Spielberg continua il percorso sulla contingenza post-11 settembre già intrapreso con La guerra dei mondi, trattando un fatto poco noto, ovvero quello della vendetta israeliana ai fatti di Monaco del ’72. Ex membri del Mossad sono incaricati di uccidere gli 11 (un numero casuale?) organizzatori dell’attentato che costò la vita agli atleti israeliani durante le Olimpiadi. Il film ha come protagonista principale Avner (Eric Bana), capo del gruppo, che con il passare del tempo è logorato dai sensi di colpa. Tecnicamente l’ultima fatica spielberghiana è perfetta. La fotografia dell’abituale Kaminski tende ad una colorazione pastello, che richiama le pellicole degli anni Settanta. Per no parlare delle scenografie e dei costumi, decisamente accurati. Forse un po’ troppo lungo e ripetitivo nella parte centrale, Munich attualizza tematiche assolutamente contemporanee, laddove Le crociate di Ridley Scott falliva miseramente nel proporre il conflitto arabo-israeliano come elemento storico di perenne dinamicità, capace di ritrovarsi nei fatti delle crociate. Con le dovute distanze e libertà espressive, Spielbreg propone la sua idea politica della questione, mantenendo un certo pacifismo di sottofondo e cercando di illustrare come ogni evento sia in qualche modo relazionato a fatti passati. La politica dello spionaggio, delle agenzie segrete trova in Munich la sua perfetta collocazione, specie quando dimostra quanto queste siano intricate e spesso ambivalenti. Il film è stato accusato sotto due profili: il primo riguarda il consueto antisemitismo, che è tanto vacuo quanto quello perpetrato al Passion di Gibson, poiché è palesemente dimostrato quanto la politica attuata da Israele fosse pratica comune di
tutti i governi del mondo. Il secondo riguarda la presa di posizione del regista sulla scelta o meno di attuare questo tipo di azioni anti-terroristiche, con la conseguenza per Spielberg di essere stato accusato di eccessivo pacifismo. Personalmente non credo che la questione sia rilevante, perché l’autore (e qui si vede la mano dello sceneggiatore Eric Roth, collaboratore di Michael Mann in Insider e Alì) mette in scena due pensieri opposti, quello di Avner, che si rende conto di quanto sia inutile una tale presa di posizione, perché immorale e perché inutile sotto il profilo dei risultati (ogni leader ucciso era sostituito con un altro ancora peggiore), e quello del suo superiore (Geoffrey Rush), convinto dell’utilità e della necessità di tale politica. La dialettica quindi rimane tale, un confronto fra idee. A Spielberg interessa di più la dimensione privata, quella in cui Avner sprofonda, trascinato dai suoi incubi, dai sensi di colpa, dalla consapevolezza di aver perso quel poco di umanità che lo contraddistingueva. Eppure il regista prende le parti, si schiera in qualche modo, sebbene in maniera tacita e velata. Dopo aver mostrato i giochi di potere che si nascondono dietro la politica, conclude il film con un’inquadratura eloquente. Una New York grigia, sul cui sfondo si intravedono le Torri Gemelle. Come dire: tutto questo prima o poi avrà delle conseguenze… VOTO: 8
Andrea Fontana
andrea_fontana81@yahoo.it
Quest’ultima pellicola di Spielberg conferma la grande cura con cui il regista confeziona i suoi film. Una fotografia attentissima e pregevole, e le accurate ricostruzioni dei diversi ambienti in cui la trama si svolge rendono perfettamente l’atmosfera che si poteva respirare trent’anni fa (faccio riferimento in particolare all’Italia, in cui l’unica imprecisione mi sono sembrate essere le targhe delle automobili!) dando profondita’ alle vicende presentate senza tuttavia scadere nel manierismo o nell’iper-realismo su cui il regista aveva indugiato da qualche anno a questa parte.
La scelta e l’interpretazione degli attori sono anch’esse molto azzeccate e convincenti. Degna di nota e’ la performance di Eric Bana, bravissimo come protagonista in un ruolo drammatico.
Basata su fatti accaduti ma poco noti, Munich ripropone il tema dello scontro tra i sentimenti della sfera privata e la “necessita’ di stato”, tra ideali personali e la bruta violenza che scandisce e confonde le giornate di uno 007 che si trova ad essere niente piu’ che un assassino, in una lotta che non conosce quartiere, pieta’ ne’ fine, che confonde aggrediti ed aggressori, e che proprio per questi motivi viene alla fine descritta e percepita come inutile e inarrestabile barbarie. Proprio quest’ultimo appello (se vogliamo, poco originale ma difficilmente contestabile, senza inerpicarsi in apologie pindariche e diventare impopolari) viene sottolineato dalle inquadrature piu’suggestive, palese riferimento alla contemporaneita’ (la ricostruzione delle torri gemelle, ad esempio). I lunghi dialoghi che il protagonista intrattiene con i diversi personaggi, alleati, nemici, o semplici ingranaggi o artefici del micidiale meccanismo durante il suo percorso di morte sono tutti significativi e funzionali alla trama (“perche’ anch’io ho una famiglia da mantenere”, ma “qui non troverai casa”). Cosiccome sono quasi inesistenti scene o sequenze superflue (giusto forse un paio, ma non ve le dico!).
L’espressione e le parole della prima vittima (terrorista) prima di morire si possono idealmente attribuire sulla figura del protagonista verso la fine del film, conferendo una circolarita’ alla pellicola ben calibrata e suggestiva.
Il prodotto finale e’ un film di quasi tre ore che riesce a mantenere vivo l’interesse senza fare ricorso a scene eccessivamente splatter o ad altri espedientucci di mestiere.
Proprio per la profondita’ con cui il tema viene trattato apparesenz’altro riduttiva, se non forzata, l’etichettatura di Munich come opera “pro o contro”. Le polemiche e i plausi che hanno accompagnato la sua uscita negli Stati Uniti si fondano solo su uno dei suoi piani di lettura politica, peraltro calibrata e ragionata anche nell’elaborazione del messaggio, ma che, se da un lato dipinge la forza usata per difesa come un tradimento dei principi del popolo ebreo, dall’altra non fornisce (ne’ – forse – potrebbe fornire) una soluzione, se non nel trionfo appunto delle passioni e ragioni della “sfera privata” (nota a margine: ritrovata peraltro dal protagonista solo negli Stati Uniti).
Film attualissimo e che ben si colloca, con tutti i suoi drammatici interrogativi, nella cronaca di questi giorni.
Mattia Bonsignori
USA
Il film si articola su due piani diversi, che si intersecano continuamente ed indissolubilmente: da un lato la necessità di un cambiamento, di vendicarsi, di sfuggire alle proprie paure anticipandole con l’azione, e dall’altro il bisogno di una stasi positiva, riflessiva, in cui piantare le radici e trovare una propria identità. Punto di contatto fondamentale fra i due è la vendetta stessa, nella sua accezione più primitiva, violenta e catartica: la morte dell’altro come affermazione dì se, l’eliminazione del diverso per esaltare il proprio essere autonomi da un punto di vista identitario, politico e culturale. Non è un caso che il protagonista scelto per lavare l’onta dell’attentato sia un personaggio inizialmente lontano dalla macchina del potere e delle sue sovrastrutture ideologiche: è proprio nel suo animo innocente e privo di un vero indottrinamento che si instilla il seme del dubbio, e germoglia di conseguenza la pianta dell’amara consapevolezza. Sintomatico è il fatto che per far parte del progetto vendicativo che nelle previsioni dei suoi superiori dovrebbe rappresentare l’occasione di dimostrare la forza di Israele e di affermare la validità della propria causa, il protagonista debba firmare un accordo in cui dichiara ufficialmente di non esistere, deponendo a tempo indeterminato la propria identità per un presunto bene superiore. Accettando l’incarico propostogli, Avner intraprende un percorso di iniziazione doloroso, scandito da frammenti di pallottole e schegge di plastico, lungo il quale ogni esplosione rappresenta il crollo di una certezza, di un illusione. Ad ogni passaggio la natura carnefice e a-finalistica della sua missione gli diviene sempre più nota, fino a che non scopre che la sua stessa vita è in pericolo. La violenza gli appare pertanto nella sua accezione più vera e più assurda come un circolo chiuso in cui non si possono individuare né un inizio né una fine, in cui il carnefice di oggi è la vittima di domani, e la ragione è solo un contentino per la propria traballante coscienza. L’azione aveva cancellato i dubbi, e con loro un candore che solo la voce di un neonato è in grado di richiamare alla memoria: si rende necessaria pertanto una resa dei conti, un faccia a faccia con se stessi. Avner porta a compimento la propria missione ma per lui non ci sono medaglie, neppure una piastra di metallo per celare un dubbio devastante di fronte a ciò che si è fatto ed in cui si è creduto ciecamente. Cerca certezze dai suoi referenti politici, nel tentativo estremo di giustificare a se stesso le proprie azioni e spegnere l’urlo di una coscienza che era stato coperto dal rumore delle esplosioni di palazzi e di vite. L’unica via è però l’auto-assoluzione: nessuna prova per quanto grande, può tacitare il rimorso di un assassino. Il pane non viene spezzato, non si consuma il compromesso fra le logiche di stato e necessità dell’individuo: quest’ ultimo, come già in Duel, salva se stesso sacrificando la parte più consistente della propria identità. Dopo aver causato tanta morte, Avner riscopre la vita che ha generato, una bambina. L’ amore probabilmente non è la soluzione definitiva, ma di sicuro è una buona ragione per cui fermarsi e riflettere.
Spielberg si addentra con Munich in una ampia riflessione che prende le mosse dall’ attentato del 1972 per estendersi necessariamente all’ attuale panorama politico mondiale. Il film ha il pregio di non puntare su una facile retorica della commozione, dando però in alcuni casi l’impressione di restare un po’ troppo in superficie, preferendo la citazione biblica alla ricerca di un significato più denso. Pesa probabilmente una miscela non perfetta fra la componente action e quella più spiccatamente riflessiva e intimistica, che nel loro continuo alternarsi non riescono a toccare le profondità sperate. Non perfetto anche il doppiaggio di Eric Bana, che non restituisce giustizia ad una intensa interpretazione.
Francesco Priano
Munich è un film inaspettato: nel senso che non è un film da Spilberg, sempre attento ai contenuti facili bensì è un film che implica una visione concentrata, si sforza di mostrarci il dolore, la rabbia e l’immensa tragicità di due popoli in guerra che non possono, per anni ancora, ottenere una pace. La vicenda ripercorre i fatti dopo la strage delle Olimpiadi di Monaco de ’72. I palestinesi uccidendo 9 atleti israeliani hanno attirato l’attenzione del mondo sulla loro causa. Golda Meir, Primo ministro di Israele, decide pertanto di dare una risposta violenta a quel gesto e ordina ad un anonimo agente del Mossad di perdere la propria identità, vita e famiglia e di buttarsi in una caccia senza fiato per trovare e uccidere gli undici attentatori. Il film è intricato ma la narrazzione scorre con semplicità e chiarezza. Le scene di violenza sono precise e dettagliate mentre lo sforzo degli attori nel mostrare la loro perenne vita di guerra, con sfumature sentimentali e religiose annesse, è ben convincente. Alla fine troviamo un eroe diviso fra il senso dello stato e gli omicidi commessi, in un, forse un pò forzato,irrisolto e irrisolvibile pentimento.
Fulvio Caporale
Con Munich, Spielberg chiude idealmente il ciclo di film con i quale ha raccontato diversi aspetti dell’America. Prova a Prendermi, The Terminal, La Guerra dei Mondi hanno rappresentato nella loro diversità aspettative, ansie, paure ed illusioni della grande democrazia (?) a stelle e strisce.
Munich è ispirato dal romanzo “Veneange” di George Jonas. Narra le vicende di un commando di agenti segreti israeliani con il compito di uccidere undici palestinesi, presunti mandanti e ideatori del massacro alle olimpiadi di Monaco del 1972.
Undici atleti ebrei trucidati, undici capi carismatici palestinesi da eliminare, questo era l’ordine di Golda Mayer “ stanca di essere tollerante ”.
Il regista apre e chiude il film con due sequenze in cui è centrale la presenza degli States. In apertura, degli atleti americani aiutano casualmente e con molta leggerezza tipicamente “yankee” il commando di “Settembre nero” ad introdursi nel villaggio olimpico. Nella scena finale, con lo sfondo del palzzo dell’ ONU e delle Twin Tower, il protagonista del film capirà che la vendetta non serve a nulla ed il sangue continuerà a scorrere. Appare chiaro, anche in virtù delle citazioni riservate alla CIA, che Spielberg voglia attribuire all’America un ruolo ben preciso nella cattiva gestione della questione medio orientale. Un ruolo di spettatrice quasi inerme in principio, di arbitro artefice e padrona alla fine
In effetti, la storia recente, così come il film, non hanno mai chiarito se le persone della lista della Mayer fossero davvero coinvolte nei fatti di Monaco. Resta alto il sospetto che l’”operazione ira di Dio” sia servita alla eliminazione delle menti dell’OLP o comunque di figure intellettuali palestinesi non gradite a Gerusalemme.
Spielberg realizza un film intenso e coinvolgente scegliendo la formula della spy story e quindi del film di genere. Un prodotto di grande impatto. Fotografia eccellente di Janusz kaminsky, ricostruzione storiche perfette e attori in ottima forma. Soddisferà sia gli amanti delle storie spionistiche sia quelli che, non fermandosi in superficie, ne coglieranno l’essenza.
Munich è sostanzialmente un film scomodo perché tratta un tema scomodo. Non si limita a decantare l’inutilità della vendetta in una storia dove tutti sono contemporaneamente vittime e carnefici, non cerca le ragioni dell’odio, esprime il suo disappunto rispetto a come la questione medio orientale è ed è stata trattata da parte di tutta la comunità internazionale, ebrei e arabi compresi.
Trattando un argomento comunque doloroso, Spielberg è ebreo, non è casuale la scelta di non aver optato per un grande lancio pubblicitario della pellicola. Partendo dal passato recente, si affronta un tema attuale ed e irrisolto verso il quale il regista ha voluto dimostrare un certo rispetto.
E’ il dramma umano degli agenti vendicatori del Mossad che sembra aver attratto maggiormente l’attenzione del cineasta. L’innocenza perduta di Avner Kauffman, Eric bana, è il nucleo centrale del film. La ragione di stato, nella prima parte è predominate nelle scelte del protagonista e della sua squadra, nella seconda è soccombente rispetto alle ferite che ha aperto la scia di sangue che si lasciano dietro. Avner capirà che nella missione ha perso per sempre una parte di sé stesso, che non ci sarà nessuna riconciliazione e che ogni capo ucciso è stato sostituito da un altro più spietato. Una spirale di violenza e di orrore senza fine, una macchia di sangue che continuerà ad espandersi nella indifferenza generale. Nessuna certezza, nessuna fede niente da difendere. A sua volta braccato, Avner troverà una apparente tranquillità proprio negli Stati Uniti (un caso?) ma il pane non verrà spezzato con il suo popolo e le sue notti saranno per sempre popolate da terribili incubi di guerra.
Francesco Sapone