Regia di Claudio Fausti e Serafino Murri, Italia, 2004
Nell’immobilità e nel silenzio del parossismo dei movimenti di macchina, dei luoghi ridotti a macchie e brevi dettagli, del confuso e cuprolalico borbottio di un’umanità moltiplicatasi in un nulla catodico dove anche la voce radiofonica si schianta su idioti accenti televisivi, in quest’asfittica assenza di cinema si costringe tra infiniti inviluppi la negazione stessa della costruzione cinematografica di un pensiero filosofico complesso.
La sintassi finisce infatti per conformarsi a norme sempre più tendenti al fondo di umori intestini creando una grammatica televisivo-mucciniana dove ogni elemento rincorre il successivo per spegnere ogni suono in un sordo grugnito di conformismo.
Se non esiste una definizione cinematografica di generazione, come spiegano affrettatamente i due registi, l’umanità intera sembra però affondare nel crogiuolo di vecchiezza ed immaturità di una condizione liminare attestata sul terzo decennio della vita, dove benché i fenomeni fisici siano ambigui quelli ideologici non possono che essere drammaticamente evidenti: la quotidianità diventa infatti l’ambito del rimosso, il repertorio di avvenimenti del quale i due stessi autori asseriscono di “sbattersene più che mai”, lasciando libera espressione al solo “monstrum”, stabilendo forse nel modo più definitivo il distacco dall’esperienza neorealista attraverso la pervasività dell’insignificanza morale, stabilendo i contorni di un essere amebico precedente a qualsiasi rivoluzione, a qualsiasi reazione.
Gli enormi eventi della più minuta e meschina condotta umana diventano sicuramente degli atti eroici per un essere eternamente riottoso contro la propria tragedia e forse sembra emergere naturalmente la sagoma buona ed eternamente adolescenziale di “El Fantasma” come violentatore di questa idiozia metafisica da lui stessa fomentata attraverso la dipendenza che ha indotto negli altri individui con il gusto narcotico delle sue feci, “odori che spingono a cedere al vizio fino a rischiare la vita” si direbbe con il Pasolini delle “Passeggiate Romane”.
Purtroppo questa timida e spaventosa ombra comica non ha minacciato abbastanza a lungo la regolare stupidità di questa esistenza filmica perché infondo non c’è eroismo maggiore della più bieca codardia per un essere che si definisce solo negativamente, o appena negativamente: così può essere un evento straordinario di rottura, (sempre secondo le note di regia redatte dalla sciagurata coppia di autori), ubriacarsi ogni misura, desiderare il corpo di una persona diversa dal proprio compagno o rubare pochi terminali ed un fax da un modesto ufficio.
E’ però su film del genere che si può verificare la distanza da colmare per raggiungere il violento pensiero etico del cinema “dogmatico”, partendo dai solo caratteri di superficie dell’utilizzo del digitale e di un movimento della macchina da presa non funzionalizzato all’esperienza filmica, e quindi apprezzare anche il nuovo aspetto del decorativismo.
Anche se è piuttosto odioso coinvolgere nella critica delle osservazioni dirette all’autore non può non destare sorpresa il carattere di questo esordio registico, di un critico giovane ma riconosciuto anche dal mondo accademico, che nell’espressione sembra trovare il referente più importante nei programmi dei canali televisivi di regime; perso Pasolini o Kieslowski, il suo cinema va ad affiancarsi all’osceno balbettio di Cuccino, e così minaccia pure l’ineluttabilità di una condanna al cinema italiano che tuonava in un breve saggio di Antonino Terranova, “Cine-città italiana: ir-redimibile, precaria, in-decisa, carina, dis-fatta”, accusandolo di meschinità e plagio come pure di qualunquismo politico.
Ruggero Lancia