazione dell’eutanasia, il ritratto freddo e impietoso della chiesa allontanano il regista de Gli Spietati dal conservatorismo cui veniva spesso accostato, e ne restituisce un’immagine dolentemente liberal. Se prendiamo in considerazione le affermazioni di Eastwood circa il suo “bipolarismo” nelle votazioni, possiamo vedere il pessimismo di Million Dollar Baby e il suo “spostamento” a sinistra come l’ennesimo amaro frutto dell’America tragico-repubblicana di oggi.

Simone Spoladori

Recensione n.4

Clint Eastwood ci mette di fronte ancora una volta alle avversità della vita con una storia di solitudini che si incontrano e con una protagonista che lotta contro l’età, la fame, una famiglia detestabile figlia dell’ignoranza e del degrado dell’America invisibile, e trova amore e protezione proprio in colui che l’allena ad uno degli sport più crudi ma dove si combatte alla pari: la boxe.
Il destro più potente di Mo Cucha è quello che sferra allo stomaco dello spettatore nella seconda metà del film. Maggie sogna il sogno americano e lo fa sognare anche a noi, ce lo fa assaporare, sfiorare, prima di accorgerci che il momento di gloria è gia passato e non ce ne siamo neppure accorti.
La composizione dei comprimari è vasta e significativa: Ferrovecchio/ Freeman ex pugile di successo, orbo a causa del 109° incontro, realizza il suo intento di combattere ancora una volta nella puzza di una palestra scalcinata, per difendere chi una possibilità di riscatto non l’avrà mai ma continua a inseguirla.
Frankie che per tutta la vita ha cercato di difendere i suoi pugili e il suo affetto per una figlia che rifiuta ogni rapporto anche solo epistolare, trova sollievo solo nei libri di gaelico e nella testardaggine affettuosa di Maggie che lo porterà alla scelta più difficile, al suo azzardo maggiore: aiutarla a non esistere più perché la sua dignità e il suo nome continuino a vivere.
Un film essenziale, che non cade mai nella facile tentazione di passare dal drammatico allo strappalacrime, dove la regia detta i ritmi degli incontri dentro e fuori il ring, e fotografia e scenografia fanno trasudare il malessere interiore di un’America che non riesce a riemergere dal pessimismo che la opprime ma lotta contro i suoi fantasmi e preferisce spezzarsi piuttosto che piegarsi davanti al disfacimento dei propri sogni.

Ombretta Stefanoni

Aggiungo solo una cosa ai tanti commenti: CORRETE A VEDERLO! voto 9
Vito Casale