Regia: Michael Haneke
Cast: Daniel Auteuil, Juliette Binoche, Annie Girardot
Francia 2005, 117 min
Recensione n.1
Il regista austriaco, ma ormai stabilmente radicato in Francia, Michael Haneke, è un autore spesso definito programmaticamente provocatorio. Le sue opere sono sempre storie di violenza che cova sotto l’apparente normalità, e lo stile cinematografico è decisamente riconoscibile, fatto di lunghi piani sequenza e di atmosfere algide, per non dire glaciali. Talvolta la programmatica freddezza del suo stile genera pellicole davvero ostiche al grande pubblico, si pensi a Storie, in altri casi l’elemento della tensione narrativa ha il sopravvento e la struttura del film acquista elementi tipici del genere giallo, come nell’angosciante Funny Games. In questo ultimo Niente da nascondere il regista austriaco cerca di fondere l’ineccepibile formalismo dello stile, e non a caso il film ha ricevuto a Cannes il premio per la regia, con elementi di tensione che ne fanno un anomalo thrilling. L’antefatto
della vicenda è curiosamente lo stesso de Strade perdute di David Lynch – una coppia di sposi riceve delle videocassette che riprendono la loro casa dall’esterno, e successivamente penetrano nella loro intimità – ma lo sviluppo seguirà linee totalmente diverse. Infatti questo mistero scatenerà una vera e propria discesa all’inferno dei rapporti personali, che metterà in serio pericolo l’equilibrio psichico dei coniugi. L’intento di Haneke pare essere quello di denunciare la falsità, l’artificiosità sulla quale si basano i rapporti interpersonali nella società moderna, una società nella quale la carriera viene prima di qualunque cosa, prima della famiglia, degli amici, prima persino del rispetto per le difficoltà della gente; i due coniugi, interpretati da due freddissimi Daniel Auteuil e Juliette Binoche, che gareggiano in bravura e si immedesimano perfettamente nella parte, hanno carriere notoriamente impegnative quale quella del conduttore televisivo e della editrice, e sintomaticamente disarmante è il ritratto che il personaggio di Auteil fà alla madre, rivista dopo anni, della vita di coppia, in una scena che lascia il segno. Tipico elemento thrilling è invece l’elemento scatenante dell’odio, un trauma infantile che si era cercato di rimuovere ma che, improvvisamente e drammaticamente, riemerge in tutta la sua ferocia; basti pensare a pellicole quali Profondo Rosso oppure, per citare un esempio recente, lo splendido Old Boy. La definizione di thriller anomalo è tutto “merito” della regia, infatti ciò che distingue Niente da nascondere da altri film quali quelli citati è l’idea a fondamento della messa in scena. Haneke non rinuncia al rigore stilistico del piano sequenza,molte scene (cioè i segmenti di storia con unitarietà spazio-temporale) coincidono con le sequenze (un’inquadratura senza stacchi) e in brevi pillole illustra la convenzionalità, il grigiore della vita familiare: il marito sempre impegnato al lavoro, il figlio in piscina, la moglie che si fa consolare equivocamente da un amico. Ma questa scelta ha un preciso portato narrativo, infatti il regista sfida lo spettatore a guardare, con quelle lunghissime riprese a macchina fissa, all’interno di vite fatte di silenzi: nelle discussioni tra i due coniugi percepiamo il distacco che c’è tra di loro, il fastidio per una relazione dove l’amore probabilmente se n’è andato, ma la voglia palpabile di fuggire, di non poter più sostenere il peso dello sguardo dell’altro, e il regista costringe anche noi spettatori a vivere quel disagio, il piano sequenza ci impedisce di “scappare”. Dell’intrigo giallo, di cui non voglio svelare alcunché, due sequenze restano impresse nella mente, un gallo ucciso con l’accetta ed un fulminante ed inaspettato suicidio. Se un difetto questa pellicola ce l’ ha, è quello di aggiunge poco alla poetica del suo autore, ma lo stile di Haneke rivela ad ogni inquadratura un talento che ha pochi pari nel cinema contemporaneo. VOTO: 7
Mauro Tagliabue
Recensione n.2
L’ultimo Michael Haneke. Prospettive fisse, esasperanti su una vita adombrata e apparentemente luminosa, quella di un conduttore televisivo che ha incrociato uno dei fatti più vergognosi della storia contemporanea francese. Sono testimonianze meticolose del punto di vista del persecutore, indolente, incapace di rivelarsi. Haneke sceglie il metafilm, l’incursione curiosa nella pellicola di altri brani di pellicola obsoleta, sgranata e trasfigurata nel ricordo e nel sogno. Una tetraggine senza concessioni si espande sulla piattezza familiare, con video recapitati alla vittima che si riallacciano beffardamente allo stile primigenio del [i]cinema veritè[/i]. Il thriller classico continua a spargersi sull’anticlassica esternazione del punto di vista, tagliata dalle violente traversate nel sogno del protagonista. Il sogno ricostrutore dell’enigma compare prima in lampi improvvisi, poi in invasioni subliminali angosciate sempre più lente, e complesse, fino a fondersi con il contenuto delle cassette e all’evoluzione dell’enigma in un contatto fisico con la sua causa, contatto manipolato dall’omertà, dall’impossibilità per i protagonisti di toccarsi realmente se non attraverso le corde del risentimento. I dialoghi stessi soffrono di una mutilazione parziale e significativa, nella loro sinteticità mai esaustiva, nel gelido blocco tra i coniugi di fronte a un naturale flusso del sangue, che invece sgorga nella potenza primitiva del disegno minaccia, nella pochezza del residence, nel suicidio disperato di fronte al protagonista. Un’accusa senza eloquenza, ripresa ma non registrata dal vouyer distante, che rimane senza nome pur nell’evidenza delle prove. E’ la stessa imprendibilità del senso di colpa, irrazionale, per quell’ex bambinoediverso da sè, quella della comunicazione con la moglie e il figlio adolescente, del non detto con la madre malata, dell’insensatezza della tragedia algerina del 1961 da cui quella vita estranea e vicinissima è stata spezzata. La frustrante e implosiva coltellata di Erika Kohut.
([i]La Pianista[/i]) in un reale senza musica. Apparentemente luminosa, quella di un conduttore televisivo che ha incrociato uno dei fatti più vergognosi della storia contemporanea francese. il punto di vista del persecutore, indolente, incapace di rivelarsi.
Chiara F