Recensione n.1
Meno demoralizzante di Lost Highways. Prima di tutto, perchè ormai ce lo aspettiamo – perciò quando la storia perde ogni coerenza narrativa la cosa da’ meno fastidio. Inoltre, la prima parte, quella che sembra seguire un sviluppo quasi lineare, è meno tesa e cupa di quella di LH, così, di nuovo, da far apparire il successivo non-sviluppo meno irritante. Col passare del tempo Blue Velvet appare come un esempio di coerenza narrativa. Twin Peaks (per me il suo capolavoro) provava a dare una specie di soluzione al plot. Ora, a parte lo splendido episodio di A Straight Story, Lynch sembra avere perso qualsiasi interesse ad una struttura narrativa coerente. Amen, basta saperlo. Vediamo un film surrealista, tipo il Cane Andaluso. Oltretutto ci sono parecchi momenti decisamente comici (un notevole bonus rispetto a LH) e singole scene splendide, come quella del Teatro del Silencio. I volti televisivi degli sconosciuti attori non ci distraggono come le star di Vanilla Sky. C’è Ann Miller – vecchissima. Certo, se voleva inquietarci o farci vedere una realtà diversa – beh, neanche per scherzo.
SPOILER
Sì, ma che fine fanno i fratelli Castiglioni? Che ci fa il nano dietro al vetro? Cosa c’era nel libro nero di Ed? Ma il tizio nel bar non era morto? Come fa Betty ad entrare nella scatola blu prima che Rita usi la chiave? Oh, beh…
Stefano Trucco
Recensione n.2
Dopo la parentesi dell’omino sul trattorino, David Lynch cambia nuovamente genere e si cimenta con il demenziale.
Gli elementi sono i soliti di Lynch: un nano, qualche tenda rossa, le musiche di Twin Peaks, una macchina che viaggia di notte. Il tutto però mescolato con evidente effetto comico, a parodiare altre opere. C’e’ persino un divertentissimo intermezzo lesbo.
Bellissima, da questo punto di vista, la sequenza di telefonate tra il nano e un paio di altri loschi figuri, oppure il dialogo surreale del regista col cowboy.
Il film e’ divertentissimo, anche se consigliarlo e’ difficile, perchè chi non conosce benissimo Lynch potrebbe scambiarlo per un horror-thriller, e non godersi la sua carica dissacrante.
Graziano Montanini
Recensione n.3
“Mulholland Drive” è stata, per il sottoscritto, un’esperienza per certi versi sconvolgente. Continuo a pensare che non si tratti di un capolavoro, e forse neanche di un buon film, piuttosto di un pasticcio delirante e compiaciuto. Eppure… dopo aver passato una notte completamente insonne a riflettere, e aver proseguito il giorno successivo, quelle atmosfere fosche, conturbanti, grevi e opprimenti, vagano ancora nella mia mente alla ricerca di un appiglio, un barlume di ragione, di logica, di senso. E’ tutto inutile: non potrò mai dimenticare quelle immagini sublimi, quel terrore ancestrale nel quale sono stato condotto, quell’emozione di pura angoscia metafisica del tutto irrazionale. Mai Lynch aveva osato tanto, mai probabilmente aveva raggiunto livelli di grandezza così elevati. Perchè “Mulholland Drive” non è solo un film: è un incubo che si infiltra nelle profondità imperscrutabili della mente, nelle oscure paure ataviche dell’Uomo, nel terrore recondito di ognuno di noi. Un ineffabile viaggio allucinatorio, privo ancor più di “Strade Perdute” di punti di riferimento, di coordinate. L’inestricabile trama altro non fa che aumentare il senso di disagio, quindi lo stato ipnotico dell’inerme spettatore; l’astratto raggiunge momenti di estrema sublimazione, specie nell’ultima parte del film, quando la precedente logica narrativa appena abbozzata diviene definitivamente la speculare riflessione di un ignoto assoluto, un maelstrom di incubi, sogni, ossessioni lynchiani perfettamente non-orchestrati. Il flusso magmatico di immagini (e suoni: come al solito curatissimo l’aspetto sonoro), ci avvolge morbosamente nella sua stretta privandoci della “vera” visione, persuadendoci a trascendere l’aspetto esteriore verso una visceralità che Lynch stesso stenta a cogliere (nei suoi immensi dettagli che “entrano” nella carne degli attori). E’un film di corpi (che cambiano), di apparenze (come ci evidenzia il misterioso episodio nel teatrino) da soverchiare, di chiavi dell’oblio. Ovviamente è un film che spiazza, divide, ma non lascia indifferenti. La spocchia di Lynch, quella di chi crede di poter fare grande Cinema semplicemente affastellando immagini, è comunque uno stile, una forma, un approccio al contenuto che rimane stampato nella memoria a forza di colpi da maestro. Logicamente (sembra un paradosso dirlo), non tutto può essere perfettamente compiuto, non tutte le scene convincono pienamente, perchè “Mulholland Drive” è un film che osa, che va oltre una normale concezione cinematografica, che sposa un’audacia sperimentale ai limiti del sostenibile (numerose le sequenze-capolavoro, ma numerose anche quelle che lasciano più che dubbiosi di un eccesso di narcisismo).
Miracolosamente si riaffacciano negli incubi lynchiani sprazzi di umorismo (decisamente non-sense) degni dei Monty Python, a equilibrare la freddezza cinica e programmatica dell’operazione – la stessa ad ogni modo di “Fuoco cammina con me!”, di “Strade Perdute”, di “Cuore Selvaggio”, ma qui scevra di stanchi manierismi, anzi rigogliosa di momenti ispirati e originali (tra cui un poderoso finale all’insegna di un’angoscia disperata) -. “Mulholland Drive” è certamente un’opera importante – e come tutte le opere importanti finirà per dividere -, da amare senza freni, da vedere e rivedere.
Andrea D’Emilio
Recensione n.4
Il film è ottimo sotto parecchi punti di vista, in primo luogo: la recitazione, la scenografia (gli interni: tappezzerie, mobili, luci profilmiche), il trucco (talmente buono che mi è difficile ancora adesso credere che Betty e Diane siano la stessa attrice, e idem per Rita/Camilla). E poi c’è un camerawork strepitoso, accuratissimo, che denota maestria completa del mezzo. L’esplorazione di Betty dell’appartamento della zia, l’apparizione del barbone, la scatola, i vecchietti prima genitoriali e poi orchi-babau, perfino il racconto del sogno del detective: ce n’e` a bizzeffe, di episodi che ti fanno gelare il sangue solo per *come* sono girati, e per come sono montati assieme alla musica. E altri che ti fanno piegare dalle risate. E altri struggenti. Ma lasciamo stare. Giusto una nota e poi una provocazione: la nota e` che il film perde moltissimo nel doppiaggio. E non capisco perchè; sarà l'”americanità” dei dialoghi, o i rumori di fondo che mi paiono essere spariti o attenuati… non lo so. Ma se potete e se ne avete voglia, rivedetelo in lingua.
La provocazione: tolta la bravura di Lynch, e anche la frammentarieta` del film in sè (che poi è l’impaccamento in 147 minuti di alcuni piloti per una serie televisiva, e si vede), mi pare che questo signore porti avanti un discorso linguistico interessante. La mia idea e` che il cinema di Lynch si avvicini sempre piu` alla dimensione originale onirica di quest’arte; sempre piu` il suo film e` un sogno del regista, che evoca un sogno nello spettatore attraverso i sogni dei personaggi. La prima meta` del film e` un sogno di Diane, brutta sfigata mediocre e partner debole, che ricostruisce se stessa bella fichissima grandeattrice e partner forte.
Oppure no, ci sono delle incoerenze che rendono questa interpretazione difficile, sebbene molto probabile. E le scene in teatro. E il barbone. E il cowboy con la sua sibillina frase “you do good, you see me once again, you do bad, you see me twice”. utti particolari che Diane/Betty ha (intra)visto nella seconda parte, esattamente come accade nei sogni, che sono soddisfazione di un desiderio attraverso manipolazione inconscia di materiale sensibile preesistente, pescato dalla realtà secondo chissà quale meccanismo [1]. E’ quel che accade qui. Il Sogno al Cinema è quindi il tema portante del film: il rapporto fra lingua cinematografica e lingua primitiva dell’uomo. Non la lingua fonica a grugniti e gesti, ma la purissima interazione dell’uomo col suo medium; la lingua dell’ *azione* e dell’ *interazione* con la realtà, fatta di sensazioni e sedimenti di sensazioni, ripescati e immagazzinati chissà come (memorizzati, rimossi, rielaborati). Ogni uomo (ogni inconscio?) è l’io-narrante per se stesso, proprio come il regista è l’io-narrante del film. In effetti ognuno di noi vive in un film permanente che è la sua vita sensibile, atti, sensazioni, dialoghi [2]. Lynch riaccosta i due io-narranti in modo mirabile, rendendo MULHOLLAND DRIVE qualcosa di vicino al surrealismo senza l’etichetta del surreale. Se è vero che il Cinema è la versione “scritta” della lingua primordiale, e se è vero che che negli anni esso è stato incatenato in una sovrastruttura prosaica (i “generi” e i “movimenti di macchina” e tutto il resto, come siamo abituati a vederli) forse proprio per negare e ridimensionare il suo carattere terribilmente onirico e bestiale [2], allora quello che Lynch sta facendo al Cinema e’ un’operazione bellissima di riscoperta delle origini, della sua potenza intonsa e primitiva.
Claudio Castellini
[1] S.Freud, “L’interpretazione dei sogni”
[2] P.P.Pasolini, “Il cinema di poesia” in “Empirismo eretico”
Recensione n.5
David Lynch e’ uno dei pochi registi contemporanei capace di parlare direttamente all’inconscio. I suoi film fuggono con determinazione la razionalità e conducono in un universo onirico dove l’immagine diventa illusione e la concretezza sfuma nella percezione. Solo così si può spiegare il fascino magnetico esercitato da “Mulholland Drive”. La prima parte (circa tre quarti del film) si snoda attraverso atmosfere noir con una sceneggiatura tutto sommato tradizionale: due donne, il mondo dorato di Hollywood, un mistero da svelare. La seconda parte, invece, proprio quando si spera in una soluzione in grado di far combaciare tutti i tasselli, porta ad un altrove che sconcerta. Netta linea di demarcazione tra realta’ e sogno, la sequenza in cui le due protagoniste si recano, nel pieno della notte, in un teatro nel cuore di Hollywood. E’ proprio in questo punto che il regista suggerisce allo spettatore di abbandonare la razionalita’ e di lasciarsi andare all’intuito. Se si sta al gioco e’ possibile entrare in un mondo dove i ruoli sono etichette attaccate dal caso, dove l’apparenza non corrisponde mai alla verita’, dove la finzione diventa un modo per interpretare (ma non rappresentare) i conflitti. Se invece non si cede al gioco sottile costruito da Lynch e si resta al livello primario della narrazione, si rimane affascinati dall’abilita’ della messa in scena, ma delusi dall’assoluta incoerenza del racconto. Davvero impossibile, infatti, far tornare i conti e molteplici e contraddittorie le ipotesi che la visione suggerisce.
Ma David Lynch sembra proprio voler spingere lo spettatore a uscire da una logica predefinita dove azione e reazione, pur se imprevedibili, finiscono con il sottostare a regole precise. Del resto, proviamo a pensare ad una chiusa soddisfacente, secondo i canoni tradizionali del racconto cinematografico, con risposte a tutte le domande disseminate nel corso della narrazione. Si uscirebbe dalla sala soddisfatti o delusi, ma la parola FINE chiuderebbe comunque la parentesi aperta ad inizio proiezione. Con la scelta precisa di rimescolare tutte le carte e di rendere impossibile l’identificazione di una verità univoca, invece, il film si imprime per sempre nella memoria dello spettatore, con immagini e suoni che potranno essere ricordati con la stessa intensità di un sogno da cui ci si e’ svegliati nel cuore della notte. Non un semplice film, quindi, ma un’esperienza visiva e sensoriale, in grado di parlare a quella parte indefinita della natura umana in cui le pulsioni indossano i vestiti del sonno. Può non piacere, necessita di una certa predisposizione per essere gustato, alcune forzature possono sembrare esagerate, ma non lascia certo indifferenti. Molto brave le due protagoniste, in particolare la camaleontica Naomi Watts, e fondamentale il commento sonoro di Angelo Badalamenti.
Luca Baroncini