Recensione n.1

Ogni cosa è illuminata dalla luce del passato, dei ricordi, della memoria. Una luce flebile, che sembra inghiottita dall’oscurità, o magari una luce accecante, talmente intensa da risultare insopportabile alla vista. Una luce, comunque, capace di staccare una storia dallo sfondo di un muro scalcinato, e di farla brillare.
E’ questo il tema fondante di “Everything is illuminated”, che l’esordiente regista Liev Schreiber ha scritto basandosi sull’omonimo romanzo di Jonathan Safran Foer.
“Ogni cosa è illuminata” è un road movie, un viaggio negli abissi della memoria e in una terra che ancora porta le cicatrici di una profonda ferita.
Jonathan è un ragazzo ebreo americano che si mette in viaggio per scoprire qualcosa di più sul proprio nonno, emigrato dall’Ucraina ai tempi della seconda guerra mondiale per sfuggire alla follia dell’antisemitismo. Il mistero è tutto racchiuso dentro una foto: il nonno ed una ragazza di nome Augustine, in un campo di grano. E un nome: Trachimbroad. Parola misteriosa, di cui nessuno sembra più sapere il significato. Ad accompagnarlo nella sua “rigida ricerca” c’è Alex, giovane ucraino che mastica un po’ di inglese e che si è specializzato in tour commemorativi di ebrei americani alla ricerca delle loro origini, nei luoghi dove molti loro
antenati furono uccisi. Alla guida dell’auto sgangherata, tra le colline gialle e verdi, rigogliose, c’è il nonno di Alex. Ufficialmente cieco. Ma un occhio che funziona non significa saper vedere e guardare.
Jonathan e il nonno di Alex sono i due poli attorno a cui viene costruita la narrazione.
Il giovane americano occhialuto è un collezionista di oggetti di famiglia. Un piccolo frammento può aiutare a tenere viva una storia, a ricordarla? “Ho paura di dimenticare”: è questo il suo incubo. Gli occhiali dalle lenti spesse, che gli ingrandiscono gli occhi azzurri, sono la metafora della curiosità intellettuale, della voglia di scoprire.
E la cecità del nonno di Alex? Tecnicamente, i suoi occhi vedono: vedono la strada, vedono il paesaggio, vedono le persone e l’amata cagnetta psicopatica. Ma l’occhio di un uomo non è solo quell’organo che gli consente di vedere il presente: è anche un archivio di immagini e di storie. Una memoria. E lui, invece, ha scelto di nascondersi, di scappare da un ricordo agghiacciante, di cancellare l’incancellabile. Ed è proprio mentre accompagna il giovane americano sulle tracce di Trachimbroad che i ricordi riaffiorano, dolorosi. Lui, ancora una volta, sceglie la fuga.
La memoria, dunque, è il cuore di questa storia.
La bellezza di questo film, però, sta soprattutto nelle sue contrapposizioni e nelle contraddizioni. Così anche la memoria può diventare pericolosa. E lo testimonia l’anziana sorella di Augustine, miracolosamente sopravvissuta alla follia nazista che ha spazzato via il villaggio ebreo di Trachimbroad. Vive in una casetta di legno, in mezzo ad un incantevole e sterminato campo di girasoli, fuori dal mondo, senza nemmeno sapere che la guerra è finita da 60 anni. Vive, o meglio, sopravvive. Nei ricordi. Come il giovane Jonathan, anche lei è una collezionista. In centinaia di scatole catalogate e incastrate meticolosamente conserva gli oggetti che gli abitanti dello shtetl (il villaggio abitato soltanto dagli ebrei) avevano sotterrato, prima di morire. Perché, prima o poi, qualcuno sarebbe venuto a cercarli. E magari, raccontandoli, sarebbe riuscito a farli rivivere.
Ma collezionare oggetti non basta a ricostruire una storia, una memoria. Una cicala viva, intrappolata in un sacchettino di plastica, smetterà presto di cantare. Ci sono cose che non si possono collezionare: suoni, atmosfere, emozioni. Come conservare la memoria allora? È necessario uno sguardo attivo, capace di cogliere o di inventare le relazioni tra i vari frammenti delle storie. Come sembra suggerire la scena finale dell’aeroporto, il non-luogo per eccellenza del viaggio, che si popola di presenze perturbanti.
Ed è proprio questa vivacità dello sguardo la chiave del film “Ogni cosa è illuminata”.
Un film piacevole, nello stesso tempo divertente e amaro, capace di mescolare l’ironia alla tragedia, scivolando lentamente da un piano all’altro. Un film anche coraggioso, che prova ad affrontare molti temi delicati e centrali per la nostra storia: dalla memoria allo sguardo, dalla necessità di raccontare alla follia della Shoà. Un film, però, che in alcuni momenti non riesce a decollare a causa di una struttura narrativa un po’ piatta, e che deve scontare un eccesso di freddezza e di rigidità. Testimoniato proprio dalla recitazione di Elijah Wood, nei panni del giovane Jonathan: un personaggio dall’aspetto triste, in cui la vivacità è solamente interiore. Un personaggio dai contorni sfumati, indefinito, quasi fosse un semplice strumento di archiviazione, di memoria.
Nonostante i suoi limiti, “Ogni cosa è illuminata” è un film da vedere. Per non dimenticare che il cinema è una parte fondamentale della nostra memoria.

Stefano Borgo

Recensione n.2

Il debutto nella regia dell’attore Liev Schreiber (tra le sue interpretazioni, “The Manchurian Candidate”, “Al vertice della tensione” e “Hurricane”) incrocia la ricerca delle sue personali radici con il famoso romanzo “Everything is illuminated” di Jonathan Safran Foer. Il risultato si può nettamente dividere in due parti. La prima è una commedia all’insegna del folclore dove a dominare la scena è l’incontro tra culture differenti, con l’americano che arriva in Ucraina per indagare sul proprio albero genealogico e ricostruire la storia del nonno partendo da una vecchia fotografia, che si trova, lui schivo ed introverso, ad incontrare personaggi dalla ruspante vitalità. La seconda, invece, vira alle lacrime, includendo la didascalia “per non dimenticare”. Le due parti mal si amalgamano finendo per stridere, ma anche prese singolarmente non fanno faville. Il problema è che la commedia punta tutto su personaggi caricaturali senza azzeccare i tempi comici; la svolta drammatica, invece, parte come un “Carramba che sorpresa” e non si accontenta di crogiolarsi nei ricordi o in una lieve malinconia, ma punta diritto alla tragedia. Le conseguenze dell’invasione nazista al centro del racconto sono ovviamente devastanti ed è importante sottolineare che ciò che è accaduto non deve riaccadere, ma la resa cinematografica degli eventi è poco incisiva e finisce per perdere di vista lo spessore dei personaggi. Il cast è interamente ucraino, a parte Frodo-Elijah Wood, costantemente stranito come richiesto da un ruolo che, però, avrebbe avuto bisogno di maggiore approfondimento. Scoppiettante il commento musicale dalle sonorità etniche.

Luca Baroncini de Gli Spietati