Scheda film

Regia e Soggetto: Elisa Fuksas
Sceneggiatura: Elisa Fuksas e Valia Santella
Fotografia: Michele D’attanasio
Montaggio: Eleonora Cao e Natalie Cristiani
Scenografie: Carmine Guarino
Costumi: Grazia Colombini
Musiche: Andrea Mariano
Suono: Alessandro Bianchi e Ivano Mataldi
Italia, 2011 – Drammatico – Durata: 84′
Cast: Diane Fleri, Luca Marinelli, Ernesto Mahieux, Luigi Catani, Marina Rocco, Andrea Bosca, Claudia Della Seta
Uscita: 18 aprile 2013
Distribuzione: Fandango

Sale: 13

 Precarietà esistenziale in un paesaggio geometrico

Lo scorso febbraio, Fabrizio Ferraro e il suo Quattro notti di uno straniero ci hanno ricordato che si può fare cinema azzerando completamente il testo, spalancando di fatto le porte della sala a un’opera la cui “narrazione” (sarebbe più corretto nel suo caso parlare di scorrimento del tempo/time code) si appoggia solo e soltanto al potere intrinseco delle immagini, mediante il senso che la successione, la costruzione e la dinamicità attoriale o delle cose di e all’interno di esse restituisce al fruitore. Sulla stessa linea di pensiero, seppur con traiettorie espressive e mezzi diversi, sembra viaggiare anche Elisa Fukas, all’esordio dietro la macchina da presa in un lungometraggio di finzione con il film Nina, fresco vincitore della menzione speciale della giuria all’ultima edizione del BIF&ST e sugli schermi nostrani a partire dal 18 aprile con le quindici copie messe a disposizione dalla Fandango.
A tal proposito, bisogna tenere sempre ben presente che l’essenza primigenia della Settima Arte è legata sin dalla sua notte dei tempi ad immagini catturate e racchiuse in un quadro cristallizzato o cinetico, ma anche che un regista deve e può usare la macchina da presa come un pittore usa i pennelli sulla tela come teorizzato da Astruc nel principio della “Caméra stylo”. Ciò comporta che alla drammaturgia classica, costruita sulle parole e su un testo, si preferisca un racconto visivo, estetico e formale, che punta tutto sull’astrazione, la metafora e la rievocazione. Tutto questo converge nella pellicola di Ferraro, diventando una regola inviolabile che auto-regolamenta e influenza l’intero processo creativo, mentre in quella della giovane collega capitolina si assiste a un iter concettuale e pratico meno rigido e aperto, ma comunque legato agli stessi principi di base. La Fukas non rinnega totalmente il testo, né lo bandisce dalla sceneggiatura o dallo schermo, piuttosto lo riduce e lo scarnifica all’insegna di un minimalismo che offre l’indispensabile per la nascita di un plot. La regista romana lavora di sottrazione narrativa, accumulando invece stratificazioni di significati sul fronte formale. Due strade, queste, che scorrono parallelamente, si intersecano di tanto in tanto, ma che a conti fatti restituisco la medesima intenzione autoriale. Il risultato sono due esempi speculari di cinema in cui è il dispositivo ottico ad essere privilegiato, sostenuto, stimolato e soprattutto trasformato in motore portante del corpus filmico. Ma se da una parte Ferraro firma una sorta di saggio teorico che vira verso l’istallazione, dall’altra la Fuksas realizza una via di mezzo che, per quanto possa affascinare e intrigare l’occhio dello spettatore, grazie a una regia che denota una certa maturità tecnico-stilistica e figurativa, allo stesso tempo nega ad esso il diritto ad assistere e ascoltare una storia. Un conto è escludere senza se e senza ma la presenza di un testo come coerentemente fatto da Ferraro (che nel 2011 aveva già dato alla luce un’operazione analoga dal titolo Penultimo Paesaggio), un altro è puntare si sull’aspetto visivo, dimostrando però di non volere fare a meno completamente di un plot. Sta qui il grosso tallone d’Achille di Nina, espressione tanto incerta quanto barcollante di un modo di fare e concepire il cinema figlio di un’idea che non trova corrispondenza nella sua applicazione.
Si è deciso pertanto di mettere a confronto e in relazione queste due opere per rendere chiaro il più possibile il perché di una bocciatura nei confronti dell’esordio della Fuksas, giustificandola e motivandola invece di stroncarla senza una spiegazione più o meno condivisibile. Padroneggiare e conoscere la macchina, il linguaggio e le sue potenzialità non è per nulla sufficiente. Il contenuto e la storia non sono degli optional, ma i motivi principali che spingono lo spettatore ad andare nelle sale e ad interessarsi di questo o quel film. Ciò non significa che la strada percorsa dalla regista romana sia sbagliata a priori, tant’è che un’operazione simile alla sua come Sette opere di misericordia dei fratelli De Serio ce lo ha dimostrano largamente, ma bisogna sapere lavorare di sottrazione, che non è facile, come non è semplice scarnificare la narrazione. Il paragone non regge, ma ci sentiamo di scomodare autori come Bresson e Ozu che hanno saputo fare del rigore formale, di un apparente minimalismo nel racconto che nasconde invece una tempesta di parole e significati, le solide fondamenta di un discorso retto da un rapporto simbiotico tra racconto e immagine. In Nina, a furia di asciugare e svuotare il testo, per restituire quella che la regista definisce “precarietà esistenziale” pensando alla situazione che vive la protagonista del suo film, si finisce con il perdere contatto con il pubblico, trasformando lo sguardo e la trasposizione di esso in estetica fine a se stessa. Le geometrie, così come le linee perfette e sinuose disegnate nello spazio dalla macchina da presa, che si fanno portavoce di un certo gusto nella costruzione dell’inquadratura, consegnano allo spettatore un involucro ben confezionato ma privo di emozioni, a loro volto congelate. Ed è la mancanza di esse l’altro grande problema con il quale si deve scontrare la sceneggiatura.
L’apatia, la non volontà di manifestare i propri sentimenti, la paura di una normalità, fanno parte della dimensione esistenziale della protagonista di Nina, una giovane donna incapace di sentire gli altri e soprattutto se stessa. Questo la porterà a una posizione di attesa, passaggio e incompiutezza nei confronti della vita, con una Diane Fleri che mentre la interpreta è chiamata dalla Fuksas a girare come una turista per le strade spoglie, asettiche e glaciali dell’Eur, in una Roma bollente in pieno esodo estivo, che nelle intenzioni dell’autrice voleva essere una cartina tornasole della condizione interiore del personaggio principale. Un’idea piuttosto logora e poco originale, condita da tocchi surreali che non bastano a risollevare le sorti (la scena delle bolle e degli origami giganteschi). Un’idea che toglie anch’essa ulteriore interesse a un’operazione della quale non si sentiva l’esigenza e della quale non sentiremo di certo nostalgia. Ciò che ci spinge, però, a nutrire curiosità nei confronti di una seconda prova registica della Fuksas (in work in progress) è il vedere se riuscirà a mettere la regia al servizio di un vero plot. Non ci resta che attendere fiduciosi.
RARO perché… è un film sui generis! 

Voto: * *

Francesco Del Grosso