(Don’t Come Knocking)
Regia di Wim Wenders
Con Sam Shepard, Jessica Lange, Tim Roth, Gabriel Mann, Sarah Polley, Fairuza Balk, Eva Marie Saint.
Drammatico , colore, 122 min.
Recensione n.1
Don’t come knocking è prima di tutto un atto d’amore nei confronti di un’immaginario, quello del cinema western classico di fordiana memoria. Le sconfinate praterie e gli ammassi rocciosi del Grand Canyon aprono la strada alla fuga di Howard, un grandissimo Sam Shepard che ha deciso di interpretare, dopo averne scritto la sceneggiatura a quattro mani con Wim Wenders, questo nuovo capitolo della filmografia del grande regista tedesco. Che, come detto, ha un inizio da mettere i brividi, sin dalla prima sequenza, dove compaiono due giganteschi occhi che, in realtà, sono due cavità di una parete rocciosa stagliate contro il cielo, ed accompagnano la lunga cavalcata di Howard, deciso ad abbandonare il set di un film western del quale è protagonista. La fuga lo porterà, non si comprende bene se volutamente oppure seguendo il caso, a ritrovare dapprincipio la madre, e poi un figlio di cui ignorava l’esistenza. La produzione sguinzaglia un investigatore che si mette immediatamente sulle sue traccie, interpretato da un Tim Roth in versione molto “tarantiniana”, giacca e cravatta e sguardo da duro. Ance se, in una delle sequenze più godibili, la madre di Howard lo ingannerà con il terribile strumento dei biscotti fatti in casa! Inevitabile che il viaggio si faccia metafora della
ricerca di se stesso. Howard lascia il cavallo ad un ranchero barattando l’animale con dei vestiti più civili, vuole spogliarsi di tutto iciò che riguarda il suo passato, straccia tutte le carte di credito, distrugge il telefonino, noleggia un’auto ma si accorge che anch’essa è un residuo della sua vecchia esistenza ed allora prende l’autobus. Questo primo viaggio lo porterà alla ricongiunzione con la madre, mentre il secondo, con la macchina del padre morto da oltre vent’anni, alla ricerca di una famiglia che non aveva mai voluto e che non ne vuole sapere di lui. Howard è veramente il cowboy spaccone che interpreta nei film, il suo passato ci viene narrato da una raccolta di ritagli di giornali, ma anche l’Howard del presente non è altro che un bambino cresciuto incapace di assumersi le proprie responsabilità, facile al bicchiere, avvezzo al gioco d’azzardo ed al sesso facile. Come detto, la seconda parte del film mette di fronte, per la prima volta nella sua vita, il protagonista a delle scelte, a delle considerazioni sugli sbagli che ha compiuto, alla consapevolezza di non essere più un ragazzino. Lo scontro verbale con Doreen, la donna che gli ha dato un bambino e interpretata da una ancora splendida Jessica Lange, è davvero originale: Wenders ce lo mostra da dietro la vetrata di una palestra dove due ignare ragazze stanno facendo ginnastica. Ma il momento cinematografico più forte è quello che si svolge in strada dove il figlio di Howard ha scaraventato tutto il suo arredamento, compreso un divano. Seduto sul divano in mezzo alla strada, con una avvolgente panoramica circolare che tramuta il pomeriggio in sera, poi in notte e poi di nuovo al mattino, il protagonista cercherà di trovare la strada giusta per poter lasciarsi alle spalle il passato. Un film da guardare, come suggerisce la prima inquadratura, perché il regista ritrova in parte il suo afflato poetico. Semmai, il problema di Wenders è che è Wenders, nel senso che dal genio di Alice delle città e Nel corso del tempo ci si aspetta sempre qualcosa di più, per cui anche da questo film decisamente riuscito si esce con un po’ di amaro in bocca. Nota di merito alla splendida colonna sonora sotto il segno del folk, del country e del blues, con alcune inflessioni di leonina memoria, curata dal grande T-Bone Burnett.
VOTO:7
Mauro Tagliabue
Recensione n.2
E’ evidentissima l’influenza su questa ultima fatica di Wim Wenders del pittore americano Edward Hopper, e il film ci restituisce una fetta d’america struggente e malinconica (per chi non lo conoscesse è consigliata vivamente una ricerca sul grande pittore statunitense).
In quest’apologia “post-western”, un divo del cinema yankee di frontiera, interpretato da un magistrale Sam Shepard (Howard), che è anche coautore della sceneggiatura, abbandona un set cinematografico e comincia un viaggio alla ricerca di se stesso, di ciò che è stato e della sua “origine”; un viaggio che lo porterà alla conoscenza della propria paternità, e, come un lontano ricercatore che ha smarrito le proprie tracce, proverà a ritornare sui suoi passi e di porre rimedio ai tanti errori, o forse no, neanche questo, ma invece cercherà di capire dove e perché si sia smarrito, infatti neanche lui sa bene come e perché si ritrova in viaggio, e poi in questa località remota del Montana.
Jessica Lange che interpreta Doreen è brava nel ruolo della cameriera livida che ha tirato su il figlio, un tipico individuo di un’america non newyorkese, non losangelina, non post-moderna, ma arroccata nei suoi miti e tradizioni country e rock, e la località del Montana è un classico esempio di cittadina dei primissimi anni 60, immersa nei giorni d’oggi come un hot dog nella senape; un america diversa e più autentica di quella che conosciamo adesso.
C’è un America che mantiene quel tipo di fascino che si prova quando si va da qualche negozio di modernariato al cui interno ci sono oggetti e mobili dei “sixties”. E’ figlia primogenita di quel mondo la realtà che il film percorre; una realtà comunque acquattata nella modernità di oggi, fatta di “credit cards”, asettici computer, disagio metropolitano, ecc.
Ma gli Stati Uniti contemporanei fanno solo da contrappunto a quest’america sospesa e ben radicata nei suoi costumi, e visivamente nella sua iconografica tradizionale. Credo che non sia un caso che anche un film recente come “Dear Wendy” attinga a questo humus, forse perché mai come adesso si è aperta una riflessione sugli “States”, le loro origini, la loro “missione”, la loro identità. E’ nato un cinema che si occupa di un “america senza tempo”, anche se immersa nella contemporaneità, e chissà, forse è anche un modo per celebrare e stigmatizzare una nazione in trasformazione nel mondo che a sua volta cambia, magari per la sotterranea paura di evoluzioni diverse con conseguente perdita di tutti i riferimenti positivi e negativi che hanno caratterizzato la cultura occidentale dal dopoguerra in poi, e in ultimo ci potrebbe essere anche una sorta di “operazione nostalgia”.
Sul regista cult Wim Wenders è stata sempre evidente l’influenza di mostri sacri come Nicholas Ray, Howard Hawks e Douglas Sirk, ciò è palese nel suo senso dello spazio, del viaggio, della frontiera e talvolta dei rapporti umani. E’ ovvio poi che la personale poetica del regista tedesco si sia nutrita di una visione personale e di un intimismo o cultura europei.
“Don’t come Knocking” ha però il difetto di voler ostentare la sua “qualità d’autore”, quasi come fosse una marca o un pedigree, o meglio, come se dovesse esibire per forza il suo impegno intellettuale attraverso momenti forti che non devono deludere quel tipo di pubblico che non segue con grande entusiasmo il cinema popolare, comunque è un difetto che si può tranquillamente perdonare.
Il film ci regala alcuni monologhi intensi e delle battute veramente emozionanti.
Dolce, tenera e determinata è Sarah Polley che interpreta Sky, mentre è credibile Gabriel Mann nel ruolo del ribelle, inquieto e vigoroso Earl.
Il finale agrodolce ci offre nuovi spiragli e consapevolezze da parte di tutti.
Tim Roth ci offre una misurata e funzionale interpretazione nel ruolo del funzionario dell’assicurazione che ha il compito di riportare Howard sul set: “Il Mondo è un brutto posto, e io ce lo voglio tenere fuori dalla mia vita il più possibile”, ci dice, e, in fin dei conti, l’attempato attore-cowboy è uno che il mondo che conta di più l’ha davvero tenuto fuori, a modo suo.
Gino Pitaro newfilm@interfree.it
Recensione n.3
Esiste un solo modo di girare un film come Don’t Come Knocking. Purtroppo non è quello in cui lo ha girato Wenders.
Non devi essere americano per raccontare l’America senza sembrare europeo. Lo ha dimostrato Leone (C’era una volta in America), Polanski (Chinatown), autori meno presenti nei libri di storia come Sergio Corbucci (Il Grande Silenzio). Europei raccontano la propria visione della Grande Terra. Lo fanno bene, lo fanno meno bene, ma il mood è quello giusto, di europeo resta una diversa professionalità, spesso neanche quella. È una regola segreta consolidata, una questione di rispetto verso un immaginario.
Wenders, invece, come al solito, piscia fuori dal vaso.
Prende quanto di più c’è di cool, deserticavalliselvaggidinersneonpaesaggidiprovincia e lo distribuisce generosamente, in modo quasi femminile, senza farci mancare nulla. Non un cartello stradale arrugginito, non un virtuosismo della cinepresa che si possa permettere. Non rinuncia a nulla.
E qui il film fallisce. Un film che sarebbe potuto entrare negli annali, con I Cancelli del Cielo, con Pat Garret & Billy The Kid. Un soggetto da leccarsi le dita. Una sceneggiatura che Wenders non avrebbe dovuto co-scrivere. Sam Shepard portava in sé tutto l’immaginario che serviva. L’apporto di Wenders nella sceneggiatura, ingombrante, rende lo zucchero melassa.
E’ l’esatto corrispettivo cinematografico del romanzo breve American Dust di Richard Brautigan. Scritto negli anni ’80, fa per voi, se il film vi è piaciuto. Sono due opere davvero affini. Due potenziali colonne della cultura mondiale. Hanno fallito dove Micheal Cimino, Francio Ford Coppola, Raymond Carver, John Fante hanno capito quello che andava capito.
Insomma, Don’t Come Knocking è come uno di quei bambini che si compiace nel farti ridere una volta, e insiste a fare il buffone a oltranza, mettendoti in imbarazzo.
A suo modo, disperato.
Stefano Mutolo
Recensione n.4
E’ evidentissima l’influenza su questa ultima fatica di Wim Wenders del pittore americano Edward Hopper, e il film ci restituisce una fetta d’america struggente e malinconica (per chi non lo conoscesse è consigliata vivamente una ricerca sul grande pittore statunitense).
In quest’apologia “post-western”, un divo del cinema yankee di frontiera, interpretato da un magistrale Sam Shepard (Howard), che è anche coautore della sceneggiatura, abbandona un set cinematografico e comincia un viaggio alla ricerca di se stesso, di ciò che è stato e della sua “origine”; un viaggio che lo porterà alla conoscenza della propria paternità, e, come un lontano ricercatore che ha smarrito le proprie tracce, proverà a ritornare sui suoi passi e di porre rimedio ai tanti errori, o forse no, neanche questo, ma invece cercherà di capire dove e perché si sia smarrito, infatti neanche lui sa bene come e perché si ritrova in viaggio, e poi in questa località remota del Montana.
Jessica Lange che interpreta Doreen è brava nel ruolo della cameriera livida che ha tirato su il figlio, un tipico individuo di un’america non newyorkese, non losangelina, non post-moderna, ma arroccata nei suoi miti e tradizioni country e rock, e la località del Montana è un classico esempio di cittadina dei primissimi anni 60, immersa nei giorni d’oggi come un hot dog nella senape; un america diversa e più autentica di quella che conosciamo adesso.
C’è un America che mantiene quel tipo di fascino che si prova quando si va da qualche negozio di modernariato al cui interno ci sono oggetti e mobili dei “sixties”. E’ figlia primogenita di quel mondo la realtà che il film percorre; una realtà comunque acquattata nella modernità di oggi, fatta di “credit cards”, asettici computer, disagio metropolitano, ecc.
Ma gli Stati Uniti contemporanei fanno solo da contrappunto a quest’america sospesa e ben radicata nei suoi costumi, e visivamente nella sua iconografica tradizionale. Credo che non sia un caso che anche un film recente come “Dear Wendy” attinga a questo humus, forse perché mai come adesso si è aperta una riflessione sugli “States”, le loro origini, la loro “missione”, la loro identità. E’ nato un cinema che si occupa di un “america senza tempo”, anche se immersa nella contemporaneità, e chissà, forse è anche un modo per celebrare e stigmatizzare una nazione in trasformazione nel mondo che a sua volta cambia, magari per la sotterranea paura di evoluzioni diverse con conseguente perdita di tutti i riferimenti positivi e negativi che hanno caratterizzato la cultura occidentale dal dopoguerra in poi, e in ultimo ci potrebbe essere anche una sorta di “operazione nostalgia”.
Sul regista cult Wim Wenders è stata sempre evidente l’influenza di mostri sacri come Nicholas Ray, Howard Hawks e Douglas Sirk, ciò è palese nel suo senso dello spazio, del viaggio, della frontiera e talvolta dei rapporti umani. E’ ovvio poi che la personale poetica del regista tedesco si sia nutrita di una visione personale e di un intimismo o cultura europei.
“Don’t come Knocking” ha però il difetto di voler ostentare la sua “qualità d’autore”, quasi come fosse una marca o un pedigree, o meglio, come se dovesse esibire per forza il suo impegno intellettuale attraverso momenti forti che non devono deludere quel tipo di pubblico che non segue con grande entusiasmo il cinema popolare, comunque è un difetto che si può tranquillamente perdonare.
Il film ci regala alcuni monologhi intensi e delle battute veramente emozionanti.
Dolce, tenera e determinata è Sarah Polley che interpreta Sky, mentre è credibile Gabriel Mann nel ruolo del ribelle, inquieto e vigoroso Earl.
Il finale agrodolce ci offre nuovi spiragli e consapevolezze da parte di tutti.
Tim Roth ci offre una misurata e funzionale interpretazione nel ruolo del funzionario dell’assicurazione che ha il compito di riportare Howard sul set: “Il Mondo è un brutto posto, e io ce lo voglio tenere fuori dalla mia vita il più possibile”, ci dice, e, in fin dei conti, l’attempato attore-cowboy è uno che il mondo che conta di più l’ha davvero tenuto fuori, a modo suo.
Gino Pitaro newfilm@interfree.it