Scheda film
Regia: Claudio Caligari
Sceneggiatura: Claudio Caligari, Francesca Serafini, Giordano Meacci
Fotografia: Maurizio Calvesi
Montaggio: Mauro Bonanni
Scenografie: Giada Calabria
Costumi: Chiara Ferrantini
Musiche: Paolo Vivaldi
Italia, 2015 – Drammatico – Durata: 100′
Cast: Luca Marinelli, Alessandro Borghi, Roberta Mattei, Silvia D’Amico,
Alessandro Bernardini, Valentino Campitelli, Danilo Cappanelli
Uscita: 8 settembre 2015
Distribuzione: Good Films

Il canto del cigno

C’è chi con anni di carriera alle spalle e una filmografia sterminata di titoli non ha reso nemmeno una minima parte di quanto Claudio Caligari ha invece restituito sullo schermo con soli tre colpi in canna andati regolarmente a segno, destinati a rimanere impressi nella memoria di tutti coloro che sanno riconoscere barlumi di grande cinema fra i cumoli di spazzatura audiovisiva made in Italy. Non saliremo sul carro dei vincitori ora che Non essere cattivo ha ottenuto un meritatissimo e unanime successo, poiché il mea culpa se lo devono fare tutti coloro, noi compresi della stampa nel momento stesso in cui abbiamo smesso di parlare del lavoro del cineasta di Arona scomparso a Roma lo scorso 26 maggio, che diversamente da Valerio Mastandrea si sono girati dall’altra parte. Lo facciamo per rispetto dell’autore e di noi stessi il non accodarci all’ipocrisia che tanti addetti ai lavori hanno messo in Mostra durante le giornate lidensi e dopo l’uscita in sala l’8 settembre. Ora che si è stabilita una certa distanza, solo ora ce la sentiamo di abbozzare una critica più o meno condivisibile ed esaustiva che prontamente vi offriamo sulle nostre pagine, scusandoci in anticipo per il lungo cappello introduttivo, ma per noi doversoso per spiegare il perché del ritardo nella pubblicazione di questa recensione.

Abbiamo preferito lasciare passare qualche giorno per fare in modo che la manifestazione di cotanta ipocrisia si attenuasse, il clamore sbollentasse e le critiche piovute su Barbera per non aver selezionato la pellicola nel poker del concorso di Venezia 72 rientrassero, non per estraniarsi dalla massa elevandoci a chi sa che cosa, piuttosto per metabolizzare ancora di più quanto abbiamo potuto vedere, ascoltare e vivere, grazie all’ultima (purtroppo) fatica dietro la macchina da presa del regista piemontese. Si perché proprio di fatica si deve parlare in questo caso per portare a termine l’ultima stupenda opera firmata da Caligari. Di anni ne sono trascorsi, infatti, diciassette da L’odore della notte, ai quali se ne vanno ad aggiungere altri quindici per riavvolgere le lancette sino al 1983, che è stato il testimone oculare del folgorante battesimo di fuoco diventato cult conosciuto come Amore tossico. Una serie di suoi progetti sono naufragati dal 1998 in poi, altri rimasti nel cassetto come Anni rapaci, vuoi per la mancanza di coraggio e di lungimiranza dei produttori nostrani, vuoi per l’incapacità cronica di Caligari, mista a orgoglio e testardaggine, di scendere a compromessi. C’è stato dunque un concorso di colpe che può in qualche modo giustificare la sua lunga lontananza dal grande schermo, non di certo l’inattività e il silenzio, poiché da quanto emerso dalle parole di Mastandrea e dalle righe impresse nel 2014 nella famosa lettera indirizzata al mondo del cinema, il regista non ha mai smesso di scrivere e riscrivere sceneggiature, annotare e buttare giù idee.

Non essere cattivo verrà ricordato per tanti motivi, non solo per essere “il canto del cigno” di un regista, ma in primis perché è un grandissimo film, capace come pochissimi altri negli ultimi decenni dell’asfittica produzione tricolore di emozionare, passando attraverso un mix straordinariamente efficace di colori, toni e registri. Un progetto capace di compiere un autentico miracolo, ossia quello di vedere una pellicola italiana co-prodotta da Rai Cinema e da Mediaset attraverso la Taodue. Cercheremo per un attimo di non pensare che si tratta dell’ultimo film diretto da Caligari e che non ce ne saranno purtroppo altri, perché al contrario il solo pensare a ciò che in questi anni avrebbe potuto realizzare dietro la macchina da presa fa ancora più male guardando invece quanto di mediocre è stato prodotto dalla nostra cinematografia in questi decenni.

L’opera terza del regista piemontese è come le precedenti un colpo sferrato direttamente alla bocca dello stomaco, di quelli che ti mandano KO dopo averti costretto alle corde per tutto il tempo. Non essere cattivo non ha paura di dire e di mostrare, non ha filtri di nessun tipo, ma solo una serie di frecce da scagliare sulla platea di turno. Il linguaggio visivo e drammaturgico è figlio legittimo del modo di fare e concepire la Settima Arte da parte di colui che gli ha dato origine prima sulla carta e poi sullo schermo. Il risultato è un riflesso condizionato di una scrittura e di una messa in quadro perfettamente riconoscibili, quanto il disegno dei personaggi, dei gesti, delle parole, delle dinamiche e delle azioni, malvage o benevole che siano, catturate e riversate sul grande schermo; quanto il modo incredibilmente realistico di mostrare gli spazi e di restituire le atmosfere, i sapori e gli odori di una periferia romana popolata da una fauna di pasoliniana memoria; quanto la capacità più unica che rara di non scivolare nelle sabbie mobili di stereotipi sulla tossicodipendenza e della dipendenza in generale, dello spaccio e della malattia, della criminalità e della povertà.

Con il suo terzo acuto, che non vogliamo paragonare ad altro, maneggia senza esitazione alcuna, senza remore e senza la paura di intaccare la suscettibilità dei ben pensanti, temi forti con immagini forti. L’equazione genera un cocktail allucinogeno che Caligari e il suo staff iniettano direttamente nelle vene degli spettatori. Sullo schermo si materializza un romanzo di deformazione umana, di redenzione e di autodistruzione che non contempla per nessuna cosa al mondo la possibilità di un pareggio a reti inviolate, ma solo la presenza di vincitori e di viti, di persone che hanno saputo rialzarsi e di altre, fino alle estreme conseguenze, che non ne hanno avuto la forza. Per farlo ci rispedisce nella Ostia del 1995, quella già raccontata in Amore tossico un decennio prima, creando un ponte invisibile sin dalla primissima inquadratura, dove con un filologico parallelismo ci ritroviamo nella medesima location mostrata mediante lo stesso punto macchina e la stessa inquadratura, ossia un campo lunghissimo che apre una finestra sul lungomare. Il tempo si cristallizza fermandosi in quei pochi fotogrammi, con una citazione non gratuita che cancella lo iato fra le due pellicole e i trentadue anni che le separano. Siamo al seguito di Vittorio e Cesare, ragazzi poco più che ventenni, amici da sempre e “fratelli di vita”; una vita di eccessi consumata fra notti in discoteca, macchine potenti, alcool, droghe sintetiche e spaccio di cocaina. Vivono in simbiosi ma hanno anime diverse, entrambi alla ricerca di una loro affermazione. L’iniziazione all’esistenza per loro ha un costo altissimo e Vittorio col tempo inizia a desiderare una vita diversa: incontra Linda e per salvarsi prende le distanze da Cesare, che invece sprofonda inesorabilmente. Si ritrovano qualche tempo dopo e Vittorio cerca di coinvolgere l’amico nel lavoro. Cesare, dopo qualche resistenza, accetta: sembra finalmente intenzionato a cambiare vita, frequenta Viviana (ex di Vittorio) e sogna di costruire una famiglia insieme a lei. Ancora una volta però il richiamo della strada avrà la meglio sui suoi propositi. Nonostante le continue cadute dell’amico – e anche a dispetto delle discussioni che deve affrontare con Linda su questo punto – Vittorio non abbandonerà mai veramente Cesare, in virtù del legame fortissimo che li unisce e nella speranza di poter guardare al futuro con occhi nuovi. Insieme.

Ci troviamo a fare i conti con un’altra cruda storia di dipendenza dagli stupefacenti, raccontata con ironia mordente, con ferocia e con gusto del paradosso, priva di qualsiasi retorica o moralismo a buon mercato, affidata questa volta, non ad attori non professionisti, ma a un cast in stato di grazia, dove primeggiano Marinelli e Borghi nei due ruoli principali. Le loro perfomance elevano all’ennesima potenza l’intensità, la veridicità e la potenza catartica che straripano dalle pagine dello script, asciutto e solidissimo come la regia e la messa in scena, calate in una cloaca malata e marcia dove e facile perdersi, ma anche provare e ritrovarsi.

Voto: 9

Francesco Del Grosso