Regia: Sergio Castellitto
Sceneggiatura: Sergio Castellitto, Margaret Mazzantini
Interpreti: Penelope Cruz, Sergio Castellitto, Claudia Gerini, Angela Finocchiaro,
Marco Giallini, Pietro De Silva, Elena Perino
Musiche originali: Lucio Godoy
Montaggio: Patrizio Marone
Fotografia: Gianfilippo Corticelli
Scenografia: Francesco Frigeri
Costumi: Zaira De Vincentiis
Recensione n.1
Piove a dirotto, il tergicristallo gira a vuoto su una macchina ferma davanti ad un motorino rovesciato. Le persone viste dall’alto brulicano confusamente attorno all’accaduto come tante formiche. La macchina da presa scende lentamente e si avvicina. Una ragazzina è sdraiata a terra sotto la pioggia incessante, mentre l’acqua gocciola a scivola via sopra un casco aperto in mezzo alla strada. E’ questo l’incipit di “Non ti muovere”, film tratto dall’omonimo romanzo di Margaret Mazzantini, che vede Sergio Castellitto, marito della scrittrice, cimentarsi per la seconda volta come regista (dopo “Libero burro” nel ‘99).
E’ un film introspettivo e sudicio, intenso e sporco, violento e brutale. Il sudiciume ricopre Italia (Penelope Cruz), una povera prostituta vestita di stracci che affoga la sua disperazione e miseria in un trucco troppo pesante. Ma il sudiciume ricopre anche Timoteo (Sergio Castellitto), che anche se affermato e dignitoso chirurgo, sposato con una bella donna, perfetta e impeccabile (Claudia Gerini), non esita a violentare una donna. La donna è proprio Italia e così comincia la relazione extraconiugale di Timoteo, una relazione che è come una fuga da una vita troppo borghese e ovattata. Un uomo sporco, proprio come Italia, e vile: oscilla confusamente tra le due relazioni, eternamente sospeso e indeciso, squilibrando sé stesso e chi gli sta attorno. Un film introspettivo perché di fronte alla possibile morte della figlia (la vittima dell’incidente iniziale), ripercorre i quindici anni passati (età della figlia), riflettendo sulle bugie, i tradimenti, gli sbagli e i sensi di colpa. Il flashback scorre nel film parallelo ai tragici momenti dell’operazione, in cui la figlia è appesa al sottilissimo filo della vita e lui aspetta volontariamente fuori dalla sala operatoria perché emotivamente sconvolto. Entra solo quando sembra che stia morendo e le preme violentemente il petto per non farla andare via, “Non ti muovere, Angela”. Presente e passato sono i due binari su cui passa il treno della storia, proprio come avviene nel romanzo. A livello narrativo, invece, i due binari sono quelli della vita e della morte. Gravidanza, nascita, aborto e morte, percorrono il film mescolandosi ripetutamente. Significativo il momento in cui subito dopo l’inquadratura della testa sanguinante della figlia sul lettino, appare Timoteo in ascensore con in braccio la figlia appena nata, nascita avvenuta in concomitanza con l’episodio drammatico dell’aborto (costretto dall’abbandono di Timoteo) di Italia.
La trasposizione di Castellitto è volutamente fedele al testo scritto, anche in pellicola i piani temporali si alternano, e intere scene e dialoghi sono perfettamente identici. Ovviamente l’adattamento comporta sempre qualche sacrificio. Quello più rilevante è l’eliminazione della voce narrante del protagonista (Timoteo – Castellitto): i pensieri sono stati trasformati in dialoghi e immagini. Avendo letto il libro, forse il film appare molto più suggestivo, perché non sempre il pensiero di un particolare momento viene reso visivamente: se è stato letto il libro, capita che dietro agli sguardi, alle smorfie, e agli occhi lucidi, affiorino alla mente i pensieri dei personaggi, rendendo più completa ed emozionante la scena. Una per tutte quando nel finale Timoteo chiede a Italia “Cosa guardi?” e poi tutti e due sul letto di ospedale guardano il soffitto. Solo chi ha letto il libro sa che Italia guardava il figlio che non ha mai avuto, che la stava venendo a prendere. Tuttavia questo è solo un surplus, perché il film emoziona a prescindere dalla fonte da cui è stato tratto, insomma brilla di luce propria. Dolorosamente toccante grazie alle scene drammatiche (aiutate visivamente dalla pioggia, spesso presente) ma soprattutto per la straordinaria bravura degli attori, la Cruz nella sua bellissima bruttezza è eccezionale, pietosa, semplice, arrendevole e sottomessa, la sua parlata spagnola (non ha voluto essere doppiata) non intacca minimamente il carattere del personaggio. Castellitto invece convince più nelle scene dolorose (bravissimo), che in quelle erotiche. Musiche intense, un’inedita canzone di Vasco Rossi scritta apposta per il film e la passionale “Gli amori” (Toto Cutugno, Salvatore de Pasquale)” , canzone che da extradiegetica diventa diegetica e viceversa, creando un maggiore coinvolgimento.
E’ una storia struggente in cui Timoteo pur nei suoi irreparabili sbagli, riesce alla fine a riscattarsi e a risalire dal fango di una vita miserevole fino ad allora vissuta.
Marta Fresolone
Recensione n.2
Tratto dal bestseller omonimo, Non ti muovere è la storia di una passione travolgente, dei sensi e dell’anima, che rischia con il suo impatto di stravolgere il destino del protagonista, Timoteo, medico chirurgo ormai avvezzo alle sicurezze e alle ipocrisie della vita borghese. L’apollinea moglie Elsa – con la sua perfezione ed equilibrio che è anche freddezza e calcolo – e la dionisiaca amante Italia – che incarna invece la passione, il disordine e il caos dei sentimenti – rappresentano per Timoteo i due estremi esistenziali fra cui non riesce a scegliere. È rimbalzato infatti fra le due possibilità di vita, così diverse e speculari, fra il dover essere e l’essere quello che si è, fra gli obblighi sociali e la libertà del sé, fra la monotonia del quotidiano e l’eccitazione delle possibilità ancora aperte. Come spesso accade, sarà la vita a scegliere per lui. Anche se il ricordo di quell’amore abortito lo accompagnerà a lungo nell’esistenza, almeno fino a quando un segno del destino lo aiuterà a capire che è arrivato il momento di liberarsi del passato, del suo fardello e della sua memoria.
L’amore è cieco, sordo e muto. L’amore non sceglie, siamo noi a essere scelti dall’amore. L’amore è inaspettato, inopportuno, destabilizzante. Non vorremo mai amare, eppure il ricordo di chi ci ha amato ci accompagnerà per sempre. L’amore è un’irrealizzabile utopia, è fonte di sofferenza e pena. Nulla possiamo, l’unica salvezza è abbandonarsi alle emozioni che suscita in noi. A qualunque costo. O, almeno, questa è la scelta che fa Italia. Amare incondizionatamente Timoteo, aspettarlo per ore e ore, vivere per lui. Dargli tutto quello che la moglie Elsa non saprà mai dare: devozione, abbandono, abnegazione. È una donna da poco, forse. Ma è una donna che sa amare.
Chi aveva apprezzato il romanzo, non potrà che adorare il film. L’interpretazione di Sergio Castellitto è di un’intensità ineguagliabile, Penélope Cruz ci sorprende perché regge il confronto con quello che ormai è indubbiamente uno dei migliori attori italiani viventi. Convincenti anche gli altri interpreti: dalla Gerini alla Finocchiaro fino a Giallini. E sbalorditi ci lascia soprattutto la capacità registica di Castellitto che riesce a commuoverci, coinvolgerci, “tirarci dentro” lo schermo: siamo noi che viviamo questa storia, siamo noi Italia e Timoteo. Senza scadere mai nel sentimentalismo. Ottima la selezione musicale, persino Toto Cutugno come colonna sonora della scena del viaggio verso sud è perfetto. E non a caso la scelta delle canzoni cade spesso sulla musica di casa nostra quasi a dire – se non a urlare – che questo è cinema italiano!
Mariella Minna
Recensione n.3
Quando si e’ bambini capita che alla vista di parenti o conoscenti la mamma cominci con insistenza a squittire “Dai! Fai un sorriso! Eh su! Forza! Non ti far desidare!”. Ecco, il film di Castellitto, dall’omonimo successo letterario di Margaret Mazzantini, pungola lo spettatore con una dinamica non troppo dissimile: “Piangi! Dai! Spremi quelle lacr me!”. Purtroppo, pero’, la messa in scena di situazioni al limite dello strazio non produce l’effetto cosi’ meccanicamente ricercato. Non basta, infatti, seguire fedelmente un romanzo (la Mazzantini e’ anche co-sceneggiatrice) per trasmetterne la suggestione. Cio’ che funziona tra le pieghe di un libro non e’ detto che funzioni sul grande schermo, dove l’esposizione deve tendere a un delicato equilibrio per poter affrontare e superare l’infrangersi dell’immaginario di ciascun lettore. Ma anche prescindendo dal testo di origine, e’ proprio l’opera cinematografica in autonomia a non convincere. Nonostante infatti le buone prove recitative dei tre interpreti principali (Cruz, Castellitto, Gerini) e il tentativo di imprimere personalita’ al racconto con punti di vista ricercati e inquadrature originali, il film non decolla mai: affianca situazioni prevedibili (lo spettatore e’ sempre in grado di anticip re le svolte drammatiche e quando non accade le coincidenze paiono forzate), crea contrapposizioni forti, ma deboli nella loro scontatezza (nascite e morti variamente intrecciate, ricchezza e poverta’,candoree grettezza, citta’ e periferia, apparenza e intimita’, violenza e amore), eccede in simbologie (l’amplesso doloroso sulle conchiglie) e, soprattutto nella parte finale, insegue il facile effetto, perdendosi in tante (troppe!) scene madri dal limitato impatto emotivo. Causa principale, il peso dell’enfasi melodrammatica, l’impeto didascalico con cui ogni sequenza contiene i sottotitoli del dolore. Anche le virate surreali (la scritta sulla spiaggia, il dialogo con la dirimpettaia) e le scelte musicali ardite (Toto Cutugno e gli Europe in primis), pur apprezzabili concettualmente, finiscono per assumere toni grotteschi e stridenti. Cio’ di cui si sente maggiormente la mancanza e’ quindi la capacita’ di unire i singoli elementi con armonia, un senso della misura in grado di mantenere costante la tensione nei confronti dei personaggi e del loro destino. Invece il progetto, studiato a tavolino per scuotere, finisce per poggiarsi esclusivamente sulla resa espressiva degli attori. Per un po’ si sta al gioco, poi si cede al tedio, e dei protagonisti e della loro infelicita’ si finisce per infischiarsene.
Luca Baroncini (da www.spietati.it)
DIETRO LE QUINTE DEL FILM
Di seguito vengono riportati i retroscena del nuovo film di Sergio Castellitto, tratto dall’omonimo romanzo di Margaret Mazzantini, “Non ti muovere”.
Un dietro le quinte che svela segreti, fatti e curiosità che si possono celare dietro al controverso mondo del cinema.
Queste notizie oltre a svelare curiosità, rispondono a dubbi (non solo narrativi) che possono emergere dopo la visione del film.
Penelope Cruz
IL LINGUAGGIO: Italia è una donna del sud, una che viene dal Molise.
I dialoghi sono stati girati tutti in presa diretta. L’accento naturale della protagonista era un ostacolo da superare con allenamenti linguistici impegnativi: certo la bravissima Penelope non ha raggiunto proprio la cadenza molisana, un’impresa impossibile! Ma il “Non ti devi preoccupare” come lo dice Italia nel film è davvero suggestivo, come tante altre espressioni opportunamente cadenzate. Ci sono voluti giorni e giorni di studio e impegno.
C’era la preoccupazione che l’accento americano – spagnolo di Penelope potesse stonare. Allora il suggerimento è stato di farla passare come una molisana albanese. Castellitto volle informazioni delle comunità Albanesi del Molise. Così il monologo più lungo della Cruz, quello del mercato, fu fatto leggere ad una donna albanese prima nella loro lingua e poi in italiano nella cadenza di quelle comunità. E venne registrato tutto. Castellitto ascoltò la cassetta e il suo commento fu: “Perfetto!”. Ora nel film la madre della protagonista è albanese e la cadenza della Cruz è un elemento che personalizza tutto il film.
I GATTI: Penelope Cruz volle portare con sé un gattino di quelli randagi che circolavano attorno alla Casa di riposo dei vecchi dove era stato montato l’ospedale. Quando poi morì il suo personaggio Italia, Penelope, con il gatto, se ne partì. Grande tristezza nella troupe. Castellitto aveva la malinconia e volle che catturassero anche a lui un gattino di quelli randagi, ché se lo doveva portare. Però aggiunse:
“Fatelo vedere dal veterinario…”.
Il giorno dopo il gattino che avevano catturato per Castellitto, mentre si giravano le ultime scene in un altro posto, lontano dalla Casa di riposo, sfuggì dalle mani della ragazza che lo teneva e non si trovava più. Fu una tragedia. Fino a che non lo si ritrovò accucciato al caldo del motore di un furgone. Allora la ragazza si calmò.
La casa di riposo, dopo uno o due mesi, l’hanno chiusa per scabbia. E la scabbia la portano i gatti!
E se Penelope e Castellitto si fossero presi la scabbia e non l’hanno detto a nessuno?
ALTRO CHE DIVA…:
Un giorno arrivò ai vecchietti della casa di riposo un bel pacco regalo. Grande.
Mittente Penelope Cruz.
Tutti felicissimi del fatto che non si fosse scordata così facilmente della troupe e dell’esperienza, i vecchi erano ansiosi di vedere il regalo.
Quando aprirono il pacco, che pesava moltissimo, ne uscirono fuori dei barattoli. Molti barattoli. Era il cibo per i gatti là fuori! Proprio un bellissimo dono.
Penelope però coi vecchi era dolcissima. Ogni sera alla fine delle riprese si recava da loro. Li teneva per mano e parlava con loro passeggiando nell’atrio di quell’ospizio. La folla di fans stava fuori ad aspettare un autografo dalla diva del cinema, ma lei amava stare coi vecchi.
Crevalcore
Il cane di Italia, di nome Crevalcore, è costato una cifra come 700 euro al giorno. Tra l’altro nel film non è stato rappresentato cieco, come invece è nel romanzo (accentuando il senso di miseria e disperazione attorno alla casa di Italia).
Forse, farlo recitare non vedente sarebbe costato di più.
Costumi e Scenografie
I costumi di Claudia Gerini e di Sergio Castellitto sono di Cerruti 1881 (la fonte appare bene nei titoli di coda). Nel film c’è una bella inquadratura in grande della marca: pubblicità che di occulto ha gran poco.
Risposta: la pubblicità con le ditte è una questione che riguarda la produzione.
La costumista Zaira De Vincentiis è molto brava. Sul set le costumiste hanno un po’ il ruolo di mamme. Ti vestono, stanno attentissime e sempre gentilissime e ti guardano in continuazione fino a che non fai la ripresa. Ma non perché gli piaci, per assicurarsi che il loro costume sia in perfette condizioni.
Lo scenografo Francesco Frigeri è lo stesso del film “The Passion of the Christ”, che sta facendo tanto scalpore ancora prima di uscire.
La casa di Italia è stata costruita in una zona della periferia romana, dopo l’EUR, appositamente per il film. E’ costata la bellezza di 50 mila euro.
Le scene girate in Molise…
Nei titoli di coda come località molisana in cui sono state fatte le riprese viene segnalato solo Boiano, provincia di Campobasso. In realtà le scene girate in Molise non riguardano solo Boiano, ma anche comuni come Fossalto, Sepino, etc. A Boiano è stato girato l’intervento chirurgico e la morte d’Italia, trasformando l’obitorio della Casa per anziani, Gesù e Maria, in camera operatoria e costruendo appositamente la camera dove Penelope muore e qualche esterno (il passaggio del treno e il carro funebre che se ne va).
Altri tre giorni di ripresa si sono svolti al motel Da Roberto (realmente esistente), dove Italia si sente male. Da Roberto è un ristorante super attrezzato per i matrimoni, con varie sale per centinaia di persone, giardini e spazi esterni per raduni, fontane per le foto e addirittura una chiesetta e infine alcune stanze d’albergo. Il proprietario era il più gran rivenditore di tartufi del Molise, tartufi che esportava in tutto il mondo. Dopo le riprese del film sembra che gli abbiano tolto tutto: un capitale enorme. Ma come avrà fatto? Il popolino maldicente va dicendo che si sia giocato tutto a carte, ma è difficile crederci. Durante le riprese, comunque con la troupe si è comportato in modo squisito, grande ospitalità e generosità. E’ una persona con un gran cuore.
Per la ripresa del passaggio della automobile di Timoteo all’interno degli scavi di Altilia (Sepino), manco dieci secondi di film, si sono dovuti pagare alla Soprintendenza ai monumenti oltre 2000 euro, per legge.
Quando bisogna tagliare per forza…
Il personaggio del becchino, che nel romanzo trova molto spazio, nel film è stato drasticamente ridotto a due scene brevissime con dialoghi concisi. Pensandoci, è un peccato che nel film il protagonista non salga nemmeno in macchina, tutto il viaggio tra i due uomini (lungamente descritto nel libro), è eliminato a priori. Certo, non necessariamente si deve riproporre pari pari il libro sullo schermo, tuttavia il momento appare davvero affrettato. Si sarebbe potuto far vedere almeno che Timo (il protagonista) saliva in macchina (del resto diversamente stona parecchio perché lui era perdutamente innamorato della vittima) e mostrare un piccolo confronto psicologico tra i due uomini (bastava un brevissimo dialogo).
Altro elemento: che senso ha far vedere il becchino che si infila nel taschino della giacca una bustina di zucchero presa in Autogrill, se poi la cosa non è spiegata e portata avanti come avviene nel romanzo? L’impressione è che siano state girate varie scene, poi, tagliate (e fin qui così è avvenuto), però poi non sono state modificate le precedenti che con le successive trovavano un senso.
Risposte: innanzitutto il primo problema è stata la lunghezza. Del resto un libro così denso deve per forza subire una brusca riduzione. Due ore e cinque minuti sono più che sufficienti. Ma il motivo forte è un altro.
Sembra che Castellitto fosse entrato in contrasto con la produzione per aver accumulato tre settimane di ritardo nelle riprese. Qualche dissapore era emerso perciò per problemi economici: per le scene in esterno in Molise vi erano un gran numero di comparse e mezzi, che costavano parecchio.
Tra un contrasto e l’altro, proprio il giorno prima che si girassero queste benedette scene esterne del Molise, quelle con gli attori, (ad Altilia, al cimitero di paese dove avevano fatto scavare già la fossa, a Campobasso), ma proprio il giorno prima, il regista decise che quelle scene non si sarebbero più girate e tutto andò all’aria: quasi cento comparse non utilizzate, il padre di Italia che non si sa che fine ha fatto durante la trama, la bara di Italia che il protagonista manco sa dove va a finire, i mezzi di scena inutilizzati. Anche il prete che avrebbe dovuto celebrare il funerale (un prete vero nella realtà) si è lamentato con la troupe perché aveva portato la tonaca dal sarto che gli andava stretta e poi in lavanderia a farla stirare (erano anni che non usava più la tonaca lunga). E poi invece nessuno si era fatto più vedere.
Non deve essere stata una bella sensazione.
In pratica così si recuperarono alcuni giorni rispetto a quelli previsti: questione di soldi.
E così la bustina di zucchero viene presa e infilata nella giacca dal becchino, inspiegabilmente, perché Castellitto ancora non sapeva che il giorno dopo non avrebbe più girato le scene successive nelle quali quella bustina avrebbe avuto un suo specifico ruolo.
E se Castellitto l’avesse lasciata in fase di montaggio per dare sottinteso il viaggio verso il cimitero a chi ha letto il libro? Questo dubbio è anche giusto perché nel montaggio quella bustina poteva anche tagliarla.
La Prima a Roma: 9 marzo 2004
Alla prima c’era tutta la troupe, in buona parte amici e parenti tra di loro. Ad un certo punto una spettatrice si è sentita male, è svenuta, forse per il film (speriamo di no), forse per fatti suoi, ma è svenuta: l’ha soccorsa un chirurgo presente. Meglio, Il chirurgo del film, che nella vita è realmente un chirurgo!
Ma lo ha fatto controvoglia, l’hanno chiamato solo perché lo conoscevano e questo s’è perso il finale e non ha visto nemmeno il suo nome, che come quello degli attori minori compare sui titoli di coda, e che non si leggerà mai perché nelle sale accendono le luci e la gente se ne va.