La 81^ Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica è organizzata dalla Biennale di Venezia e diretta da Alberto Barbera; si svolgerà al Lido di Venezia dal 28 agosto al 7 settembre 2024. La Mostra è riconosciuta ufficialmente dalla FIAPF (Federazione Internazionale delle Associazioni di Produttori Cinematografici).
La Mostra si propone di favorire la diffusione del cinema internazionale in tutte le sue forme di arte, spettacolo e industria, in uno spirito di libertà e di dialogo. Una sezione è dedicata alla valorizzazione di operazioni di restauro di film classici per contribuire a una migliore conoscenza della storia del cinema.

Le pagelle di Vito Casale
Russians at war 8 e ½
Maldoror 8
April 7 e ½
Sanatorium 7 e ½
Broken range 7
Disclaimer
7
El jockey 7
I’m still here 7
Joker folie a deux 7
Los años nuevos 7
Maria 7
Stranger eyes 7
The brutalist
7
The room next door 7
Youth homecoming 7
Babygirl 6 e ½
Beetlejuice beetlejuice 6 e ½
Families like ours 6 e ½
Horizon an American saga 2 6 e ½
Queer 6 e ½
The order 6 e ½
Vermiglio 6 e ½
2073 6
Campo di battaglia 6
Diva futura 6
Iddu 6
Leopardi 6
Leurs Enfants apres eux 6
Quiet life 6
Trois amies 6
Wolfs 6
Finalement 5 e ½
Harvest 5 e ½
Jouer avec le feu 5 e ½

Bestiari, erbari, lapidari (Massimo D’Anolfi e Martina Parenti). Un documentario “enciclopedico” diviso in tre atti, ognuno dei quali tratta un singolo soggetto: gli animali, le piante, le pietre. Mondi “sconosciuti” e per certi versi davvero alieni, fatti di animali, vegetali e minerali, che troppo spesso diamo per scontati, ma con cui dovremmo essere in costante dialogo dal momento che costituiscono la parte essenziale della nostra esistenza sul pianeta Terra. Uno sviluppo drammaturgico unico, attraverso tre diversi dispositivi di messa in scena. Bestiari è un found-footage su come e perché il cinema ha ossessivamente rappresentato gli animali; Erbari invece, un documentario poetico d’osservazione dall’interno dell’Orto Botanico di Padova; Lapidari, infine, un film industriale ed emotivo sulla trasformazione della pietra in memoria collettiva, partendo da una cava di pietra per finire al laboratorio dove vengono realizzate le “pietre d’inciampo”, in ricordo della Shoah. Opera assoluta, quasi omnia, dall’estremo fascino, che pone i due gruppi di essere viventi e i minerali sempre in relazione al cinema, osservandoli e mostrandoceli, e quindi all’uomo. Un viaggio sentimentale tra cultura, scienza e arte del nostro vecchio continente. Le quasi tre ore e mezza di durata non devono spaventare: è come sfogliare a caso una grande e saggia enciclopedia moderna, nella quale si aprono dei link anche inaspettati. Il duo di documentaristi italiani si dimostra più in forma che mai. Enciclopedico. Fuori concorso. Voto: 10 (PD)

Little Jaffna (Lawrence Valin). Il quartiere parigino di “Little Jaffna” è il cuore pulsante di una vivace comunità Tamil dove Michael, un giovane agente di polizia, viene incaricato di infiltrarsi in un gruppo criminale noto per le estorsioni e il riciclaggio di denaro a beneficio dei fratelli separatisti dell Sri-Lanka: le Tigri Tamil. Tuttavia, facendosi strada nel cuore dell’organizzazione, la sua lealtà sarà messa a dura prova, in una caccia senza quartiere a una delle gang meno conosciute e più potenti della capitale… Debutto nel lungometraggio del regista e interprete Lawrence Valin che dirige un polar denso di significati, con un cast di giovani bellissimo e straordinario. Lo stesso protagonista Michael, affetto da vitiligine al volto (come lo stesso autore, ma al dorso) si pone quale metafora del dualismo tra occidente ed oriente, tra tentativo di integrazione e rivendicazioni nazionaliste. Scritto in maniera esemplare, dando ad ogni personaggio il giusto spessore e caricando  il personaggio principale di una straordinaria valenza simbolica, grazie all’importante background che gli viene creato. Duale. Settimana internazionale della critica Evento speciale film di chiusura. Voto: 8 (PD)

M. Il figlio del secolo (Joe Wright). Benito Mussolini, 23 marzo 1919 – 3 gennaio 1925: dalla fondazione dei Fasci di Combattimento al famigerato discorso alla camera in cui si addossava la responsabilità solo morale del delitto Matteotti, preludendo all’imminente inizio del Ventennio fascista. Otto puntate per un totale di quasi sette ore in una fiction prodotta da Sky, da guardare possibilmente tutte d’un fiato, come qui alla Mostra. Nel ruolo del Duce un incredibile Luca Marinelli, che, come nel romanzo omonimo di Antonio Scurati da cui la serie TV è tratta, si rivolge spesso al pubblico, disgregando di fatto la quarta parete. Un’opera imperdibile che appunto gioca tantissimo con il linguaggio, facendosi iper-contemporanea grazie alla musica techno di Tom Rowlands dei Chemical Brothers e alle retro-proiezioni “altre” e sconnesse e all’uso del formato d’epoca, sgranato, anche oltremisura. Ne viene fuori un ritratto di Benito Mussolini lontano dalla retorica sia di destra che di sinistra, in cui a volte viene esaltato, mentre altre è ridicolizzato, sempre seguendo la Storia, con la S. Un racconto dal quale lasciarsi trasportare per tentare di capire ancora una volta, qualora ce ne sia bisogno, quanto sia complicato, doloroso e incomprensibile essere italiani. Marciante (su Roma). Fuori concorso. Voto: 8 (PD)

Il mio compleanno (Christian Filippi). Riccardo è un giovane di 17 anni, vive in una casa famiglia per ragazzi senza genitori, problematici o con famiglie problematiche; nelle prime sequenze sta meditando di suicidarsi, buttandosi dal tetto, ma Simona, una degli educatori, che lo ha preso particolarmente a cuore, riesce a riportalo giù. Essendo quasi maggiorenne, gli educatori vorrebbero che prenda l’articolo 25 (cioè che pur avendo compiuto 18 anni restasse in comunità) per fargli avere un futuro sicuro e soprattutto non avendo altri posti dove stare, assicurandogli un confronto con la giudice con tanto di discorso scritto, ma Riccardo vuole solo una cosa: poter stare ancora con sua madre, madre che è ricoverata in psichiatria e di cui non gli fanno avere notizie. Spinto da questo desiderio, dopo aver rubato un telefono, riesce a contattarla e scoprire dov’è ricoverata; cosi ruba l’auto di Simona e la va a prendere, riuscendo a scappare insieme. Qui inizia la seconda parte del film: la loro vita insieme, senza soldi, senza casa e senza nessuno disposto ad accoglierli. All’inizio sembra andare tutto bene, ma poi, andando avanti con i giorni, il disturbo di personalità della madre emerge sempre di più: un giorno gli vuole bene, quello dopo cerca di scappare. Riccardo si rende conto di essersi solo illuso e assaporerà l’amara realtà dell’impossibilità di poter gestire le difficoltà della madre e di poter avere con lei una vita normale.
Il terzo lungometraggio di Christian Filippi riesce ad esprimere a pieno il disagio dei giovani, che come lui dice: “non è semplicemente scoraggiato o passivo, ma è invece caratterizzato da un potente senso di ironia e umorismo irriverente, per proteggersi dai propri fantasmi”, e Zackari Delmas (Riccardo) lo fa capire bene. La sua recitazione e la sua espressività sono cariche di emozioni, capaci di coinvolgere emotivamente sia un pubblico giovane che uno maturo. Il film è diviso in due parti: la vita di Riccardo in casa famiglia, molto più tranquilla rispetto alla seconda parte che risulta, invece, più angosciante. Grazie a parole, gesti e inquadrature capiamo subito che c’è qualcosa che non va tra madre e figlio. È un esempio di come poter girare un lungometraggio ben fatto, tecnicamente ed emotivamente, anche con un budget non certo elevato, sfruttando al meglio idee ed attori. Per chi cerca il suo posto nel mondo. Biennale college cinema. Voto: 8 (LM)

April (Dea Kulumbegashvili). Dopo la morte di un neonato durante il parto, l’etica e la professionalità di Nina (Ia Sukhitashvili), una ginecologa, vengono messe sotto esame per via di voci secondo cui eseguirebbe aborti illegali per chi ne ha bisogno nelle zone rurali… La regista di Beginning torna con il suo secondo film raccontando un personaggio che definisce “epico”, ma non in senso narrativo, bensì per la vasta portata della vita e dell’esistenza di un individuo. Lo stile rigoroso cui ci ha già abituato, con lo schermo in 4:3 e lunghi piani fissi, con rarissime panoramiche, apre qui ad una maggiore visionarietà, già dall’inizio in cui vediamo un sinistro e lugubre “mostro”, che ritornerà simbolicamente anche più avanti. April è una pellicola dura, anche se non mostra molto – a parte il parto iniziale, altre azioni “truculente” avvengono fuori campo – ma non risparmia nulla in termini di emozioni, provocandole di riflesso con la sua ostentata glacialità. Un’opera destinata a dividere. Algido. Concorso. Voto: 7 e ½ (PD)

Medovyi misiats/Honeymoon (Zhanna Ozirna). Una giovane coppia, Taras e Olya, festeggia la prima notte nella loro nuova casa nei pressi di Kiev, in un complesso residenziale di recente costruzione. Ma è il 23 febbraio 2022 e i due rimangono intrappolati, con le truppe russe che installano il loro quartier generale nel cortile interno dell’abitazione. Intenzionati dapprima a non farsi scoprire e poi a fuggire in cerca di un futuro di speranza, trascorreranno cinque giorni confrontandosi con loro stessi e con i propri demoni, sotto la costante minaccia di morte… Film lucido e poetico, d’impianto teatrale, benché molto cinematografico nella sua i(ntro)spezione dei corpi dei personaggi, nel quale la guerra (solo percepita tramite suoni) è poco più di un pretesto per guardare dentro l’essere umano. Il finale, blandamente ottimista, riscalda il cuore dopo l’orrore. I(ntro)spettivo. Biennale college cinema. Voto: 7 e ½ (PD)

Vermiglio (Maura Delpero). Ambientato nell’ultimo anno della seconda guerra mondiale, il film racconta le vicende di una famiglia di Vermiglio, un piccolo paese di montagna tra Lombardia e Trentino. Vita dura, semplice, in mezzo ad una Natura che domina la pellicola e che scandisce i tempi della vita, lenti e silenziosi, totalmente differenti da quelli odierni. Figura centrale è il padre, Cesare, il maestro del paese, progressista ed illuminato, ma solo nella sua veste di “intellettuale” del paese, mentre all’interno della sua casa autoritario e poco empatico. È lui a decidere del futuro dei propri figli, a suo insindacabile giudizio, arrivando ad essere in contrasto con la moglie e con il figlio maggiore, di cui, si comprende, non ha nessuna stima. Le vere protagoniste sono, però, il trio delle ragazze adolescenti, che saranno quelle che “subiranno” i maggiori sconvolgimenti nel periodo del film. Tutto nasce dal ritorno del cugino dal fronte, aiutato da Pietro, un commilitone siciliano. I due, disertori, vengono nascosti dalla comunità, malgrado i giudizi su di loro non siano positivi; vengono, infatti, visti come disertori e vigliacchi, suscitando la reazione di Cesare, che ha la battuta probabilmente più incisiva del film: “Se ci fossero più vigliacchi non ci sarebbero più guerre!”. Le tre ragazze vivono in modo intenso questi mesi: Flavia, la più piccola, colei che viene “scelta” dal padre come l’unica che potrà proseguire gli studi, ha i primi sintomi della pubertà; Ada, che vorrebbe studiare, sebbene il padre non la giudichi del tutto adatta, è turbata da un’amica più scapestrata e libera (che poi emigrerà in Cile); Lucia, che si innamora di Pietro, resta incinta e lo sposa, scoprendo solo troppo tardi che è già sposato, quando viene ucciso dalla moglie al ritorno in Sicilia. Alla fine di queste vicende le tre ragazze andranno tutte via di casa: Flavia in collegio a studiare, Ada si fa suora, restando comunque libera e riuscendo, in fondo, ad essere indipendente ed emancipata, e Lucia, che dopo esser riuscita a superare il dramma di essere lasciata sola ed emarginata da una società chiusa e retrograda, decide di andare in città a lavorare, senza, però, abbandonare la figlioletta Antonia, simbolo della rinascita, faticosa, dopo una guerra che ha scombussolato le vite di tutti, di chi l’ha fatta e di chi l’ha subita. Nel film gli uomini parlano ben poco, a parte Cesare, mentre sono i bambini che, con il loro candore, fanno da coro alle vicende, suscitando simpatia e sorrisi. La parte maschile non esce benissimo dal film, capace di far scoppiare una guerra, ne scappano, intontiti nel fisico o nella mente, vorrebbero mantenere la loro autorità, mostrarsi forti, mentre in realtà non ne sono in grado. Involontariamente fanno sì che le cose cambino, che le donne escano dal puro ruolo di madre, come la moglie di Cesare, ed escano nel mondo per viverlo ed affermarsi. Diretto molto bene, con inquadrature “pittoriche” di una natura sublime che scandisce, col passare delle stagioni, i tempi della vita. Non è certo un film potabile per tutti, forse un po’ troppo lungo, ma consigliato a che vuole riflettere e rivivere un passato che, pur non essendo così remoto, pare distante anni luce da noi. Racconto di un lontanissimo passato recente. Concorso. Voto: 7 e ½ (LM)

Alma del desierto (Mónica Taboada-Tapia). Negli aridi paesaggi di La Guajira in Colombia, Georgina, un’anziana donna Wayúu transgender, sa che non ha molto tempo a disposizione per cambiare la sua vita. Sta cercando da quarantacinque anni di avere riconosciuta l’identità che si sente. E, dopo che i suoi documenti sono stati bruciati nel rogo della sua dimora appiccato da vicini che mal la sopportano, tenta di avere finalmente una nuova, definitiva carta d’identità. Il film è anche la cronaca del viaggio per incontrare i suoi fratelli che non parlano spagnolo e sopravvivono a stento ai margini dell’opaco sistema burocratico colombiano. Tra ferite aperte, ricordi e distanze geografiche ed emotive, Georgina e i suoi non ne possono più. La pellicola diventa una storia di resistenza, un simbolo di speranza e un’appassionata lotta per la giustizia. La regista, come si vede chiaramente dalle immagini, si prende molto a cuore la vicenda, trasformando Georgina in una vera e propria regina del deserto, deserto restituito attraverso fotogrammi di rara bellezza. Così come di rara bellezza appare Georgina, con le sue rughe conquistate al sole, con la sua tenacia, con la sua unicità. Trasversale. Giornate degli autori Eventi Speciali. Voto: 7

Bestiari, erbari, lapidari (Massimo D’Anolfi e Martina Parenti). Bestiari, Erbari, Lapidari è un documentario enciclopedia diviso in tre atti. Bestiari: racconta e ci mostra le prime riprese video e l’ossessiva rappresentazione degli animali nel cinema, un insieme di foto, parole su schermo nero, vecchi video di orsi, tigri, del circo, di allevamenti intensivi e operazioni. Erbari: un documentario poetico partito dall’osservazione dell’Orto Botanico di Padova, dal 1545 il più longevo, con spiegazione su cosa è una pianta, le sue differenze con gli individui, la vita che ne nasce. Lapidari è un film industriale ed emotivo sull’importanza della pietra, su come può diventare una memoria collettiva, di fatti, vedremo, verso la fine, la formazione di tessere in memoria dei morti della seconda guerra mondiale. Un viaggio sentimentale tra cultura, scienza e arte.
I due registi riescono nel loro intento di “re-inventare” una visione e una rappresentazione del reale. Le premesse sono interessanti, ciò che ci viene mostrato è arte, è storia. Anche il mondo in cui ci sono state proposte è interessante, si parte da Bestiari, più movimentato, con più parole, poi Erbari, che da più spazio e ciò che vediamo, ma con un intermezzo di spiegazioni sonore, a Lapidari che è esclusivamente video di immagini, senza parole. Questo rende le prime due parti più godibili e meno pesanti rispetto alla terza.
Il lungometraggio potrà risultare pesante, durando molto e senza pause, e si potrebbe pensare di fare tre film separati, ma questo rovinerebbe il significato di documentario “enciclopedia”. Bestiari, Erbari, Lapidari è completo nel suo insieme ma questo non lo rende una visione facile e per tutti. Fuori concorso. Voto: 7  (LM)

Iddu – L’ultimo padrino/Sicilian letters (Fabio Grassadonia e Antonio Piazza). “Liberamente ispirato a fatti accaduti. I personaggi che vi compaiono sono frutto però della fantasia degli autori. La realtà è un punto di partenza, non una destinazione”. Con queste didascalie inizia il terzo lungometraggio di finzione dei due registi di Salvo che si ispira alla vicenda reale dell’ex sindaco di Castelvetrano Antonio Vaccarino e al suo carteggio per conto dei Servizi segreti, sotto il nome di “Svetonio”, con il boss latitante Matteo Messina Denaro. Iddu – L’ultimo padrino, ambientato “da qualche parte in Sicilia” all’inizio degli anni duemila, è un film molto curioso e complesso, spaziando tra diversi generi, non ultimo la commedia, cercando di gestirli tutti insieme il più possibile. Ed è proprio questa vena ironica che a volte lo salva, mentre altre sembra appesantirlo, complice forse un Servillo tragicomico ad un passo dalla macchietta. Ma nel complesso il film funziona, con molte facce giuste, riuscendo a raccontare a suo modo e in maniera disincantata e a tratti visionaria una pagina di storia patria recente, ricordandoci come tutti, in particolar modo in questo Paese, possiamo essere la pedina del gioco di qualcun altro. Parabolico. Concorso. Voto: 7 (PD)

Joeur avec le feu (Delphine Coulin e Muriel Coulin). Pierre, cinquantenne operaio delle ferrovie francesi, cresce i suoi due figli da solo dopo la morte della moglie. Louis, il più giovane, sta per lasciare casa per andare a studiare alla Sorbona, mentre Fus, un po’ più grande, sta diventando sempre più schivo. Affascinato dalla violenza, milita in gruppi estremisti di destra, l’esatto opposto dei valori del padre. Tra loro ci sono sia amore che odio, finché non giunge la tragedia… Film molto rigoroso, nei principi che difende e che hanno governato fermamente la scrittura della sceneggiatura. Vincent Lindon è il padre che tutti vorremmo, mentre Benjamin Voisin (estate ’85) il figlio che ognuno di noi desiderebbe fosse di qualcun altro. Il discorso finale di Pierre, pur nella sua semplicità ed essenzialità, commuove e lascia il segno. Necessario ed attualissimo. Concorso. Voto: 7 (PD)

Manas (Marianna Brennand) Isola di Marajó, foresta amazzonica. Marcielle, detta Tielle (Jamilli Correa) vive con i genitori e tre fratelli. Condizionata dalle parole della madre, venera la sorella maggiore pensando sia fuggita da quella vita squallida trovandosi un «brav’uomo» su una delle chiatte che solcano la zona. Man mano, però, Tielle si scontra con la realtà e comprende di essere intrappolata tra due ambienti violenti. Preoccupata per la sorellina e per il futuro desolante che le attende, decide di affrontare il sistema che opprime la sua famiglia e le donne della comunità… Importante film di denuncia co-prodotto tra Brasile e Portogallo che racconta la violenza in famiglia e fuori senza mai mostrarla, riuscendo delicatamente a suggerirla dall’esterno. Girato dopo un accurato lavoro di documentazione, ha degli interpreti notevoli e dispone dei loro meravigliosi volti (una su tutte la giovanissima protagonista) con una spontaneità sorprendente che si mescola agli ambienti naturali in cui si inserisce. Spregiudicato. Giornate degli autori. Voto: 7 (PD)

Medovyi misiats/Honeymoon (Zhanna Ozirna). Ucraina, 23 febbraio 2023, in una piccola città vicino Kiev, Taras e Olya, una coppia felicemente fidanzata, si è appena trasferita in un condominio, durante la loro prima notte lì vengono svegliati da grandi esplosioni, la guerra con la Russia, che immaginavano tanto lontana, sta iniziando. Molta gente scappa, assaltano supermercati e bancomat, ma Olya non ha intenzione di scappare da casa sua, ed anche dopo che Taras riuscirà a convincerla, lo farà solo a patto di portare con loro tutte le sue sculture. Mentre le imballano sentono e vedono passare carriarmati russi che si fermeranno e assedieranno proprio il loro palazzo. Da qui inizia la loro vera sopravvivenza, costretti a stare chiusi in casa fingendo non ci sia nessuno, strisciando per non farsi vedere e razionando le proprie scorte di cibo e acqua. Durante i cinque giorni di “quarantena” esploreranno la vera intimità tra due persone, arrivando a dire cosa pensano davvero l’uno dell’altro, affronteranno domande e dubbi sotto la pressione perenne di una morte probabilmente imminente. Nonostante questo, riescono a organizzare un piano di fuga speranzosi di riuscire entrambi nell’impresa.
Zhanna Ozirna ha rappresentato una storia raccontatagli da amici, e lo ha voluto fare facendo emergere le sue idee su questa guerra ancora in atto, e le scelte difficile che le persone sono state costrette, e sono tutt’ora costrette, a fare. Ha inoltre scelto di girare il film proprio in Ucraina per una scelta etica e morale. Nonostante sia un film che parla di guerra con dialoghi duri non è affatto pesante, anzi, lo spettatore ha l’ansia costante di sapere se i protagonisti sopravviveranno entrambi oppure no. L’utilizzo delle luci e delle ombre in questo film ha un ruolo importante, in quanto proprio tramite quello siamo in grado di comprendere gli stati d’animo dei protagonisti. Una cruda realtà. Biennale college cinema. Voto: 7 (LM)

Mistress dispeller (Elizabeth Lo). In Cina è emersa una nuova figura professionale intenta ad aiutare le coppie sposate nel matrimonio nonostante l’infedeltà. Wang Zhenxi viene assunta da una signora che nutre sospetti verso il marito e che le chiederà di scoprire l’esistenza di una probabile amante, al fine poi di separarla dal marito. Whang entrerà a far parte della vita di tutti e tre cercando di aiutarli: i coniughi a ritrovare la felicità di coppia e l’amante ad accettarsi e ad uscire da questa relazione. Prima chiederà spiegazioni all’uomo e si farà rivelare ogni aspetto della relazione fedifraga, poi si farà presentare all’amante e agirà in modo da limitare le loro uscite. Durante il film verremo a conoscenza della definizione di amore da parte di tutti i componenti di questo triangolo amoroso tramite simbologie e similitudini, il tutto accompagnato da paesaggi sia urbani di vita quotidiana che naturalistici e volto a farci comprendere la situazione in Cina riguardo l’adulterio e le relazioni tra coniugi.
Elizabeth Lo è definita “una regista fuori dai canoni” non per nulla: in questo lungometraggio predilige la camera fissa, spesso primissimi piani, per renderci partecipi all’emotività della scena e dei dialoghi. La presenza di scene apparentemente dissociate dalla storia principale arricchisce questo viaggio di riflessioni sui rapporti umani, dandoci molti più spunti su cui riflettere. Un film non per tutti data la complessità e la presenza di molte figure retoriche non di immediata comprensione. Orizzonti. Voto: 7 (LM)

Mò shì lù/Stranger eyes (Siew Hua Yeo). Dopo la misteriosa scomparsa della propria bambina, una giovane coppia inizia a ricevere strani video e si rende conto che qualcuno ha filmato la loro vita quotidiana, persino nei momenti più intimi. La polizia mette la casa sotto sorveglianza per tentare di sorprendere il voyeur, ma la famiglia inizia a sgretolarsi a mano a mano che i segreti si svelano sotto lo sguardo attento di occhi che li osservano da ogni parte… Film targato Singapore costruito secondo un meccanismo a scatole cinesi in cui ognuno guarda ed è guardato a sua volta, aprendo durante la narrazione altre vie a sorpresa. In un’epoca come la nostra in cui le telecamere sono disseminate ovunque, in particolar modo in quel di Singapore, la pellicola è un’acuta ed arguta riflessione sui nostri tempi, a volte non semplicissima da seguire, ma comunque efficace. Osservazionale. Concorso. Voto: 7 (PD)

L’occhio della gallina (Antonietta De Lillo). È possibile che una regista, dopo un film girato nel 2004, unanimamente riconosciuto di valore (perfino dall’allora Presidente della Repubblica), presentato a Venezia e insignito di numerose candidature e premi a diversi concorsi nazionali, abbia firmato la sua condanna all’esilio dalla realizzazione di ogni film di finzione? Siamo in Italia, dove tutto è possibile, e la regista è Antonietta De Lillo, autrice de Il resto di niente, l’opera incriminata. In questo delizioso documentario si racconta, dall’inizio della sua carriera insieme a Giorgio Magliulo fino ad un assurdo ostracismo durato vent’anni. Il tono è ironico, lieve, ma la rabbia è tanta. Il tema è importantissimo: la tutela degli autori, la visibilità dei film girati da chi li vuole portare in sala e farli vedere al pubblico, la libertà di pensiero e la creatività artistica. Antonietta De Lillo, pur se hanno provato a legarla, per fortuna abbaia e morde ancora: siamo perciò impazienti di vedere finalmente il suo prossimo lungometraggio di finzione. Apologetico. Giornate degli autori – Notti veneziane. Voto: 7 (PD)

Se posso permettermi – Capitolo II (Marco Bellocchio). Il regista di Esterno notte gira nel 2023, a quattro anni di distanza dal precedente, questo secondo capitolo delle avventure del nullafacente Fausto, mirabilmente ancora interpretato dal magnetico Fausto Russo Alesi, e ambientato nella natia e amata Bobbio. Se nel primo breve film il protagonista non riusciva a trattenersi dall’esprimere sinceramente i suoi inaspettati (e inappropriati) giudizi, pur anticipati dall’apparente gentilezza di un “se posso permettermi…”, qui la situazione si complica notevolmente. È rimasto dove l’avevamo lasciato, è invecchiato, si è impoverito (la rendita materna si è inevitabilmente prosciugata), non lavora e non ha una pensione, pur essendo laureato. Nell’arco di una giornata e in quasi mezzora di film, osserva sfilare un paradossale corteo di visitatori: il mellifluo parroco del paese; un uomo misterioso con la sua assurda idea di business a tema fantasmi; il capitano dei Carabinieri che gli propone un matrimonio riparatore con la figlia, rimasta incinta di uno sconosciuto. Infine, a tarda notte, una coppia di ladri entra in casa con la complicità della cameriera Barbara: ma non c’è più nulla, né ori né quadri, tutto venduto. Ai tre non resta che chiacchierare fino al sorgere del sole, quando i ladri se ne vanno ed è ora di mettere il caffè sul fuoco. Un divertente divertissement pascoliano – si perdoni il gioco di parole – girato in una location storica del cinema di Bellocchio (la casa dell’infanzia, quella de I pugni in tasca) forse meno organico e più slegato rispetto al precedente, ma più “ricco”, grazie alla presenza di numerosi attori che non si sono negati al grande maestro. Un progetto nato nell’ormai storico laboratorio estivo “Fare cinema”, nell’anno 2023, ideato e scritto da Bellocchio ma poi rielaborato e in parte riscritto con gli studenti; poi girato sempre con gli studenti e con gli attori professionisti. DivertReminiscente. Selezione ufficiale Fuori concorso. Voto: 7 (PD)

Taxi monamour (Ciro De Caro). Anna (Rosa Palasciano) è una ragazza cresciuta in una famiglia complicata e vive un rapporto sentimentale non proprio sereno. Ha da poco ricevuto una diagnosi di una malattia importante, che si rifiuta di accettare e curare. Nadiya (Yeva Sai), è una giovane ucraina di stanza in Italia, che si mantiene facendo la badante, anche se gli zii le stanno cercando un lavoro più concreto. Il suo più grande desiderio è tornare al suo Paese d’origine, malgrado la guerra in corso. Se ad Anna tutti consigliano di seguire il compagno in un viaggio di lavoro, a Nadiya tutti suggeriscono di restarsene al sicuro dove si trova. Le due donne si incontreranno, per un breve momento, ma sarà un tuffo unico nella libertà… Ciro De Caro e Rosa Palasciano tornano, tre anni dopo Giulia, alle Giornate degli Autori a Venezia, sempre nelle vesti di regista, attrice ed entrambi sceneggiatori. Racontano di donne al limite, di esistenze disgregate e vaganti che, per caso o per necessità, entrano in “rotta di collisione”. Tra Anna e Nadiya si crea un rapporto speciale: forse è amore, forse è amicizia, probabilmente è solo la necessità di aggrapparsi a qualcuno simile a noi stessi, qualcuno a cui mancano i pezzi che noi invece abbiamo e che ha quelli che abbiamo sempre cercato invano. De Caro non dice, non dà risposte, ma fa solo tante domande. E chiude con un finale frizzante e tenero, tra i migliori del cinema italiano degli ultimi anni. Se Taxi monamour ha un limite, è forse quello di dare vita ad un personaggio fin troppo simile a quello del precedente film, senza però volerlo dichiarare: nessuno si sarebbe offeso di fronte ad un sequel della pellicola del 2021. Ma gli vogliamo bene lo stesso: ad Anna, a Nadiya e anche a Giulia. Giornate degli autori. Voto: 7 (PD)

Il tempo che ci vuole (Francesca Comencini). Sono passati diciassette anni, “il tempo che ci vuole”, da quando il Cinema italiano ha dovuto rinunciare per sempre a Luigi Comencini, uno dei maestri della Commedia (all’)italiana. La minore delle quattro figlie, una delle due registe, Francesca, porta sullo schermo questo affettuosissimo ritratto del padre, qui magistralmente interpretato da Fabrizio Gifuni. Un genitore amato e odiato allo stesso tempo, che però le ha trasmesso la passione per la settima arte, nel film a tratti agiografato e idealizzato, ma è il ricordo che la figlia ha conservato di lui, al netto probabilmente dei lati più negativi. Un film coraggioso, nel quale l’autrice non nasconde né rinnega i suoi trascorsi di tossicodipendente e che ha dei momenti molto felici, divertenti e poetici, in particolare sul set de “Le avventure di Pinocchio” (da applauso il sogno de “la luce a cavallo”). Una pellicola sicuramente terapeutica, girata appunto con la giusta distanza, ma anche estremamente cinefila, ricordando, attraverso infiniti spezzoni d’epoca a corredo, come Luigi Comencini sia stato tra i fondatori della Cineteca di Milano grazie a copie salvate dal macero e conservate in casa. Terapeutico. Selezione ufficiale Fuori concorso. Voto: 7 (PD)

Wishing on a star (Péter Kerekes). Il lungometraggio parla di Luciana De Leoni, un’astrologa napoletana: le persone vanno da lei per chiederle di avverare il loro desiderio e Luciana li manda a fare un “viaggio del compleanno”, per rinascere e trovare le risposte e le rivelazioni che meno si aspettano. Durante la visione conosceremo i vari clienti dell’astrologa: due gemelle di cui una proietta i sogni sull’altra e vorebbe che avesse un figlio; un uomo che cerca amore ed eredi per far contenta la madre; una vecchia signora costretta a vivere all’ombra della madre malata; una donna non soddisfatta delle poche attenzioni del marito; una donna che porta rancore verso il padre musicista e via dicendo. Accompagneremo questi personaggi nei loro viaggi e verremo a conoscenza delle loro storie, storie in cui ci si può immedesimare. A fine film sarà Luciana stessa a realizzare il suo sogno.
Il regista Péter Kerekes, che ha sempre sognato di realizzare un film italiano, realizza il suo sogno con questo avvincente documentario. Riesce a farci empatizzare con ogni storia raccontata, rappresenta emozioni e situazioni reali, tutto quello che succede è realisitico. Consigliamo, però, la visione ad un pubblico più maturo per la varietà dei temi trattati. è probabile che un pubblico più adolescenziale lo trovi noioso e pesante. Un documentario spaziale. Orizzonti. Voto: 7 (LM)

A man fell (Giovanni C. Lorusso). Dal pretesto di un ladro, che sarebbe precipitato nel vuoto tentando di rubare e che non vedremo fino alla fine della docu-fiction, il regista, dopo il precedente Song of all ends, ci conduce nella vita quotidiana all’interno dell’ex “Gaza hospital”. Frutto della permanenza all’interno dell’edificio per 25 giorni, il film racconta, attraverso gli occhi del giovanissimo Arafat, l’esistenza in quel luogo resistente, simbolo di resistenza passiva della condizione palestinese.

Anul nou care n-a fost/L’anno nuovo che non venne mai (Bogdan Mureşanu). 20 dicembre 1989, Romania: sotto il regime comunista di Ceaușescu, dopo i massacri delle folle al grido di “Libertà”, siamo sull’orlo della rivoluzione di Natale. Le storie di sei individui di diversa classe, mestiere ed età, apparentemente scollegate, si intersecano tra loro: un’attrice, costretta a glorificare Ceaușescu, che farà di tutto per sabotarsi; un ragazzo che tenta di scappare dirigendosi al confine con un suo amico; una vecchia signora costretta a lasciare casa per l’imminente demolizione; il figlio che deve convincerla; un lavoratore della classe operaia che, per uno sfortunato errore, manda una dichiarazione scritta del suo desiderio della morte di Ceaușescu; dei registi costretti a girare la scena delle lodi al dittatore se non vogliono perdere il lavoro. Tutte le storie si concludono con l’ultimo discorso pubblico di Ceaușescu, durante il quale esplode la rivoluzione rumena.
Il lungometraggio di Bogdan Mureşanu spiega e fa provare le emozioni e la tensione che si vivevano a quei tempi in Romania. Il film riesce a raccontare un pezzo di storia riportando in chiave moderna una tra le prime rivoluzioni video-documentate. Il film, però, in alcune parti risulta pesante, i continui oscillamenti della macchina da presa possono creare disturbo, ma la curiosità e l’ansia di sapere come andranno a finire le vicende dei sei protagonisti riesce a controbilanciare bene questi difetti. Un interessante viaggio nel tempo. Orizzonti. Voto: 6 e ½ (LM)

Anywhere anytime (Milad Tangshir). Issa è un giovane immigrato clandestino che a Torino cerca di sopravvivere come può. Licenziato dal suo vecchio datore di lavoro, grazie a un amico inizia a fare il rider. Ma l’equilibrio appena conquistato crolla quando, durante una consegna, gli viene rubata la bicicletta appena comprata. Issa intraprende così un’odissea disperata per le strade della città, per ritrovare la sua bici… Chiaro omaggio di un regista ed ex-rocker iraniano, qui al suo debutto nel lungometraggio, a Ladri di biciclette di Vittorio De Sica, in una versione 2.0, aggiornato ai nostri giorni. Il film vuole far riflettere sull’ansia e la paura di chi vive ai margini delle nostre società occidentali, cercando di entrarvi in ogni modo, ma venendone costantemente respinto. Interessante per almeno buona parte della sua durata, finisce però per restare schiacciato dall’ombra del capolavoro che cita, man mano che l’omaggio si fa sempre più esplicito, pur concludendosi in maniera ancor più drammatica dell’originale, confermando la difficoltà, se non l’impossibilità, di integrazione. Pessimista. Settimana internazionale della critica. Voto: 6 e ½ (PD)

Dadapolis – Caleidoscopio napoletano (Carlo Luglio e Fabio Gargano). “Fuoco – Creazione: La città e le sue trasformazioni”; Terra – Conretezza: Creatività e mercato”: “Acqua – Riunificazione: Morte e rinascita”; “Aria – Mobilità: Uno sguardo al futuro”. I quattro elementi in altrettanti capitoli per sviscerare e mostrare una delle città più complesse e contraddittorie d’Italia nei suoi lati più nascosti, lontano dai luoghi comuni. In ricordo del produttore Gaetano Di Vaio, del poeta e drammaturgo Enzo Moscato e del “posteggiatore” Cristian Vollaro, recentemente scomparsi, una serie di artisti partenopei più o meno noti, da Lino Musella a James Senese, da Peppe Lanzetta a Cristina Donadio, tanto per citarne alcuni, raccontano una Napoli inedita, in un caleidoscopio dadaista con più senso di quello che sembrerebbe avere. Un dialogo plurale che restituisce speranza a una terra in perenne movimento. Nea-politano. Giornate degli autori. Voto: 6 e ½ (PD)

Sanatorium under the sign of the hourglass (Quay brothers). Tratto dall’omonimo libro del polacco Bruno Schulz. Il film dei fratelli Quay inizia col viaggio spettrale di un treno che procede su una diramazione abbandonata. A bordo c’è Jozef e si sta dirigendo al capezzale del padre in un remoto Sanatorio galiziano. All’arrivo, trova un edificio fatiscente, gestito dall’ambiguo dottor Gotard che lo accoglie spiegandogli che la morte del padre, cioè quella che lo ha colpito nel suo paese, non è ancora avvenuta perché qui nel Sanatorio, rispetto al tempo normale, loro sono sempre in ritardo in modo indefinibile. Jozef si rende conto che il Sanatorio è un mondo fluttuante a metà strada tra il sonno e la veglia e che il tempo e gli eventi non possono essere misurati in alcuna forma tangibile… I fratelli Quay tornano al lungometraggio dopo quasi vent’anni dall’ultimo The pianotuner of earthquakes. La tecnica è mista: stop-motion e live action per un film visionario e magico che cerca di restituire le atmosfere degli scritti di Bruno Schulz. Non sempre comprensibile, come lo scrittore da cui è tratto, rimane comunque impresso per il certosino e proverbiale lavoro dei due autori che ricorda tantissimo l’animazione dell’Europa dell’Est, in particolare Jan Švankmajer. Enigmatico. Giornate degli autori. Voto: 6 e ½

Selon Joy (Camille Lugan). In una città spenta e desolata, Joy è un’orfanam con una fede profonda, che non esce quasi mai dalla sua chiesa. Fino al giorno in cui incontra Andriy, un giovane che viene picchiato davanti a lei. Presto comprende che le loro strade, pur diverissime, sono destinate a incrociarsi. Film più complesso di quanto potrebbe sembrare, mescola “polar” e “romance” ambientati nel nulla, in un’ambientazione vuota, per porre in sostanza una domanda fondamentale circa l’esistenza di Dio: ovviamente la risposta non c’è, venendo lasciata allo spettatore. Oltre alla bellissima Sonia Bonny la pellicola porta in dono un’insolita quanto riuscita performance di Asia Argento, nel ruolo della boss Mater, che nel nome e non solo sembra contrapporsi al “padre”, Père Léonard. Non sempre tutto funziona, ma il film si lasca vedere e tutto sommato, almeno esso, “c’è”. Dogmatico. Giornate degli autori. Voto: 6 e ½

The fisherman (Zoey Martinson). In un villaggio del Ghana, Atta Oko (Ricky Adelayitar), un vecchio pescatore legato alle tradizioni e con un astio per la tecnologia, aspira a diventare il Capo Barca, già sicuro di essere eletto. L’attuale Capo Barca, invece, cede il suo posto al figlio, più moderno e tecnologico di Atta, credendo che al villaggio serva innovazione; Oko resta deluso ed arrabbiato, soprattutto quando poi lo premiano come dipendente del mese, regalandogli un raro pesce apparentemente morto. Ma è qui che la storia prende una piega inaspettata, perché il pesce parla, e deve dare un messaggio proprio ad Atta, l’unico che riesce a sentirlo. Da qui in poi insieme a tre ragazzi del villaggio, anche loro non soddisfatti della loro attuale vita, cerca di comprare una barca, e si dirigerà nella capitale Accra, sempre portandosi dietro il pesce. Qui il gruppo cerca soldi con cui coronare i propri sogni, trovando, invece, complicazioni e litigi, da cui, però, tutti i personaggi arriveranno ad una crescita personale che li porterà a capire che in realtà hanno già tutto ciò di cui hanno bisogno.
Il nuovo film della giovane regista Zoey Martinson tratta di temi quali la famiglia, il non sentirsi adeguati nel posto in cui si vive, ma, anche, di cambiamento climatico e della collisione della nuova generazione con la vecchia. Le scene comiche non mancano e tutto sommato funzionano, e, sebbene a volte possa risultare lento, il film è piacevole da guardare, aiutato anche dall’ottima fotografia, ed ha le giuste basi per crescere al meglio; la regista, per concludere, ha sicuramente talento. Un film alla scoperta del Ghana. Biennale college cinema. Voto: 6 e ½ (LM)

Campo di battaglia (Gianni Amelio). Sul finire della Prima guerra mondiale, due ufficiali medici, amici d’infanzia, lavorano nello stesso ospedale militare dove ogni giorno arrivano dal fronte i feriti più gravi. Molti di loro però si sono procurati da soli le ferite, sono dei simulatori, che farebbero di tutto per non tornare a combattere. Stefano (Gabriel Montesi), di famiglia altoborghese, con un padre che sogna per lui un avvenire in politica, è ossessionato da questi autolesionisti e, oltre che il medico, fa a suo modo lo sbirro. Giulio (Alessandro Borghi), apparentemente più comprensivo e tollerante, non si trova a proprio agio alla vista del sangue, è più portato verso la ricerca, avrebbe voluto diventare un biologo. Anna (Federica Rosellini), amica di entrambi dai tempi dell’università, sconta il fatto di essere donna. Ma Giulio fa altro: remando contro Stefano, nell’ombra cerca di far ammalare o peggiorare i suoi pazienti, nel tentativo di rimandarli a casa, poiché qualsiasi cosa secondo lui, perfino una morte serena, è meglio di questa guerra assurda. E nel frattempo Giulio inizia a notare casi di una strana epidemia che nessuno vuol vedere: la Spagnola… Neanche troppo liberamente ispirato al romanzo “La sfida” di Carlo Patriarca, il nuovo film di Gianni Amelio avrebbe avuto un senso se fosse stato girato prima del 2020. Dopo la pandemia da Covid-19, è davvero impossibile che la mente dello spettatore non vada ai recentissimi eventi, affibbiando così alla pellicola un altro senso ancora, però molto ardito e farraginoso, mettendo fin troppa carne al fuoco. Inoltre i tre personaggi principali sono poco approfonditi, troppo netti e a tratti mono-dimensionali: in particolare, il rapporto di Anna con i due ufficiali, risulta spesso poco chiaro. Dopo un inizio interessante, dove il regista calabrese crea una allucinante ed originale babele linguistica e innesca quasi impercettibilmente alcune sottotrame, mantenendosi volutamente lontano dalla prima linea, il film, nella sua lunga durata, comincia a perdere colpi, inabissandosi verso il finale nella fortezza buzzatiana. Un’ulteriore critica alla nuova opera di Amelio è infine la scelta gratuita, sempre più diffusa, di mettere in bocca ai nostri bravi attori dei dialetti il più possibile lontani dal loro, soltanto per regalargli una prova virtuosistica e dimostrare quanto siano bravi. Micro-kolossal. Concorso. Voto: 6 (PD)

Mogućnost raja/Possibilty of Paradise (Mladen Kovačević). Gli scolari che vivono sulla cima di un’isola paradisiaca aspettano che smetta di piovere; un’ex pubblicitaria sta portando a termine un affare fondiario per la sua nuova villa; un imprenditore lotta contro la natura mentre costruisce un resort nella giungla; un veterinario lavora per eliminare i serpenti dai giardini degli stranieri; una influencer, disillusa dall’amore, si riprende dopo aver perso tutto in una notte; un padre e un figlio si preparano ad andarsene via, senza sapere la meta; una ballerina assume una nuova identità, allontanandosi da tutto ciò che ha sempre conosciuto; i sommozzatori si avventurano in acque inesplorate, rischiando la vita per il gusto della conquista. Le tensioni tra le varie possibilità dell’esistenza ruotano intorno alla domanda su quale vita si dovrebbe condurre, visto che ogni decisione porta a una diversa versione di sé. E mentre il paradiso terrestre potrebbe essere nient’altro che un ideale dell’immaginazione, l’umanità continua incessantemente a cercare la felicità… Un documentario co-prodotto tra Serbia e Svezia che pone molte domande senza dare risposte, rischiando di risultare poco più di un’accozzaglia di idee, di bozze, di spunti senza un chiaro significato. Alcune situazioni risultano interessanti, ma l’insieme delude. Frammentato. Giornate degli autori Eventi speciali. Voto: 6 (PD)

Januar 2 (Zsófia Szilágyi). Il lungometraggio è un racconto microrealistico di un divorzio visto dagli occhi della migliore amica della moglie. Più nel particolare, Ági aiuta Klára a trasferirsi lontano dalla casa del, ormai, ex marito, accompagneremo Ági nei suoi numerosi viaggi in auto tra la vecchia casa dell’amica e la nuova casa e grazie a poche battute riusciremo a capire un po’ di più della vita di entrambe e tutte le persone che vengono toccate dal divorzio.
Il film propostoci da Zsófia Szilágy è sicuramente un’originale versione in cui trattare i problemi di coppia, però è sfrutata male: la presenza di poche battute, i vari erorri di montaggio, la mancanza di varietà nelle inquadrature e la poca espressività rendono il film poco gradevole e noioso, sia per un pubblico giovanile che per uno più maturo. Pur essendo realistico, anche fin troppo, manca di scene in grado di farci empatizzare con i personaggi, risultando così estremamente monotono. Un film fin troppo microrealista. Biennale college cinema. Voto: 4 (LM)

Dai nostri inviati Vito Casale, Paolo Dallimonti e Lucrezia Macchi.