Recensione n.1

Otto cadetti dell’FBI devono superare l’ultima prova prima di diventare profiler, gli psicologi addestrati per catturare i serial killer. Lo scenario dove avverrà la simulazione è un’isola disabitata e attrezzata dai Navy Seals per le loro esercitazioni. Dovranno trovare il luogo del crimine, tracciare il profilo dell’assassino e trovarlo nel più breve tempo possibile. Ma tra i cadetti si nasconde un serial killer e quella che doveva essere una simulazione si trasforma in una trappola mortale per i membri del gruppo. Isolati dal resto del mondo, gli aspiranti profiler dovranno decifrare le tracce disseminate dal killer e scoprire chi di loro è l’assassino.

Una versione contemporanea dei 10 piccoli indiani

Torna dietro la macchina da presa Renny Harlin, regista e produttore di film ad alto budget, dopo il flop de “L’esorcista – la genesi”. Lecito dunque aspettarsi la sua nuova prova da regista () con qualche riserva. “Nella mente del serial killer” è un thriller con forti componenti horror nel quale sostanza del whodonit si esprime attraverso una messa in scena viscerale. Il film si colloca nella fascia alta del genere thriller, con una confezione di tutto rispetto.
Otto aspiranti profiler dell’FBI rinchiusi su di un isola a 50 miglia dalla costa, senza telefoni né barche per tornare indietro. Il luogo ideale per un’immersione totale nel lavoro, secondo il capo addestratore Harris. Non la pensa così il detective Jameson che si affianca ai ragazzi un momento prima della partenza. E infatti le cose cominciano presto ad assumere una direzione sbagliata. Mentre investigano sul “luogo del delitto” uno di loro innesca un complicato congegno ad orologeria collegato ad una bombola di azoto liquido che congela istantaneamente il corpo del malcapitato mandandolo letteralmente in frantumi. Sconvolti i ragazzi cominciano a sospettare l’uno dell’altro. Ma il misterioso killer lancia alle sue vittime una nuova sfida: gli aspiranti profiler dovranno decifrare la personalità perversa dell’assassino e scoprirne l’identità prima che la prossima trappola mieta le sue vittime.
La storia non è altro che una versione dei “Dieci piccoli indiani” di Agata Christie aggiornata secondo gli stilemi del thriller truculento alla “Il silenzio degli innocenti”. Tuttavia il film può contare su una base tecnica di prima qualità. La fotografia dell’esordiente Robert Gantz (che ha appena finito di fotografare “Assault on precinct 13” remake dell’omonimo capolavoro di Carpenter) mette in luce l’accuratezza dei numerosi particolari. Le scenografie di Charles Wood (“Driven”, “The Italian Job”) ricordano molto da vicino il capolavoro di Jonathan Demme, e costruiscono un’atmosfera visiva carica di tensione che suscita un continuo sentimento di morte attraverso l’insistito accumulo di dettagli organici di corpi e insetti. Gli elaborati e micidiali meccanismi delle trappole inoltre facilitano l’identificazione con i personaggi intrappolati in una situazione da cui non intravedono i trucchi al di là dell’enorme palcoscenico dove l’assassino mette in scena gli spettacolari omicidi. Soprattutto nella prima parte il film riesce a coinvolgere molto lo spettatore sia per lo scenario che per la curiosità di vedere le elaborate scene di morte. Purtroppo la storia che in principio sembrava promettere bene nella seconda parte della pellicola non riesce a conservare il mordente e, tra incongruenze e buchi nella sceneggiatura, scivola malamente nel frettoloso e banale finale.
Harlin dirige comunque uno dei migliori thriller horror della stagione e convince almeno fino a tre quarti della storia che probabilmente paga dazio alle esigenze di spettacolarizzazione del prodotto. Più che sufficiente invece l’utilizzo degli effetti speciali che non lesinano nel gore regalando scene sanguinolente nelle sequenze di morte (con un corpo mandato in frantumi dall’azoto liquido, e un volto sfigurato dall’acido inalato tramite il fumo di una sigaretta). Si sa che di soggetti firmati Thomas Harris ce ne sono pochi in giro, meglio quindi sollazzare i palati fini con un po’ di mostarda nel reparto effetti speciali. Come dare torto a quel corsaro di Harlin!

Massimiliano Troni (vedi http://xoomer.virgilio.it/profondocinema/)

Recensione n.2

La filmografia di Renny Harlin (tra gli altri “58 minuti per morire”, “Cliffhanger”, Blu profondo”, “Driven”) vanta titoli perlopiù sovrapponibili in cui l’azione, di solito ben condotta, si scontra con psicologie elementari, motivazioni approssimative e caratteri stereotipati. Anche “Nella mente del serial killer” non sfugge alla regola. Il problema e’ che lo schema classico previsto dalla sceneggiatura (sette persone in un luogo isolato che cominciano ad essere uccise da un serial-killer innescando vicendevoli sospetti) si sviluppa puntando proprio sulle capacità di introspezione dei personaggi. Gli elementi del gruppo ambiscono infatti a diventare “profiler”, cioe’ fini conoscitori della psiche umana in grado di elaborare, appunto, un profilo del serial-killer di turno. Ma non basta blaterare sui punti deboli di ognuno per approfondire animi e intenti: quello che ne risulta è soltanto una somma di luoghi comuni in cui a dominare e’ una psicologia spicciola che riduce ogni personaggio a un aggettivo. Non mancano poi le solite false piste, portate però avanti in modo cosi’ maldestro (almeno alla luce della soluzione finale) da rivelarsi insulsi tentativi di ingannare lo spettatore. Idiozie e schematismi del copione a parte, se si decide di stare al gioco (e bisogna deciderlo razionalmente, perche’ il film non ha la forza di intrappolare) l’intrattenimento funziona, grazie soprattutto alle suggestioni scenografiche, alla scansione fin troppo febbrile dei sanguinosi eventi e alla curiosità di sapere chi sfuggira’ al massacro. Tra le note di demerito anche il cast. Il migliore e’ Christian Slater, ma scompare troppo presto; il peggiore e’ sicuramente Li Cool J: ha costantemente una non-espressione da sit-com che incide non poco sulla scarsa resa drammatica delle sequenze (troppe!) di cui e’ protagonista. Gli altri si adattano con medio trasporto (chi troppo, chi poco) alla convenzionalita’ dei caratteri che sono chiamati ad incarnare.
Luca Baroncini da www.spietati.it