Giuria
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In diretta dal Lido di Venezia: recensioni e commenti di giorno in giorno
Come da qualche anno a questa parte si rinnova l’appuntamento con una sorta di diario semiserio da Lido in corrispondenza del Festival di Venezia, appuntamento imperdibile per i cinefili e per tutti i curiosi che vogliono sapere, in diretta, come vanno davvero le cose.
I primi giorni (da mercoledì 28 a venerdì 30 agosto).
Si comincia e già ho perso il film di apertura, che pare sia piaciuto a molti. Gravity ha infatti messo d’accordo quasi tutti grazie alla regia di Alfonso Cuarón, all’interpretazione di Sandra Bullock, a effetti speciali strepitosi, a un 3D immersivo e coinvolgente e a una sceneggiatura definita un po’ furba ma senza dubbio efficace. A questo punto non vedo l’ora di vederlo e l’attesa non pare infinita perché sarà nelle sale dal 3 ottobre. Per molti uno dei sicuri protagonisti della notte degli Oscar. Peccato che a Venezia non fosse in concorso, perché eventuali premi avrebbero potuto testare, come spesso è accaduto in passato, la capacità del film di imporsi nell’immaginario. È già passato anche il primo film italiano, Via Castellana Bandiera di Emma Dante. Raccogliendo un po’ di pareri in giro sembra che sia piaciuto più alla critica che al pubblico. Sicuramente il soggetto, tratto da un’opera teatrale della stessa Emma Dante, è molto originale. Ecco la sinossi tratta dal catalogo della mostra:
Chiuse all’interno delle loro macchine, due donne si affrontano in un duello muto che si consuma nella violenza intima degli sguardi. Un duello tutto al femminile punteggiato dal rifiuto di bere, mangiare e dormire; più ostinato del sole di Palermo e più testardo della ferocia degli uomini che le circondano. Perché, come in ogni duello, è una questione di vita o di morte… È una domenica pomeriggio. Lo scirocco soffia senza pietà su Palermo quando Rosa e Clara, si perdono nelle strade della città e finiscono in una specie di budello: Via Castellana Bandiera. Nello stesso momento, un’altra macchina guidata da Samira, dentro la quale si ammassa la famiglia Calafiore, arriva in senso contrario e penetra nella stessa strada. Né Rosa al volante della sua Multipla, né Samira, donna antica e testarda al volante della sua Punto, intendono cedere il passo l’una all’altra, mentre la famiglia Calafiore rientra all’interno della palazzina abusiva nella quale abita e prepara, con la complicità della gente del quartiere, una scommessa su chi tra le due donne terrà la sua posizione più a lungo. La sera arriva, poi la notte penetra nella strada e nelle case del quartiere, ma le due donne, resistendo alla fame, al sonno e alla sete, sembrano obbedire a un’ostinazione che non ha più niente di razionale, e continuano a non cedersi il passo…
Sembra che il duello delle due protagoniste sia anche un duello attoriale che mette a confronto la veterana Elena Cotta con la stessa Emma Dante e Alba Rohrwacher. Comunque il film sarà nelle sale poco dopo la fine del festival, dal 19 settembre. Speriamo che l’originalità trovi uno sbocco adeguato tra le troppe commedie che il cinema italiano sforna infaticabilmente.
31 agosto 2013 (sabato)
#IMG#Oggi giornata di recuperi e di anticipazioni rispetto al programma ufficiale che vede per la sezione Orizzonti We Are The Best, dell’affermato regista svedese Lukas Moodysson (quello di Fucking Amal per intenderci). E del nuovo film, su una rockband di adolescenti, si dice un gran bene. Marchio di fabbrica: freschezza e capacità introspettive superiori alla media. Purtroppo devo saltarlo, ma spero che trovi la strada delle sale. Venendo al concorso è invece il tempo di Kelly Reichardt e Stephen Frears.
Kelly Reichardt, che presenta Night Moves, è una musa del cinema indipendente americano. Il suo non è un cinema ad effetto, non si porta dietro il peso di ideologie, ma è più che altro un percorso di ricerca che prova a insinuare il dubbio, a minare le certezze, a moltiplicare gli interrogativi. Ogni suo film va quindi metabolizzato. Il rischio, soprattutto in un festival (a Venezia 70 è stato presentato in concorso), è che non si abbia il tempo per lasciarlo decantare. I protagonisti sono tre ragazzi di cui sappiamo poco o nulla. Li unisce la voglia di lanciare un segnale forte. Le motivazioni ambientaliste sono solo una parte delle ragioni che li inducono a sfidare la legge e a rischiare in prima persona, e la Reichardt si limita a piccoli cenni per collocarli nel racconto. La ragazza ha probabilmente una famiglia ricca alle spalle, il giovane agricoltore (quello che diventerà il protagonista) ha un carattere introverso, è solo al mondo e vive presso una famiglia di contadini che lo ha accolto, mentre il terzo è quello all’apparenza più torbido e spiantato. La prima parte del film, la più debole, si sofferma sul niente dei loro dialoghi, e purtroppo si percepisce la forzatura da parte della regista, anche co-sceneggiatrice, di volere sempre mantenere una distanza nei confronti dei personaggi, cercando una naturalezza che però non si evolve mai in spontaneità. Anzi, nonostante l’essenzialità delle caratterizzazioni il ritratto di questi giovani eco-terroristi non evita stereotipi e luoghi comuni (il nerd, la scafata, il borderline). Più interessante l’evoluzione del racconto che si sofferma sulle conseguenze dell’atto terroristico. La Reichardt sembra volerci far riflettere sull’impossibilità di un equilibrio tra obiettivi collettivi e ragioni individuali, sull’untuosità dei personalismi, che inevitabilmente inquinano qualunque accordo razionale, sulle mutevoli forme di un atto di ribellione, sulle conseguenze di un’ideologia chiusa al dialogo, sulla difficoltà di fuggire al proprio destino (evidente nella conclusione in cui il protagonista è in cerca di una lavoro più che ordinario e diventa quindi prigioniero dell’omologazione a cui probabilmente cercava di fuggire). In realtà alla Reichardt non interessa assolvere o condannare nessuno, la tesi non appartiene alla sua visione, il suo sguardo si sofferma sulle conseguenze di un gesto estremo nella quotidianità di chi lo ha compiuto e per farlo si affida ancora una volta al ritmo della natura, che scandisce lo scorrere di un tempo prima di speranza e poi di sofferenza, a un approccio minimalista che punta alla sottrazione e a tempi dilatati in cui l’azione è comunque sempre fuori campo. Il risultato si lascia apprezzare per gli interrogativi che suscita, per il terreno scivoloso su cui fa muovere i personaggi, ma forse il tema forte lasciava lecitamente presupporre un punto di vista più incisivo sulla materia trattata. Aspetto che forse interessa più lo spettatore che la sensibile regista. Sta di fatto, però, che l’opera si finisce per percepire un po’ debole.
Philomena è invece un film che colpirà al cuore gli spettatori di mezzo mondo, prenotandosi anche un posto tra le candidature dei prossimi premi Oscar, almeno per la sceneggiatura (di Jeff Pope e del co-protagonista Steve Coogan), perfettamente calibrata, e la protagonista femminile, una strepitosa Judy Dench. È un cinema classico, che alterna con furbizia e mestiere lacrime e sorrisi, quindi difficilmente riuscirà ad aprirsi un varco nella scelta della Giuria. Se infatti il verdetto di sabato dovesse preimiare Philomena con il Leone D’Oro, scelta che non stonerebbe, sarebbe la dimostrazione del fallimento del festival come luogo di ricerca, sperimentazione e novità. Perché se Philomena non ha bisogno del festival per trovare la strada della distribuzione, sicuramente il festival ha bisogno di Philomena per accendere i riflettori su opere magari meno meritevoli ma più audaci. Ma veniamo al film. L’origine è il romanzo “The Lost Child of Philomena Lee”, di Martin Sixsmith, storia vera di una donna irlandese che negli anni ’50 è affidata forzatamente a un gruppo di suore a causa di una gravidanza indesiderata e viene obbligata a dare il figlio in adozione a una famiglia americana. Dopo cinquant’anni di silenzio la donna decide di cercare ciò che le è stato sottratto. La complicità con un giornalista in crisi sarà determinante per raggiungere il suo scopo. Il melodramma è servito su un piatto di raffinata cucina cinematografica grazie, oltre che a una scrittura ispirata, a una regia capace di dosare gli eventi facendosi portatore di un punto di vista laico e non ideologico, capace di trovare un equilibrio illuminante nelle differenti ragioni dei personaggi. Ovviamente la furbizia è dietro l’angolo, perché con la protagonista l’empatia è immediata e le ragioni, alla fine, stanno tutte da una parte. Si esce dalla sala conciliati con la sensazione di avere visto un bel film. Sembra scontato, ma non lo è affatto. Il pubblico, se riuscirà a superare la diffidenza di un cartellone e un trailer non proprio accativanti, lo amerà.
Asciungandomi le lacrime e dandomi un contegno recupero anche The Canyons che Paul Schrader ha diretto e il celebre scrittore Bret Easton Ellis ha sceneggiato. C’era aria di scandalo ieri, ma il forfait di Lindsay Lohan e la prova modesta del porno divo James Deen hanno subito silenziato la eco intorno all’opera. L’aspetto più interessante è quello produttivo, infatti il film è stato finanziato tramite il sito web Kickstarter, un portale di crowdfunding, per il resto si tratta di un giallo abbastanza ordinario che rimesta nel noto lasciando spazio agli sbadigli. Eppure, tra i tanti fischi (esagerati), c’è anche chi lo ha idolatrato (esagerati pure loro). Belli i titoli di testa, in cui Schrader sancisce la morte delle immagini mostrando cinema decadenti o in disuso, ma ciò che segue non è all’altezza delle premesse e il film si dimentica in fretta. Peccato.
Ulteriore recupero della giornata è stato anche Joe, passato ieri in Sala Grande, di David Gordon Green con un bravo Nicolas Cage e un intenso Tye Sheridan, che si candida già al Premio Mastroianni per le giovani promesse. Questa la storia: in un piccolo villaggio del Texas, Joe Ransom cerca di lasciarsi alle spalle un passato oscuro. L’opportunità gli viene data dall’arrivo in paese di Gary, ragazzino in difficoltà, in cerca di lavoro. Anche in questo caso si può parlare di delusione. Che la provincia americana, come la maggior parte delle province, non godesse ottima salute lo sapevamo già. Gordon Green si limita a esasperare i toni puntando su scene madri, urla, botte da orbi, crudeltà compiaciute e grevità a livello esponenziale. Le sensibilità sono primordiali, le caratterizzazioni al limite della caricatura. Ci si chiede a chi serva un cinema del genere. Forse ai selezionatori di festival per avere un nome famoso tra gli ospiti. Non certo al pubblico che dell’ennesimo ritratto di provincia disperata e ululante non sa proprio che farsene. Bocciato!
1 settembre 2013 (domenica)
Come spesso accade a Venezia, ma in tutti i festival direi, il primo week-end si decide il destino della manifestazione. Se i media schivano l’evento nel primo fine settimana difficile che il festival recuperi attenzione nei giorni successivi. A proposito. Ci si sforza di parlare dei film, di attirare l’attenzione dei lettori sul contenuto, mentre i quotidiani si occupano sempre meno dei festival e quando lo fanno si limitano a note gossip di dubbio interesse. Certo, ci vogliono anche quelle, ma se l’informazione si limita a questo ci si domanda a cosa servano i festival, basterebbe la settimana della moda a Milano. Sull’utilità dei festival ci si interroga spesso, magari ci ritorneremo su queste righe per capire se ha ancora senso spendere milioni di euro per mostrare film che interessano pochi. Ma veniamo alla giornata odierna, un po’ deludente nel complesso. Miyazaki non ha entusiasmato, il greco Avranas è proprio brutto, Parkland superfluo. Qualche bagliore da Kill Your Darlings, più che altro scintille per la forza del soggetto. Ma procediamo per ordine.
La giornata è cominciata con Miss Violence, rappresentante di quella cinematografia greca che, forse a causa della crisi economica, pare bisognosa di un riscatto nei maggiori festival internazionali. Riscatto non giustificato dal tenore delle opere presentate. È successo qualche anno fa con l’imbarazzante Attenberg (sperimentalismi datati che però hanno fatto la gioia degli snob), e succede oggi con un film programmaticamene sgradevole di una banalità sconcertante.
Ecco la trama dal catalogo:
Il giorno del suo compleanno l’undicenne Angeliki si butta giù dal balcone e muore con un sorriso stampato sul volto. Mentre la polizia e i servizi sociali tentano di scoprire il motivo di questo apparente suicidio, la famiglia di Angeliki continua a ripetere che si è trattato di un incidente. Qual è il segreto che la piccola Angeliki ha portato con sé nella tomba? Perché la sua famiglia continua a cercare di “dimenticarla” e di tornare alla sua vita normale?
Siamo dalle parti dell’orco prevaricatore, con la famiglia covo di tutti i mali possibili. Ciò che pensi fin dall’inizio e rifuggi perché troppo prevedibile è invece l’assunto del film che nella seconda parte si bea di una banalissima discesa agli inferi che non aggiunge nulla al noto. Poi, sì, certo, Avranas è padrone della macchina da presa, gestisce con rigore gli spazi, prova a dare forma a un disagio, ma si limita a sguazzare nel greve.
Parkland, di Peter Landesman, racconta le vicende caotiche di Dallas del 22 novembre 1963, giorno in cui l’allora presidente degli Stati Uniti John F. Kennedy fu assassinato. L’idea sulla carta non è male. Andare direttamente sul campo reinterpretando i fatti attraverso le persone comuni che si sono ritrovate di colpo catapultate al centro del mondo. Quindi i medici e gli infermieri che provarono a rianimare il presidente, l’uomo che casualmente filmò in diretta l’omicidio, i poliziotti locali, gli agenti dei servizi segreti. Peccato che la visione di Landesman, al suo debutto come regista e celebre più che altro come giornalista d’inchiesta, pittore, corrispondente di guerra e scrittore, non goda dell’ampio respiro richiesto dall’approccio e si limiti a una pedissequa sequenza di incastri alla fine poco illuminanti e con un taglio televisivo delle immagini che ne limita la portata. Nulla di terribile, come da più parti si sente dire, ma anche nulla in grado imprimersi nella memoria e giustificare la presenza di un prodotto assai modesto in concorso in uno dei festival più importanti del mondo.
Ma veniamo al film più atteso della giornata, The Wind Rises di Hayao Miyazaki. L’opera del Maestro giapponese assume un’importanza particolare perché pare che rappresenti l’addio al cinema del regista, grande assente al festival che ha parlato attraverso il presidente dello studio Ghibli, Koji Hoshino. Una notizia che ha mandato nello sconforto i tanti fan sparsi nel mondo e che sembra derivi per il regista da una consapevolezza molto orientale dei propri limiti umani, soprattuo anagrafici, in considerazione anche del tempo necessario per portare a termine un lungometraggio di animazione. Quanto al film, racconta della passione per il volo di Jiro che sogna di progettare splendidi aeroplani, ispirati dal famoso ingegnere aeronautico italiano Caproni. Miope dalla più tenera età e quindi impossibilitato a diventare pilota, Jiro entra a far parte della divisione aeronautica di un’importante industria meccanica giapponese nel 1927. Il suo genio viene presto riconosciuto e giunge a diventare uno dei migliori ingegneri aeronautici del mondo. La sceneggiatura è tratta da un manga dello stesso Miyazaki (a sua volta molto liberamente ispirato all’altrettanto omonimo racconto di Tatsuo Hori), ma questa volta l’amalgama non fa scintille. Il racconto procede lineare, i dettagli tecnici si susseguono, l’onirico stenta (nel sogno il protagonista incontra il costruttore italiano Gianni Caproni). Poi bastano un tocco di colore particolarmente intenso o un soffio di vento a scompaginare pensieri e personaggi e accendere l’entusiasmo, ma il film finisce per regalare poche emozioni. Difficilmente conquisterà qualche premio. È uno dei pochi titoli in concorso a non essere in prima mondiale. In Giappone, infatti, è uscito in luglio incassando cifre record. In Italia lo distribuirà Lucky Red, che si ritrova tra le mani un grande nome con un film non proprio irresistibile.
#IMG#E ora passiamo alla parziale sorpresa della giornata. Si tratta di Kill Your Darkings ed è presentato nella sezione Giornate degli Autori. Il colpaccio per il curatore della sezione Giorgio Gosetti è stato quello di avere un ospite che ha oscurato il Concorso. Tutto il giorno, infatti, i fan hanno assediato i luoghi del festival alla ricerca di Daniel Radcliffe, Harry Potter in persona. L’incontro con la stampa nello spazio Di Saronno vede una creatura bizzarra, un ragazzo come tanti, baciato dalla fortuna per ciò che il destino gli ha riservato, ma anche alle prese con la non facile eredità di una saga che lo ha reso uno dei volti più famosi del mondo. Senza, tra l’altro, che l’espressività sia mai stata il suo forte. Difficile staccarsi da un personaggio con cui si è cresciuti in simbiosi, e la normalità ostentata da Radcliffe pare nascondere molte crepe. Intanto diamogli il merito di aver tentato di dare una svolta alla propria immagine. In Kill Your Darlings è nientepopodimeno che Allen Ginsberg nel 1944 al college, prima di diventare l’Allen Ginsberg tramandato ai posteri. Quindi un ragazzo inesperto, inisicuro e alla ricerca di una vita piena. È questo l’aspetto più interessante della pellicola di John Krokidas: andare dietro al mito conoscendo personaggi poi entrati nella Storia prima che diventassero famosi. Certo, non a tutti capita di avere come compagni di studi Jack Kerouac e William S. Burroughs, ma la Columbia University del 1944 era in pieno fermento creativo e culturale. Il protagonista vero è proprio è però uno studente implicato nell’omicidio di David Kammerer, insegnante di inglese e istruttore di educazione fisica presso la Washington University in St. Louis. Un ragazzo geniale e carismatico, l’unico del gruppo a non essere diventato poi una celebrità. Sul rapporto e sulle dinamiche tra i giovani personaggi si gioca il film, che tenta con scaltrezza di agganciare in questo modo il teen-ager contemporaneo. In parte riuscendoci, ma appesantendo il tutto con una indagine giudiziaria che occupa tanto (troppo) spazio e finisce per non interessare poi granché. Un tentativo quindi in parte riuscito, ma che risulta molto meno rivoluzionario e trascinante delle intenzioni e, soprattutto, delle lecita aspettative data la forza del soggeto.
Dopo tanti fotogrammi che ora si mescolano nella stanchezza accumulata è tempo di riordinare le idee e di andare dormire. Domani si ricomincia.
2 settembre 2013 (lunedì)
Dopo il fermento del week-end il lunedì di un festival è molto più tranquillo. Meno gente in giro e un ridimensionamento del delirio che accompagna le giornate di festa. Il Lido al mattino è fantastico. L’atmosfera fuori dal tempo rende tutto sognante e carico di suggestioni, visive, ma anche olfattive. L’odore al mattino mentre si cammina per via Dardanelli verso la sala Darsena, assume note caratteristiche che non so riconoscere ma percepisco solo qui. É un odore ormai entrato nella mia memoria che capto appena sbarco dal vaporetto e metto piede al Lido. C’è dentro il mare, la vegetazione, Morte a Venezia, i fiori, e quella malinconia che si respira solo qui. Ma bando ai personalismi romantici ed entriamo nel vivo di una giornata che si prospetta più che di transizione, come spesso ai lunedì accade, di scoperta.
#IMG#Delude Terry Gilliam con The Zero Theorem. Le sue ossessioni ci sono tutte: futuro distopico, grottesco, pessimismo cosmico, la ricerca di un senso, la fuga da un senso. Ma le caricature, come le bizzarrie, finiscono per dominare la scena e all’ennesimo personaggio urlante che sbuca dallo schermo reclamando attenzione, la fiducia nelle capacità del regista di trasportarci in un altrove perturbante ha un calo a perpendicolo. Peccato per alcune chicche (la morte definita come una ”obsolescenza divinamente programmata”) e per l’interpretazione di Christoph Waltz, che si butta anima, e soprattutto corpo, nel folle progetto, ma alla fine il pastiche ha il sopravvento.
Eecco la trama del film di Gilliam, come da catalogo:
Un eccentrico e solitario genio del computer, afflitto da angoscia esistenziale, lavora a un misterioso progetto che mira a scoprire una volta per sempre il fine dell’esistenza umana, o l’assenza di esso. Ma soltanto nel momento in cui conosce la forza dell’amore e del desiderio riesce a comprendere la ragione autentica del suo essere.
Chi invece si rivela una piacevole scoperta è il canadese Xavier Dolan. L’etichetta di giovane talento e l’attenzione del cinephile snob e antipatico creano una barriera, ma liberandosi dai pregiudizi Tom à la ferme si rivela un’opera interessante e tutt’altro che banale.
Questa la trama, come da catalogo:
Un giovane pubblicitario arriva in piena campagna per un funerale e scopre che laggiù nessuno conosce il suo nome né la natura della sua relazione con il defunto. Quando il fratello maggiore di quest’ultimo impone un macabro gioco di ruolo per proteggere la madre e l’onore della famiglia, si instaura tra di loro una relazione perversa che potrà risolversi solo con l’affiorare della verità, qualunque sia il prezzo da pagare. Ha un bel mentire chi viene da lontano… Thriller psicologico ambientato nel Québec agricolo, Tom à la ferme affronta il crescente abisso che separa città e provincia, e la natura degli uomini che vi vivono. Sindrome di Stoccolma, lutto e sorde violenze impregnano questa breve storia di impostura e di menzogna.
Queste le note di regia, sempre come da catalogo:
Con i miei film precedenti volevo mostrare come la nozione di coppia possa cambiare passando dall’adolescenza alla vita adulta, e come si deteriori nel tempo. Messi insieme, i miei primi tre film formano una sorta di trilogia dell’amore impossibile. Ma quando ho acquisito i diritti della pièce di Michel Marc Bouchard, avevo un obiettivo preciso: tentare qualcosa di nuovo, un altro genere, un altro stile di scrittura. Ho pensato a questo in ogni istante in cui ho girato, montato o mixato Tom à la ferme. Inevitabilmente, ne è risultata una formidabile opportunità per capire l’importanza della diversità nella filmografia di un autore. Ho provato un’intensa gioia nell’esplorare il genere, pur restando all’interno della sua grammatica specifica, dei suoi codici. Avventurarsi in territori sconosciuti, riapprendere le basi, dire no agli automatismi… È stato il più bel viaggio attraverso questa forma d’arte. Pensare di più, fare di meno, lavorare sodo. Andare avanti.
Che dire, il ragazzo (perché di ragazzo si tratta, ha appena 24 anni) ha carattere e lo dimostra cercando di sondare con stile personale il genere thriller, ammantandolo di dettagli psicologici che non cadono nello psicologismo, attraverso un ‘opera che gode di contrasti forti (provincia / città, uomo rude e macho / ragazzo sensibile, menzogna / verità, dolore / espiazione). Manca forse un punto d’arrivo, non tutto è a fuoco, ma il percorso di ricerca alla base del progetto si concretizza in una tensione costante che permea il racconto e lo carica di attese, di possibili conflagrazioni, di ipotesi. Un bell’esercizio, non solo di stile, ma anche di messa in scena di un disagio a più voci dove per liberarsi di un aguzzino sarà necessario dare un calcio ai propri fantasmi e porre fine a un processo di espiazione in cui, pur trovandosi paradossalmente a proprio agio, si è stati incastrati dalle aspettative altrui. Un film ruspante, che sconta ingenuità, ma che si apprezza per la sincerità con cui non ammicca al pubblico in cerca di un consenso. La sensazione è che Dolan faccia proprio ciò che vuole fare. Beato lui, che pur così giovane ha già le idee così chiare. È ancora acerbo, certo, ma ne continueremo a sentir parlare negli anni a venire. Resta da capire se a Bertolucci e alla giuria potrà piacere. O è colpo di fulmine, ma ne dubito, oppure grazie, se siamo interessati ci faremo sentire.
La giornata prosegue positivamente grazie a un film che è più che altro un virtuosismo. Si può riuscire a interessare lo spettatore mostrando un uomo in macchina al telefono per un’ora e mezza? La risposta è Locke. Il regista Steven Knight lo definisce ”La vita di un uomo trasformata in mezzo serbatoio di benzina” ed in effetti basta una telefonata, in auto, nel buio della notte, mentre la contingenza impone scelte tutt’altro che facili, per cambiare drasticamente il destino di un uomo. Aggiungere dettagli significherebbe bruciare le sorprese e il real time che incombe. Basti dire che il film funziona e la sfida si può ritenere vinta. Lo one man show vede protagonista l’inglese Tom Hardy, ormai di casa a Hollywood grazie al trasformismo che lo contraddistingue. Il cinefilo se ne è accorto con Bronson, di Nicolas Winding Refn, mentre il grosso del pubblico lo ha scoperto quando ha interpretato il cattivo Bane in Il Cavaliere Oscuro – il ritorno. Locke regge gran parte del peso sulla sua interpretazione e lui, che le spalle le ha belle grosse, affronta il compito con impegno, misura e ottima resa. Potrebbe diventare un cult.
Alle Giornate degli Autori Daniele Gaglianone presenta La mia classe, sorta di ibrido che fa incontrare fiction e documentario attraverso un esperimento solo sulla carta interessante. La realtà è rappresentata da una vera classe di stranieri a lezione di italiano. La finzione da un professore e da una troupe che vuole girare un film. Gli studenti diventano quindi a loro volta attori e il film finisce per mescolare livelli diversi di finzione e di realtà senza che sia ben chiaro dove dialoghi ed emozioni, provate dai personaggi e trasmesse agli spettatori, siano sinceri o invece frutto di una manipolazione. La domanda che sorge spontanea è: dove porta tutto ciò? Il fatto è che sembra poco chiaro anche al regista, che pare ricercare proprio il disorientamento. Però, che senso ha far recitare un attore in un contesto vero? Cosa aggiunge, inoltre, far fingere ai ragazzi il loro disagio (capita spesso che i non attori siano chiamati a ripetere alcuni ciak)? Non sarebbe sufficiente, e più onesto, captarlo, comunicarlo, imprimerlo nei fotogrammi, scegliendo chiaramente quale strada percorrere? Altrimenti la sensazione è che l’evolversi delle situazioni sia frutto di una mistificazione. Con ombre anche di furbizia, quando le storie tristi dei giovani studenti assumono i connotati della tv del dolore da cui, nelle intenzioni, l’opera vorrebbe prendere le distanze. Contradditorio è quindi l’aggettivo che subito viene in mente per definire il film. Valerio Mastandrea, l’attore italiano più sopravvalutato del momento, è l’improbabile professore di italiano.
Un lunedì ricco di stimoli si conclude e un martedì si appropinqua.
Ma non anticipiamo troppo gli eventi. In mezzo ci sta una bella dormita!
3 settembre 2013 (martedì)
#IMG#La giornata comincia malissimo (si fa per dire, cominciare con un film è sempre un privilegio) con Moebius di Kim Ki-duk. Il regista coreano deve tutto al festival di Venezia, perché con la presentazione de L’isola, nel 2000, è cominciata la sua notorietà internazionale. È sempre Venezia che gli attribuisce il Premio Speciale per la Regia nel 2004 per Ferro 3 – La casa vuota. Ed è ancora Venezia che trova il suo Pietà l’anno scorso meritevole del Leone d’Oro. Per me, e qui mi attirerò gli anatemi di tanti, è sempre stato piuttosto sopravvalutato, animato probabilmente da uno spirito di ricerca sincero, ma molto furbo nel mixare ad arte sesso e violenza in modo da garantirsi un riscontro mediatico che altrimenti le sue opere non avrebbero sicuramente avuto. Eppure i sostenitori, sopratutto in Italia, sono molti. Ecco, non rientro tra questi. Una volta chiarita la mia posizione constato l’ennesimo buco nell’acqua con Moebius, non privo di ambizioni puntualmente disilluse. L’originalità è nell’assenza di parole, compensate da una recitazione sovraccarica, e da una sceneggiatura ricchissima di eventi, una escalation di situazioni grevi e sopra le righe che purtroppo cadono immediatamente nel ridicolo involontario, anche perché il regista dimostra di prendersi molto sul serio. Ma l’accumulo, più che disturbare, stufa.
Ma ecco la trama nel dettaglio:
Lui ha un’amante. Il figlio vede il padre con l’amante. La moglie decide di evirare il marito, ma non riuscendoci, evira il figlio che si masturbava pensando all’atto sessuale consumato dal padre e ingoia il suo pene. Il Padre si fa rimuovere il pene chirurgicamente. Il figlio si innamora dell’amante del padre, partecipa ad uno stupro ai danni di lei e viene arrestato. Intanto il padre scopre un modo per procurarsi l’orgasmo infliggendosi dolore fisico e lo insegna al figlio. Il figlio, uscito di galera, torna dall’amante del padre e ha un rapporto con lei arrivando all’orgasmo facendosi accoltellare.
Quando finalmente il figlio si fa trapiantare il pene del padre (dopo aver evirato uno dei partecipanti allo stupro per avere il suo pene, che però finisce sotto un camion) scopre che riesce ad avere una erezione solo con la madre la quale accortasi che il marito ha ceduto il suo pene al figlio, lo masturba. A questo punto il padre cerca di evirare il figlio ma non riuscendoci ricorre al suicidio.
Il più brutto film di questo festival, almeno fino ad ora.
La giornata prosegue con un’opera che ha acceso il dibattito. Una lunga serie di fischi alla proiezione per la stampa in sala Darsena ha infatti accolto Under the Skin, tratto dall’omonimo romanzo di Michel Faber e diretto da Jonathan Glazer, celeberrimo regista di videoclip e pubblicità con all’attivo due incursioni nel cinema: Sexy Beast – L’ultimo colpo della bestia, nel 2000, e Birth – Io sono Sean, nel 2004. Under the Skin si può definire un progetto sperimentale. Più che il racconto in sé (il mondo visto attraverso occhi di un’aliena) conta lo stile e Glazer compie un approfondito percorso di ricerca. Intanto il film è stato girato in un contesto reale senza che le ignare comparse avessero modo di capire che si stava girando un film e questo crea una situazione di straniamento tra la protagonista Scarlett Johansson che intepreta l’aliena e l’universo in cui si muove. Finisce infatti per essere l’unico elemento falso in un contesto quanto mai vero. Definirlo film di fantascienza sarebbe fuorviante, si tratta più di un’opera spiazzante in grado di regalare squarci di inquietudine abbinati a momenti di bellezza (quando la seduzione si concretizza in una sorta di congelamento dei partner), dove la regia diventa liquida e straniante, grazie anche all’apporto di sonorità elettroniche non prive di fascino. Ciò che si può rimproverare all’opera è forse di non concedere nulla allo spettatore, impedendogli ogni coinvolgimento e costringendolo un po’ forzatamente alla cupezza degli sviluppi e della conclusione. Scarlett Johansson si butta con convinzione nel progetto, anche se non sempre convince. La sua presenza infiamma invece il festival. Finalmente una diva. L’oggettività la vuole piccolina, pienotta, un po’ piena di sé (dichiara “ho pensato ai ragazzini che selezionano i fotogrammi in cui compaio nuda e li mettono come sfondo nel computer”), insomma, sopravvalutata, eppure quando entra nella sala delle conferenze stampa, porta la luce. Gli occhi sono tutti per lei perché ha quel quid in più, (allure?) dato probabilmente anche dalla consapevolezza di essere diventata una star, che la rende luminosa e magnetica.
L’atmosfera perturbante continua nel pomeriggio con il recupero di The Sacrament, l’horror di Ti West che affonda le sue radici nella cultura americana.
Questa la storia, come da catalogo:
The Sacrament segue le vicende di due corrispondenti di VICE Media che sono in partenza per documentare il viaggio di un loro amico intenzionato a ritrovare la sorella scomparsa. I tre escono dagli Stati Uniti e si recano in una località segreta, dove sono accolti nel mondo di “Eden Parish”, un’utopia rurale che conta quasi duecento membri e vive di mezzi propri. Al centro di questa piccola comunità religiosa e socialista vi è un capo misterioso noto soltanto come il “Padre”. L’amico ritrova la sorella, ma i nuovi arrivati comprendono che questo paradiso forse non è ciò che sembra. Quella che per loro è iniziata come una ripresa documentaria diviene presto una corsa per salvare la propria vita.
Queste le intenzioni, in base alle dichiarazioni del regista, sempre dal catalogo:
La mia intenzione era di analizzare gli ultimi giorni di vita di un culto religioso creando un film di genere che fosse di un tenore elevato. È raro trovare film di questo tipo che vadano oltre il brivido dozzinale regolato sul denominatore comune più basso. Per me era importante ritrarre questi personaggi non come insensati e psicotici adepti di un culto, bensì come persone reali con cui è possibile relazionarsi, ma che, per varie ragioni, hanno scelto di affrontare la vita seguendo un percorso alternativo e controverso. Spero di aver creato un film che susciti paura e che, nel contempo, abbia un valore sociale, un film che stimoli il pubblico a riflettere profondamente sul contenuto.
E questo è il mio commento: siamo dalle parti dell’ennesimo mockumentary e il film sconta inevitabilmente l’usura di un sotto-genere nato con The Blair Witch Project e proseguito con innumerevoli emuli, di maggiore o minore successo. Tolto questo aspetto bisogna riconoscere che la regia di West mantiene desta l’attenzione creando una tensione crescente, inoltre non eccede nelle caratterizzazioni e dosa bene l’attesa, elementi fondamentali dato il genere. Un po’ più improbabile il finale, in cui, come quasi sempre accade quando si tratta di un mockumentary, i personaggi anziché pensare a salvarsi continuano imperterriti a riprendere non mollando la macchina da presa. L’originalità è nella scelta di codificare in un genere fatti realmente accaduti. Gli eventi, pur rielaborati, sono infatti riferiti al più grande suicidio di massa che la memoria ricordi, cioè il massacro di Jonestown: il pomeriggio del 18 novembre 1978, 913 uomini, donne, anziani e bambini che facevano parte del Peoples Temple, “Tempio dei Popoli”, morirono in una colonia agraria fondata vicino al paese di Port Kaituma, nel paese sudamericano della Guyana. Il Tempio dei Popoli era il culto che si era sviluppato intorno al predicatore statunitense Jim Jones. Quello del 18 novembre del 1978 è ancora adesso considerato il più grosso suicidio di massa della storia moderna.
E per concludere la giornata un tuffo nel passato con Capitan Harlock, il reboot del celebre personaggio creato da Leiji Matsumoto. Confesso, che il primo pensiero dopo averlo visto è stato: “Che gatta da pelare si è presa la Lucky Red con questo film cupo e noiosetto che deluderà i fan dell’originale e non permetterà alle nuove generazioni di avvicinarsi”. Poi, dopo gli sfoghi di pancia, la razionalità ha avuto la meglio ridimensionando il giudizio. Se il reebot non entusiasma è comunque fatto con grande cura. Non a caso il regista è un tecnico, Shinji Aramaki, considerato il più esperto e migliore regista giapponese di animazione in computer grafica e votato da Mtv tra i “Top 11 registi viventi di anime”. La delusione deriva soprattutto dall’avere amato i cartoni animati che movimentavano i pomeriggi di chi era giovane giovane negli anni ’70 / ’80, infatti, nella nuova versione per il grande schermo, Capitan Harlock è sì anticonformista, ma la storia è completamente diversa. Inoltre la trama è davvero inutilmente complicata, resa ancora più complessa da una sceneggiatura verbosa dove i diaologhi si sforzano di dare spiegazioni che comunque non soddisfano. Resta la resa visiva, valorizzata dal 3D, e non è poco, grazie anche a sequenze action ben costruite e coinvolgenti, ma da un film che si preoccupa di imporre un personaggio per le nuove generazioni in grado di resistere ben più delle canoniche tre settimane di durata commerciale nelle sale, era lecito attendersi qualcosa di più di un compito formalmente ineccepibile. Vedremo come si comporterà in Giappone, dove l’uscita è imminente, e in Italia, dove la Lucky Red lo ha collocato nella magica data del 1° gennaio, solitamente di buon auspicio per i film.
E per concludere, un film che, a giudicare dagli applausi che haricevuto, sembra sia piaciuto a tutti e invece mi ha deluso: Still Life di Uberto Pasolini. L’approccio è minimale e si tuffa nella quotidianità inglese di un impiegato comunale, solo e introverso, che ha il compito di organizzare il funerale di persone morte in solitudine. La sua attività consiste nel ricercare i parenti, predisporre gli elogi funebri, scegliere le musiche più adatte all’occasione. Per John, questo il suo nome, più che un lavoro è una ragione di vita e nel riscatto dei meno fortunati mette molta della sua solitudine esistenziale, trovando un modo per dare un senso alla sua vita. Il problema nasce quando John viene licenziato per una politica di razionalizzazione delle risorse comunali. A John crolla inevitabilmente il mondo addosso, ma non demorde e mette nell’ultimo caso che gli è capitato tutto l’impegno possibile per svolgere ancora un’ultima volta al meglio il suo lavoro. Se si apprezza la gentilezza del tocco, si finisce presto per sopportare a fatica la carineria/ruffianeria dell’impianto, tanto efficace quanto fasulla. Ed è questo il problema maggiore dell’opera: non si crede un solo secondo a questo uomo tutto d’un pezzo di cui la furba sceneggiatura sceglie solo di mostrare le luci spacciandole per penombra. Per tacere del finale ricattatorio e punitivo in cui l’apertura alla vita del protagonista viene sadicamente stroncata. Tutto decisamente troppo forzato e gratuito per indurre a una commozione sincera. Eppure in molti hanno gradito.
Che dire, il bello del cinema. La capacità di parlare a un pubblico ampio toccando differenti sensibilità in modo diverso.
E dopo questo sfoggio di antica saggezza è tempo di riposare per affrontare il secondo e ultimo mercoledì di festival. Ormai la fine del festival si avvicina, ma non è ancora tempo di bilanci.
4 settembre 2013 (mercoledì)
Oggi, come spesso accade in mezzo alla settimana in prossimità della fine del festival, giornata tranquilla, priva di grandi eventi, nonostante la presenza di due film abbastanza attesi in Concorso: il secondo film italiano, L’intrepido di Gianni Amelio, e il documentario di Errol Morris The Unknown Known.
#IMG#Entrambi abbastanza deludenti, soprattutto Amelio. Peccato, perché L’intrepido parte sotto i migliori auspici, con un ottimo Antonio Albanese che diventa uno, nessuno, centomila per provare a sopravvivere in una Milano contemporanea lontana dai grandi eventi ma immersa in una grigia quotidianità. Eppure il forte potenziale del protagonista rimane tale e non si concretizza in una maschera tragicomica in grado di lasciare il segno. Albanese è bravo, il suo Antonio Pane che si arrabatta nei mestieri più diversi per trovare un senso e non soccombere nell’inattività è quanto mai attuale. Ciò che manca è un contorno credibile e di reale supporto: gli altri personaggi sono caratterizzati in modo schematico, la sceneggiatura è gravata dal peso di continue didascalie, la grevità brucia la freschezza delle premesse, il patetico pare un (in)evitabile approdo, il sentimentalismo è ricattatorio, i dialoghi escono malconci dalle pagine della sceneggiatura e dalla bocca dei personaggi diventano una spiegazione più che l’elaborazione di un disagio. Un film quindi fatto di lodevoli intenzioni che, però e purtroppo, restano tali. Vedremo come si comporterà nelle sale in concomitanza con il festival. Le speranze che possa conquistare la Giuria sono poche, l’accoglienza critica è stata tiepida, forse è piaciuto più a livello internazionale che alla stampa italiana, in ogni caso si tratta di un’opera che entrerà rapidamente nel dimenticatoio.
L’altro film in concorso è The Unknown Known di Errol Morris. Ma vediamo cosa ci racconta il catalogo al riguardo:
Un avvincente ritratto di Donald Rumsfeld, uno dei grandi architetti della guerra in Iraq. Rumsfeld entra in scena come scrittore/attore della propria vita leggendo una scelta dei suoi “fiocchi di neve”, le decine di migliaia di appunti annotati nel periodo in cui fu membro del Congresso, consigliere di quattro diversi presidenti e per due volte segretario della Difesa. Il Rumsfeld scrittore è deciso, filosofico e amante delle massime e delle regole; il Rumsfeld attore non è meno controllato di quanto lo fosse durante le sue virtuosistiche conferenze stampa a proposito del conflitto iracheno, e altrettanto provocatorio. La sua visione del mondo è imperativa e sicura di sé: “La vera pace può venire soltanto dalla forza militare”. Sebbene Rumsfeld ricopra da ormai mezzo secolo elevati incarichi politici nell’amministrazione americana, la maggior parte della gente sa ben poco di lui. Quando egli scrisse, all’interno della sua più famosa meditazione, che il “noto ignoto” sono quelle cose che pensiamo di conoscere ma che poi scopriamo di non conoscere, tale affermazione poteva ben essere un valido riferimento a se stesso. The Unknown Known non vuole essere un’altra autopsia della guerra in Iraq, bensì il chiarimento di un mistero, un noto ignoto. E quando arriviamo alla sorprendente conclusione del film, appare evidente che Rumsfeld è, per certi versi, sconosciuto a se stesso tanto quanto lo è a noi.
La domanda che ricorre al festival è: perché il documentario di Morris ha deluso? La domanda è semplice, la risposta meno. Errol Morris, infatti, non sottovaluta lo spettatore e lo lascia libero di interpretare ciò che vede in base alla propria sensibilità e alla propria conoscenza dei fatti. Ciò che lo spettatore – forse più superficiale e, diciamolo, ignorante (nel senso che non conosce i fatti così bene) – si aspettava era un punto di vista più forte, delle domande più provocatorie, un’etica più evidente. Insomma, lo spettatore voleva vedere Rumsfeld in ginocchio mentre la sensazione è che ne esca quasi vincitore, comunque a testa alta. Poi, probabilmente come dicevo, tutto ciò dipende dagli occhi di chi guarda, però un aiutino da parte di Morris non avrebbe guastato.
Intanto ci sono già i primi rumors sul verdetto della Giuria. A proposito, della composizione della Giuria non abbiamo ancora parlato. Quella che attribuirà il Leone d’Oro è presieduta da Bernardo Bertolucci e include Andrea Arnold, Renato Berta, Carrie Fisher, Martina Gedeck, Jiang Wen, Pablo Larraín, Virginie Ledoyen e Ryuichi Sakamoto.
Già che ci siamo ecco anche la Giuria di Orizzonti. Il Presidente è il regista Paul Schrader, mentre i membri sono Catherine Corsini, Leonardo Di Costanzo, Golshifteh Farahani, Frédéric Fonteyne, Kseniya Rappoport e Amr Waked.
Tornando ai rumors, pare che l’orribile film greco Miss Violence sia piaciuto a Bertolucci, e dato il suo carisma e la sua oratoria persuasiva sarà difficile trovarlo escluso dal palmares. Quanto alle attrici, a gran voce si fa il nome di Judi dench, splendida Philomena nell’omonimo film di Frears. Più dubbi sull’attore, Albanese è bravo ma il film non ha sufficiente forza per imporsi, c’è chi fa il nome di Scott Haze, protagonista del film di james Franco Child of God che non ho (volutamente) visto, ma attirerebbe forse troppa luce su un film che pare il parto di un artista che fa tante cose, forse troppe, scagliandole sull’incolevole spettatore che poi se le deve pure sorbire.
Vedremo il da farsi, anche perché in cartellone ci sono comunque ancora titoli forti. Se poi siano in grado di folgorare è tutto un altro discorso.
Intanto una giornata tutto sommato abbastanza riposante come quella odierna si è conclusa con un film decisamente superfluo, Une Promesse di Patrice Leconte, su cui forse è inutile stare pure a disquisire. Una di quelle opere co-produttive (Francia / Belgio) nate da esigenze commerciali, e questo non sarebbe neanche un male, ma che lì si ferma, nel senso che non esce da una etichetta di film per signore in attesa del tea pomeridiano. La scelta è evidente dalla lingua parlata. Siamo in Germania ma tutti dissertano amabilmente in inglese. Peccato che il melodramma latiti, la passione resti nelle intenzioni e il risultato, questo l’aspetto peggiore, non funzioni. Questa la trama, come da catalogo:
Germania, 1912. Un giovane laureato di umili origini viene assunto in un’acciaieria. Grazie alle sua capacità si guadagna la fiducia dell’anziano e malato proprietario che lo sceglie come segretario personale. Lavorando spesso a casa del padrone il ragazzo ha occasione di conoscere la giovane moglie del padrone, bella e riservata. Ben presto nasce tra loro un’intesa fatta solo di sguardi e di silenzi, ma quando il giovane si trova costretto a recarsi in Messico per affari, la donna gli rivela il proprio amore e gli promette che al ritorno sarà sua. Separati dall’Oceano i due innamorati si scambiano lettere appassionate. Ma scoppia la prima guerra mondiale e i collegamenti tra Europa e Sud America sono interrotti. Trascorrono otto anni, milioni sono i morti a causa della guerra, l’Europa è in rovina. Il giovane torna in Patria. L’amore sarà sopravvissuto al passare del tempo?
L’origine è letteraria (il romanzo breve romanzo “Il viaggio nel passato”, di Stefan Zweig), ma la trasposizione non funziona da nessun punto di vista. il cast è inappropriato, con due personaggi, e due attori (Rebecca Hall e Richard Madden) privi di qualunque alchimia, la ricostruzione storica è approssimativa, la passione inespressa non gode di una sceneggaitura in grado di valorizzare il non detto, che sarebbe la vera trovata rivoluzionaria di un’opera che fa dell’amore platonico il suo punto di forza. Invece i fatti si limitano ad accadere, senza lasciare alcuna traccia nelle emozioni.
Eppure ho sentito una giornalista in ascensore parlare al telefono e dire che aveva visto un film bellissimo con attori strepitosi…il bello del cinema è la pluralità di pareri, continuo a ripeterlo, a tutto c’è un limite però..
5 settembre 2013 (giovedì)
Il giorno di Tsai Ming_liang e dell’ultimo film italiano in concorso. Oltre al nuovo Garrel. Come sempre procediamo per gradi.
Stray Dogs, questo il titolo del film di Tsai Ming-Liang, questa la durata (138 minuti) e questa la trama, pardon, sinossi (suona più forbito):
Un uomo e i suoi due figli vagano ai margini della moderna Taipei, dai boschi e fiumi della periferia alle strade bagnate di pioggia della città. Di giorno il padre racimola una misera paga come uomo sandwich per appartamenti di lusso, mentre i due bambini sopravvivono con campioni gratuiti di cibo in giro per i supermercati e i centri commerciali. Ogni sera la famiglia trova riparo in un edificio abbandonato. Il padre è stranamente colpito da un’ipnotica immagine murale che decora la parete di questa casa improvvisata. Nel giorno del suo compleanno una donna si unisce alla famiglia: potrebbe essere lei la chiave per far emergere le emozioni sepolte che aleggiano dal passato?
Come sempre nei film di Tsai Ming_liang la trama non è poi così fondamentale, vediamo le note di regia:
Non c’è una storia da raccontare. Hsiao-kang è un buono a nulla, che si guadagna da vivere reggendo cartelloni pubblicitari. Fuma e piscia in strade costantemente percorse da veicoli e passanti. Le uniche presenze nella sua vita sono i suoi due bambini. Mangiano, si lavano i denti, si cambiano e dormono insieme. Non hanno acqua né elettricità e dormono sullo stesso materasso con una verza, abbracciandosi stretti l’uno con l’altro. Tutta la città è diventata una discarica per cani randagi. E il fiume è lontano, molto lontano. Poi, una notte di tempesta, l’uomo decide di portare i figli a fare un giro in barca a vela.
Che dire, Tsai Ming_liang è fedele al suo stile che si può definire, rarefatto, liquido, ipnotico. Ha innegabilmente un suo fascino, e anche una sua potenza visiva, però, davvero, un film come Stray Dogs non ha nulla da aggiungere a una poetica che si è esaurita in fretta. La sensazione è che dopo Vive l’Amour (Leone d’Oro a Venezia 51) Tsai Ming_liang non avesse poi molto altro da dire e i film successivi si sono limitati a rimestare nel noto. Poi, fa una certa tenerezza vedere giovani e giovanissimi entusiasmarsi per una cosa che probabilmente rompe schemi, ma chi quegli schemi li ha già visti rompersi ha un entusiasmo per forza di cose inferiore. Con tutto il rispetto per un regista che ha uno stile riconoscibile che ha fatto scuola, ma che non sembra avere più molto da dire se non ribadire la propria visione.
Ed è poi giunto il tempo di Sacro Gra, il documentario di Gianfranco Rosi sul raccordo anulare di Roma di cui si parla da giorni in tutti i media. Una scelta da parte del direttore Alberto Barbera, quella di sdoganare il documentario come forma meritevole del concorso, che ha attirato le riflessioni della stampa e, quindi, i riflettori sul festival.
Purtroppo neanche il documentario di Rosi mi ha convinto. Così, a caldo, ho avuto la sensazione che mancasse di omogeneità e unità tematica. Il mio primo pensiero è stato: ma come, il Grande Raccordo Anulare circonda Roma per 64 chilometri, conta 31 uscite e ha un diametro medio di circa 21 chilometri, è percorso ogni giorno da circa 160 mila veicoli, e allora perché lo sguardo è così parziale? Perché Rosi si sofferma solo sui borderline, sui freaks, sulle bizzarrie, sulle stranezze, sul pittoresco? La scelta sembra un po’ furba perché la prima risposta a cui si pensa è ”perché i margini sono più fotogenici” quindi, si presume, più artistici, o pseudo tali. Però è anche vero che ai margini si scivola ed è ciò che accade a Sacro Gra, gravato dal peso di macchiette che non si capisce perché più rappresentative di altre nel connotare un luogo. Tra l’altro la sensazione è che in più di un’occasione tutto sia costruito a tavolino. E allora che senso ha riprenderlo e proporlo al pubblico? Cosa aggiunge? Cosa dice del luogo? Purtroppo poco.
Pomeriggio all’insegna del cinema di genere in un felice connubio che non dimentica la geografia e la cultura dei luoghi in cui è ambientato. Si tratta di Traitors, di Sean Gullette, nato a Boston ma trasferitosi in Marocco per seguire gli affetti. Narra la leggenda, e pare sia vero, che sia uno storico collaboratore di Darren Aronofsky. Traitors è la sua opera di debutto e passa abilmente dalla commedia al thriller immergendo il racconto nelle contraddizioni del suo paese. Protagonista è una ragazzina ribelle, front girl di una band punk rock. Per pagare lo studio di registrazione che potrebbe cambiare il destino del gruppo accetta più di un compromesso e si trova invischiata in un pericoloso traffico criminale. Colpisce la capacità di Gullette di mantenere una visione organica pur spaziando tra generi differenti. Un buon esempio di intrattenimento non fine a se stesso, con una protagonista, la carismatica Chaimae Ben Acha, che buca lo schermo. Apprezzabile anche la scelta di non cedere al greve, nonostante la plausibilità scricchioli in più di un’occasione.
La giornata termina con Philippe Garrel e il suo La Jalousie, film che ha entusiasmato la solita cricca cinefila ma si è aperto un varco anche tra i meno snob. In realtà è la solita riflessione autoreferenziale di un artista che, forse come tutti i grandi, continua a girare lo stesso film di sempre. Meglio dell’ultimo in concorso con Monica Bellucci (non ricordo neanche il titolo), ma senza molto da dire o aggiungere al noto.
Questa la trama:
Un trentenne vive in affitto, con una donna, in un miniappartamento ammobiliato. Stanno vivendo una storia d’amore. L’uomo ha una figlia nata da una relazione con un’altra donna che poi lui ha lasciato. Naturalmente egli vede la figlia, la cui madre, tuttavia, vive da sola con la bambina e deve lavorare per mantenerla perché il suo ex non le passa niente. L’uomo, che fa l’attore – attore di teatro – è a sua volta molto povero. E ora è follemente innamorato della nuova compagna, anche lei attrice, ma senza lavoro. Un tempo la donna era una stella nascente, ma le offerte di ruoli sono poi venute a mancare. L’uomo fa l’impossibile per procurarle una parte, ricorrendo alle sue conoscenze nell’ambiente. Ma tutto è inutile. La donna, intanto, lo tradisce. Viene a trovarlo nel miniappartamento, poi dice di non sopportare più quel luogo e se ne va. L’uomo si spara un colpo al petto, ma la pistola gli sfugge di mano e, invece di colpire il cuore mortalmente, la pallottola gli perfora il polmone sinistro. All’ospedale giunge la sorella a fargli visita e rimane accanto a lui. È questa sorella tutto ciò che gli rimane. Questa sorella e il teatro.
Questo, invece, il commento del regista, che probabilmente aiuta a far senso sul senso del film:
L’idea alla base di questo film è di far recitare mio figlio Louis nella veste di suo nonno all’età di trent’anni – la stessa età che Louis ha oggi – sebbene la vicenda sia ambientata nel presente. Il film racconta la relazione che mio padre ebbe con una donna quando io ero bambino (nella finzione filmica sono una bambina) e l’impegno di farmi crescere gravava sulle spalle di mia madre. Ammirando l’amante ho fatto inconsciamente ingelosire la mia madre esemplare. Ecco l’origine storica di questo film contemporaneo: mio figlio che interpreta mio padre quando quest’ultimo aveva trent’anni.
Che dire, aspetti positivi ce ne sono: un bianco e nero splendido, finalmente Anna Mouglalis co-protagonista (che voce roca meravigliosa), ma siamo sempre dalle parti di un cinema autoreferenziale poco empatico e compiaciuto delle sue problematiche che finiscono per coinvolgere il regista, suo figlio e nessun altro.
Ah, tra i pregi dimenticavo la durata: solo 77 minuti.
E con lo sguardo caustico e le parole affilate vado a mangiare qualcosa. Anche dove a dominare sono i sogni, bisogna pur nutrirsi.
6 settembre 2013 (venerdì)
#IMG#Ultimo giorno prima del verdetto e impazza il toto-leone. Pare certa la vittoria in qualche categoria di Miss Violence, perché all’hotel Excelsior è stata vista la delegazione al completo, quindi sono stati richiamati e ciò significa premio assicurato. Per il resto è nebbia fitta. Film interessanti ce ne sono stati, ma nessun colpo di fulmine. Il pubblico ha adorato Philomena, ma la vittoria del film più tradizionale penalizzerebbe un festival d’arte. Come abbiamo avuto modo di lasciare intendere, se vince Philomena perde il festival, Bertolucci queste cose le sa, quindi a Philomena andrà al massimo un premio di consolazione. Cominciamo subito con i premi. A dopo per i commenti. Che dire, totale disaccordo con la Giuria. Sacro Gra non è del tutto riuscito, Miss Violence è il più brutto del concorso (e ha vinto addirittura due premi), Tsai Ming-Liang ha fatto il suo ”solito” film. Mi manca Via Castellana Bandiera, ma il premio a Elena Cotta ha stupito davvero tutti. Philomena ha avuto il previsto contentino per la sceneggiatura. E per concludere tirando le somme? Complimenti a Barbera per avere comunque cercato il meglio in circolazione. Non facile, soprattutto con la spada di Damocle di Toronto che comincia a festival di Venezia ancora in corso e comporta il fuggi fuggi della stampa internazionale dopo il primo week-end. Peccato per l’assenza di 12 anni schiavo, in prima mondiale a Toronto, e per alcuni nomi (Jonze?) che avrebbero potuto riequilibrare un concorso un po’ sottotono. In parte coraggioso, ma anche privo di film in grado di suscitare l’entusiasmo. Non è nato un nuovo autore in grado di imporsi negli anni a venire. Ma questo, come al solito, sarà il tempo a deciderlo. Per ora la più grande curiosità è scoprire se Gravity, che ha aperto con entusiasmo il festival, conquisterà il mondo oppure no. Secondo me ne risentiremo parlare agli Oscar, quindi un po’ di mondo lo conquisterà di sicuro. Luca Baroncini PHILOMENA 9 Dal nostro inviato Vito Casale Il vero capolavoro del festival di Venezia insieme a Locke, è Gravity di Alfonso Cuaron. Bravissimi i selezionatoria portarlo al Lido. Vito Casale È trascorso poco più di un mese dalla presentazione fuori concorso alla Mostra Internazionale D’Arte Cinematografica e per Gravity è venuto il momento di confrontarsi con il box office nostrano. Scelto per l’apertura della 70esima edizione della kermesse veneziana, il nuovo film di Alfonso Cuarón atterra nelle sale italiane a partire dal 3 ottobre, con un numero ingente di copie messe a disposizione dalla Warner. È proprio il caso di parlare di atterraggio per l’ultima fatica dietro la macchina da presa del regista messicano, un techno-thriller più che uno Sci-Fi vero e proprio (non è fantascienza pura, non è ambientato nel futuro e la tecnologia mostrata è quella attuale), per il quale ci sono voluti la bellezza di cinque anni per portarlo a termine, viste le non poche difficoltà incontrate lungo la complessa lavorazione, che ha visto il progetto passare dalla Universal alla produzione rivale, un tira e molla nella scelta della coppia protagonista (prima di quella formata da George Clooney e Sandra Bullock, si erano fatti i nomi di Robert Downey Jr. e una tra Angelina Jolie o Natalie Portman), ma soprattutto l’utilizzo di una tecnologia di ripresa che alla genesi del progetto era ancora in fase di sperimentazione. Poi è arrivato Jeff Linnel e il suo staff con il robot Iris a togliere le castagne dal fuoco, perché il suddetto problema tecnico rappresentava l’ostacolo più arduo da superare per potere realizzare un film particolarmente impegnativo come Gravity. L’hardware messo appunto permetteva, infatti, alla coppia di interpreti di galleggiare nello spazio a zero-g, ossia in assenza di gravità, e al regista di filmare la scena con lo stile che più predilige, ossia la ripresa in continuità senza interruzioni come ampiamente dimostrato nei pirotecnici piani sequenza visti ne I figli degli uomini. Questo perché Iris, con l’ausilio di un braccio meccanico calibrato al millesimo, consente di muovere la cinepresa con una precisione prima possibile solo per l’animazione. Voto: 7 e ½ Francesco Del Grosso #IMG#Gravity è un bel film. Da vedere per gli effetti speciali e le immagini donate dalla NASA a Cuarón, un regista interessante, che ha costruito una storia a metà strada fra il documentario d’autore e il film d’avventura che coinvolge fino alla fine. Entrambi gli interpreti, Sandra Bullock e George Clooney, stanno al gioco lasciando spazio alle immagini e ad una narrazione che corre sul filo dell’adrenalina. La trama è semplice: due astronauti, appunto Bullock e Clooney, dopo una pioggia di meteoriti che viaggiano ad una velocità pazzesca, sono alla deriva nello spazio con poco ossigeno e poche speranze di farcela. Combatteranno fino alla fine, per sopravvivere utilizzando il loro addestramento e il loro coraggio in una situazione che si complica anche dopo il passaggio dei meteoriti. Molti hanno criticato le imprecisioni scientifico-tecniche sul comportamento degli astronauti e non so su che altro. Non è così importante essere precisi se, come in questo caso, il film funziona, diverte e coinvolge, lasciando agli spettatori solo qualche amara conclusione sulla difficile esistenza degli esseri umani alle prese con uno spazio totalmente ostile al desiderio di conoscerlo. Voto: 7 e ½ Fulvio Caporale
Oggi è calma piatta. Ultimo film in concorso è Les Terrasses, opera algerina di Merzak Allouache, ma non riuscirò a vederlo.
Data la poca concorrenza ottiene una buona visibilità, e se distribuito con lungimiranza potrà conquistare ottimi riscontri anche nelle sale, La prima neve di Andrea Segre. È un film che punta dritto al cuore e centra il bersaglio senza troppe sbavature. La storia è incentrata sul rapporto tra Dani, un giovane libico in fuga dalla guerra del suo paese, e il piccolo Michele, un bambino di 10 anni, figlio della vedova che lo ospita in un piccolo paese ai piedi della valle dei Mocheni, in Trentino. Il bambino è rimasto da poco senza il padre e gli manca una figura maschile di riferimento con cui confrontarsi e a cui aggrapparsi nel difficile cammino di crescita. L’incontro tra le due solitudini permetterà di stabilire un legame profondo. Andrea Segre conferma la sua capacità di scavo antropologico in grado di dare verità ai personaggi. Finalmente un film non ambientato in Puglia, ma in un nord Italia poco frequentato dal cinema e mostrato senza la retorica con cui le piccole comunità vengono spesso tratteggiate e con grande attenzione alla veridicità dei dettagli, a partire dalla lingua utilizzata. Un altro aspetto che colpisce favorevolmente è l’assenza di una tesi da dimostrare. Non c’è il povero negro vessato in cerca di redenzione, ma un personaggio problematico con esigenze, colpe e virtù. Un uomo a tutto tondo, quindi, che non certa sconti narrativi per diventare il simbolo di qualcosa. Altro punto a favore del film, e qui si vede il passato da documentarista di Segre, l’importanza della natura nel connotare umori e atmosfere. Sono infatti le stagioni a scandire il racconto e a far risaltare stati d’animo e non detti. A limitare un po’ l’entusiasmo il difetto, comune a tanto cinema italiano, di voler spiegare tutto senza lasciare ombre in grado di schiarirsi nel punto di vista dello spettatore. Ma l’insieme risulta comunicativo e in grado di scaldare il cuore. Può sembrare poco ma non lo è.
Il resto della giornata è dedicato ai recuperi di film presentati a inizio festival. Tocca al delicato Gerontophilia di Bruce LaBruce, sul rapporto affettivo tra un adolescente e un ottantenne, interessante e privo di pregiudizi (forse un po’ compiaciuto della tematica affrontata), e poi al documentario Ukraina Ne Bordel, sul fenomeno mass-mediatico delle Femen, il movimento femminista che ha suscitato scalpore per le sue manifestazioni in topless (anche questo interessante).
È poi la volta del documentario Amazonia 3D di Thierry Ragobert, che racconta il polmone verde più esteso del mondo attraverso gli occhi di una scimmia cappuccina nata e cresciuta in cattività che, a causa di un incidente aereo, si ritrova ad affrontare un ambiente sconosciuto e irto di pericoli. Impianto spettacolare, 3D immersivo, fine didattico e andamento pedestre. È il film che domani sera, dopo la premiazione, concluderà il festival. Come al solito in pochi lo vedranno perché è il momento in cui i festeggiati, giustamente, festeggeranno, ma biglietti gratuti distribuiti da un giornale locale garantiranno comunque il tutto esaurito in Sala Grande.
Ultima sera prima della premiazione. Chi vincerà? Tra p #IMG# 7 settembre 2013 (sabato)
La Giuria di Venezia 70, presieduta da Bernardo Bertolucci e composta da Andrea Arnold, Renato Berta, Carrie Fisher, Martina Gedeck, Jiang Wen, Pablo Larraín, Virginie Ledoyen, Ryuichi Sakamoto dopo aver visionato tutti i 20 film in concorso, ha deciso di assegnare i seguenti premi:
LEONE D’ORO per il miglior film a:
SACRO GRA di Gianfranco Rosi (Italia, Francia)
LEONE D’ARGENTO per la migliore regia a:
Alexandros Avranas per il film MISS VIOLENCE (Grecia)
GRAN PREMIO DELLA GIURIA a:
JIAOYOU di Tsai Ming-liang (Taipei cinese, Francia)
COPPA VOLPI
per la migliore interpretazione maschile a:
Themis Panou nel film MISS VIOLENCE di Alexandros Avranas (Grecia)
COPPA VOLPI
per la migliore interpretazione femminile a:
Elena Cotta nel film VIA CASTELLANA BANDIERA di Emma Dante (Italia, Svizzera, Francia)
PREMIO MARCELLO MASTROIANNI
a un giovane attore o attrice emergente a:
Tye Sheridan nel film JOE di David Gordon Green (Usa)
PREMIO PER LA MIGLIORE SCENEGGIATURA a:
Steve Coogan e Jeff Pope per il film PHILOMENA di Stephen Frears (Regno Unito)
PREMIO SPECIALE DELLA GIURIA a:
DIE FRAU DES POLIZISTEN di Philip Gröning (Germania)
LEONE DEL FUTURO – PREMIO VENEZIA OPERA PRIMA
(LUIGI DE LAURENTIIS)
La Giuria Leone del Futuro – Premio Venezia Opera Prima (Luigi De Laurentiis) della 70. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, presieduta da Haifaa Al Mansour e composta da Amat Escalante, Alexej German Jr., Geoffrey Gilmore, Ariane Labed, Maria Sole Tognazzi, assegna il:
LEONE DEL FUTURO – PREMIO VENEZIA OPERA PRIMA (LUIGI DE LAURENTIIS) a:
WHITE SHADOW di Noaz Deshe (Italia, Germania, Tanzania)
SETTIMANA INTERNAZIONALE DELLA CRITICA
nonché un premio di 100.000 USD, messi a disposizione da Filmauro di Aurelio e Luigi De Laurentiis, che saranno suddivisi in parti uguali tra il regista e il produttore.
PREMI ORIZZONTI
La Giuria Orizzonti della 70. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, presieduta da Paul Schrader e composta da Catherine Corsini, Leonardo Di Costanzo, Golshifteh Farahani, Frédéric Fonteyne, Kseniya Rappoport, Amr Waked, dopo aver visionato i 31 film in concorso, assegna:
il PREMIO ORIZZONTI PER IL MIGLIOR FILM a:
EASTERN BOYS di Robin Campillo (Francia)
il PREMIO ORIZZONTI PER LA MIGLIORE REGIA a:
Uberto Pasolini per STILL LIFE (Regno Unito, Italia)
il PREMIO SPECIALE DELLA GIURIA ORIZZONTI a:
RUIN di Michael Cody e Amiel Courtin-Wilson (Australia)
il PREMIO SPECIALE ORIZZONTI PER IL CONTENUTO INNOVATIVO a:
MAHI VA GORBEH di Shahram Mokri (Iran)
il PREMIO ORIZZONTI PER IL MIGLIOR CORTOMETRAGGIO a:
KUSH di Shubhashish Bhutiani (India)
PREMI VENEZIA CLASSICI
la Giuria composta da studenti di cinema provenienti da diverse Università italiane: 28 laureandi in Storia del Cinema, indicati dai docenti di 13 DAMS e della veneziana Cà Foscari, ha deciso di assegnare i seguenti premi:
PREMIO VENEZIA CLASSICI PER IL MIGLIOR DOCUMENTARIO SUL CINEMA a:
DOUBLE PLAY: JAMES BENNING AND RICHARD LINKLATER di Gabe Klinger (Usa, Portogallo, Francia)
PREMIO VENEZIA CLASSICI PER IL MIGLIOR FILM RESTAURATO a:
LA PROPRIETÁ NON È PIÙ UN FURTO di Elio Petri (Italia, Francia)
EUROPEAN SHORT FILM AWARD 2013 – EFA a:
HOUSES WITH SMALL WINDOWS di Bülent Öztürk (Belgio)
LEONE D’ORO ALLA CARRIERA 2013
William Friedkin
JAEGER-LECOULTRE GLORY TO THE FILMMAKER
Ettore Scola
PREMIO PERSOL
Andrzej Wajda
PREMIO L’ORÉAL PARIS PER IL CINEMA
Eugenia Costantini
Dal Lido, anche per quest’anno, è tutto. È stato interessante condividere questo spazio su Centraldocinema con voi e l’invito è di continuare a leggere e parlare di cinema il più possibile. Buone visioni, quindi, a tutti!! Le pagelle
Fuori Concorso – GRAVITY 9
Fuori Concorso – LOCKE 8
Orizzonti – STILL LIFE 8
CHILD OF GOD 7,5
TRACKS 7,5
UNDER THE SKIN 7,5
VIA CASTELLANA BANDIERA 7,5
DIE FRAU DES POLIZISTEN 7
MISS VIOLENCE 7
THE UNKNOWN KNOWN 7
Fuori Concorso – HARLOCK: SPACE PIRATE 7
Fuori Concorso – UKRAINA NE BORDEL (UKRAINE IS NOT A BROTHEL) 7
Fuori Concorso – YURUSAREZARU MONO (UNFORGIVEN) 7
ANA ARABIA 6,5
ES-STOUH (LES TERRASSES) 6,5
KAZE TACHINU (The Wind Rises) 6,5
SACRO GRA 6,5
TOM À LA FERME 6,5
Fuori Concorso – MOEBIUS 6,5
Fuori Concorso – WOLF CREEK 2 6,5
Orizzonti – LA VIDA DESPUÉS 6,5
Orizzonti – THE SACRAMENT 6,5
JOE 6
LA JALOUSIE 6
NIGHT MOVES 6
THE ZERO THEOREM 6
Fuori Concorso – DISNEY MICKEY MOUSE ‘O SOLE MINNIE 6
Fuori Concorso – PINE RIDGE 6
Fuori Concorso – THE CANYONS 6
Fuori Concorso – UNE PROMESSE 6
Orizzonti – IL TERZO TEMPO 6
Orizzonti – JIGOKU DE NAZE WARUI (WHY DON’T YOU PLAY IN HELL?) 6
Orizzonti – PICCOLA PATRIA 6
Settimana della critica – WHITE SHADOW 6
Giornate degli Autori – RIGOR MORTIS 6
PARKLAND 5,5
L’INTREPIDO 5
Settimana della critica – SHUIYIN JIE (TRAP STREET) 5
JIAOYOU (STRAY DOGS) 4
Fuori Concorso – SUMMER 82 WHEN ZAPPA CAME TO SICILY Gravity
Un film epocale che segnerà un nuovo standard visivo nella storia del cinema e non solo del genere “fantascientifico”.
La traam è semplicissima, gli astronauti Ryan Stone e Matt Kowalsky lavorano ad alcune riparazioni di una stazione orbitante nello spazio quando si scatena una tempesta di detriti. L’impatto è devastante, distrugge la loro stazione e li lascia a vagare nello spazio nel disperato tentativo di sopravvivere e trovare una maniera per tornare sulla Terra.
il film presenta un 3d letteralmente da urlo, che rapisce lo spettatore portandolo direttamente nello spazio sopra la terra, mai cosi lontana mai cosi vicina, in un susseguirsi di emozioni al limite e oltre la verosimiglianza scientifica. Il film infatti può essere definito una sorta di thriller spaziale, con risvolti parascientifici.
Anni di lavorazione a attori messi a dura prova in particolare Sandra Bullock qui eccellente nel ruolo dell’astronauta improvvisata, ma non troppo, che legge manuali in cinese e in cirillico.
Per Cuaròn lo spazio può essere molte faccie di uno stesso specchio, quindi allo stesso modo il suo film può essere sia un blockbuster sia un’opera che cerca di toccare la profondità dell’animo umano, con una sceneggiatura densa di dialoghi e basata sulla recitazione (come un film indipendente d’azione) ma con l’utilizzo di tecnologie avanzatissime.
Piu che un film di fantascienza, una meravigliosa avventura umana, la lotta dell’uomo contro la natura, che ci rimanda per certi versi all’epica di Herzog in Aguirre Furore di Dio. Alla deriva
Il risultato è di quelli che, almeno tecnicamente, non può lasciare indifferente nemmeno lo spettatore più esigente, al quale viene servita sul grande schermo un’esperienza sensoriale prima che cinematografica, che riporta alla mente quella offerta da Zemeckis nel suo Contact. Basta, infatti, il sorprendente e spettacolare piano sequenza con il quale Cuarón apre questa odissea galattica per mettere subito in chiaro le cose con la platea di turno. Ci pensa poi uno dei migliori 3D mostrati fino a questo momento a completare l’opera, regalando al fruitore una pioggia di sequenze che lasciano senza fiato, paragonabili per numero e potenza visiva solo a quella che si abbatte sullo shuttle a stelle e strisce nella sopraccitata apertura. Il piano sequenza, aiutato non poco da una computer grafica di altissimo livello (meritatissima sarebbe una statuetta di categoria alla prossima edizione degli Oscar), diventa la cifra stilistica alla quale ricorre assiduamente la messa in quadro, baricentro intorno al quale ruota da anni la regia di Cuarón. Il tutto arricchito da un interscambio continuo tra soggettiva e oggettiva, che mette nelle condizioni chi guarda di entrare in sintonia e in catarsi con l’uno o con l’altro personaggio. La regia lavora a tutto campo, usando lo spazio come luogo di incontro tra agorafobia e claustrofobia, dove le vertigini e l’assenza totale di coordinate diventano, alla pari degli attacchi di panico, della carenza di ossigeno, della catena di incidenti e guasti che i co-protagonisti sono costretti ad affrontare di volta in volta, il tappeto drammaturgico di un film che ha proprio nella scrittura la parte incompiuta.
Lo script si aggrappa ad un plot esiguo, sul quale aleggiano per analogie minacciose le ombre di due capolavori come 2001: Odissea nello spazio e il Solaris di Tarkovskij. Esistenzialismo, filosofia, astrazione, spiritualità, in Gravity fanno capolino per lasciare ben presto il testimone alle disavventure galattiche degli sfortunati astronauti Stone e Kowalski, trasformando di fatto l’opera in un survivor movie spaziale come era stato per Apollo 13 prima e per Sunshine dopo. Ma se nei film di Howard e di Boyle uno straccio di trama accompagnava per mano la storia verso la sua conclusione, in questo caso le poche briciole di racconto a disposizione fanno affidamento sulla componente audio-visiva, sulla bravura degli interpreti (la Bullock in particolare si fa carico dello script, sfornando una prova maiuscola per gran parte del tempo in assoluta solitudine) e sulla capacità del regista di costruire suspense e tensione con una serie di scene adrenaliniche che svegliano dal torpore lo spettatore: dall’incendio nella stazione orbitale russa alla deriva di Stone successiva alla tempesta di rottami che devasta lo shuttle americano, per chiudere in bellezza con il miracoloso approdo sul modulo spaziale cinese. Sta in questa auto-rigenerazione della tensione che da latente finisce con l’esplodere, la formula chimica che consente all’ultima fatica di Cuarón di sopperire alla presenza di un trama che equivale a zero. Per rimanere in tema, pari a zero-g.