Recensione n.1

Violento, intensissimo, straziante e sconvolgente, pervaso da un’idea di cinema talmente vitale da farci riconciliare con la settima arte che si dice sia “in crisi”.
Il primo film di Chan-wook Park distribuito in Italia ci fa rammaricare di aver perso i precedenti e conferma l’Oriente in generale, e la Corea in particolare, terra d’elezione del cinema con la “c” maiuscola. Staremo a vedere se il pubblico occidentale sarà “pronto” a simili prodotti, infatti la pellicola contiene massicce dosi di violenza, quanto se non più del Kim Ki-duk prima maniera, quello per intenderci di Real Fiction e L’isola (mai distribuiti in Italia); e se l’approdo sui nostri schermi degli ultimi due film del (già) maestro coreano – al quale lo Spazio Oberdan ha recentemente dedicato una personale – fa ben sperare, si tratta comunque di opere meno estreme delle precedenti, seppur bellissime. Old Boy esula dai canoni del cinema commerciale ma anche di quello festivaliero, che a fatica ha trovato una nicchia di appassionati permettendoci di gustare al cinema i vari Wong Kar-Way e Tsai Ming-Liang; semmai si avvicina di più a certi canoni del cinema di genere, senza darsi completamente alle regole codificate dei generi come fanno gli horror di Nakata, Shimizu e soci. La storia è quella, sconvolgente, di un uomo costretto a vivere per 15 anni in un appartamento, senza sapere chi sia il suo carceriere ed il motivo della sua reclusione. Non pensiate però ad una versione moderna de Il processo, anche se certamente le atmosfere kafkiane sono da annoverare tra le fonti di ispirazione del regista. Infatti i quindici anni sono resi cinematograficamente in una mezz’oretta, e la domanda chiave che dovrà porsi il protagonista, e noi spettatori con lui, non sarà “perché sono stato rinchiuso” ma “perché sono stato liberato”. Alla ricerca della verità il protagonista affronterà una vera e propria via crucis di sangue e di violenza, s’innamorerà di una donna molto più giovane di lui e, ritornando con la memoria al passato, riuscirà a svelare l’enigma. La grande arma del film è quella di portare alla luce alcune tematiche, alcuni conflitti, stanti alla base dell’intreccio giallo, che ne sono i fondamenti, e che rappresentano la poetica, certo difficilmente interpretabile, del suo talentuoso autore. Ciò che rende Old Boy un gioiello è la capacità del regista di non sottovalutare alcun aspetto della messa in scena: l’intreccio giallo è curato nei minimi particolari e tiene lo spettatore con il fiato sospeso per due ore buone, il montaggio è veloce e coinvolgente senza dimenticare il rigore della messa in scena, la regia vola altissima e si concede soluzioni sempre originali, dalla macchina a mano traballante che segue Oh Dae-soo alla riscoperta del mondo, alle immagini sgranate dei flashback, ai virtuosismi come quando la ragazza sogna di trovarsi in metropolitana con una formica gigante (“quando sei solo sogni spesso le formiche perché sono sempre in gruppo, le invidi” dice la giovane protagonista).

Qualcuno probabilmente obietterà che alcune scene di violenza sono un po’ gratuite, ma non dimentichiamoci che il film intende mostrarci l’individuo moderno, svuotato di ideali, trasformato in un automa, mosso unicamente dall’istinto.
Film sull’impossibilità di non fare i conti col proprio passato, di non subire fino in fondo le conseguenze dei propri errori, sulla violenza come unico elemento di comunicazione della società contemporanea, sempre più spietata e disumanizzante (“sorridi e il mondo sorriderà con te, piangi e piangerai da solo”) la pellicola lascia aperto ogni spazio per l’interpretazione.
In ultima analisi, a parere di chi scrive, è un film sull’amore, meglio di una sua idea così radicale ed estrema da essere in grado di permeare l’intera vita di un uomo, da costringerlo a passare le pene dell’inferno per poterlo raggiungere, o per averlo impedito a qualcun’altro.

Old Boy ci dice che il cinema è un’arte ancora piena di vitalità, in grado di gettarci per due ore in un’altra realtà, di vivere fino in fondo il travaglio dei personaggi; probabilmente, la crisi della settima arte non dipende dal basso profilo degli autori ma dei distributori. Viva il cinema Coreano! VOTO: 8

Mauro Tagliabue

Recensione n.2

OLD BOY: MAIEUTICA DI UN AMORE IMPOSSIBILE
Un uomo viene rinchiuso in una stanza per quindici anni. Quando finalmente viene liberato gli si chiede: “stai meglio in una prigione più grande?”. Pensieri: il cinema, quello fisico e astratto è una prigione? È una prigione nella prigione (il mondo, la vita)?
Old boy è innanzitutto un film geniale. Poi è la seconda parte di una trilogia sulla vendetta diretta dal maestro semiesordiente Park Chan-wook, il cui primo film (Simpathy for Mr Vengeance) uscirà a giugno in dvd e il terzo (Simpathy for Lady Vengeance) sarà probabilmente a Venezia. Non esito quando dico che Old boy è uno dei film più inventivi/innovativi degli ultimi anni. La regia è una susseguirsi di invenzioni stilistiche di alto livello, si pensi al piano sequenza della lotta di Taesu in un corridoio, al montaggio anch’esso virtuoso, alla scelta digitale sottomessa all’arte. La struttura narrativa è sottoposta a perenne mutazione, come un corpo instabile, tesa verso una conclusione inaspettata e sicuramente ad effetto. La violenza nel film è smorzata da un senso ironico, quasi disincantato della vita, come a citare Tarantino. E di Tarantino c’è molto in quest’opera più unica che rara di Chan-wook, a partire dalla concezione della vendetta come motore inziatico del proseguire umano. Ma il regista coreano va oltre, crea un film a metà fra la stilizzazione estetica anni Novanta e l’analisi della vita come incubo mentale, inserendo il tutto in un contesto iperviolento e assolutamente metropolitano, come contemporaneità impone. La pellicola è sorretta da simboli, allegorie (la scena in cui Taesu si taglia la lingua, come contrappasso della sua colpa), millimetriche traiettorie che sono mente e corpo di un cinema (quello coreano) che si dimostra sempre più essere il futuro della Settima Arte, forse perché puro, forse perché retaggio della globalizzazione culturale, forse per il retroterra storico/politico fortemente travagliato del Paese. Old boy saluta, elogiandolo, il cinema del passato (il noir, un po’ di Lynch, tutto il surrealismo, un po’ di cinema underground giapponese), sposa quello contemporaneo (sicuramente Tarantino e tutti i suoi, inconsapevoli o no, seguaci), infine diventa simbolo di ciò che in parte rappresenta in immagini: Old boy è la storia di una amore impossibile, eppure realizzato. È maieutica pura, non solo per quel che riguarda i codici narrativi in sé, ma anche per ciò che rappresenta nel panorama cinematografico di oggi: una rinascita. Con tanti saluti al cinema fintamente moralistico hollywoodiano. Che si prepara a girarne il remake…
VOTO: 9

Andrea Fontana

Recensione n.3

E’ folgorante l’impatto del film di Park Chan-Wook. La fascinazione del suo scavare con la macchina da presa nella rabbia dei personaggi permette di mettere in secondo piano i limiti di un soggetto tutt’altro che originale, dove i conflitti assumono le tonalita’ nerastre degli archetipi classici della tragedia. La verita’, a lungo inseguita dal protagonista, racchiude il mistero di quindici anni di prigionia privi di apparente motivo. Il furto di un’esistenza nel vano tentativo di saldare conti con il passato, attraverso un sentimento di vendetta che cambia faccia nel corso della narrazione trasformando la vittima in carnefice. Ma non e’ la razionalita’ il giusto parametro per entrare nell’universo grottesco e iper-violento messo in scena da Chan-Wook; il regista coreano riesce infatti ad allontanare lo spettatore dalla sicurezza di confini reali per immergerlo visceralmente nella sua personale visione. Un punto di vista che nella violenza, spesso gratuita, ammicca al pulp di Tarantino (non e’ un caso il Gran Premio della Giuria allo scorso Festival di Cannes, in cui Tarantino era presidente di Giuria) ma si distingue dalle fotocopie d’oriente che invadono con sempre maggior frequenza gli schermi occidentali, tra l’autorialita’ di geometrie divenute maniera e le troppe piroette marziali in patina ormai sbiadita. In “Old Boy”, invece, la regia assume una valenza quasi narrativa perche’ scandisce i passaggi del racconto, di per se’ bislacchi ma lineari, con grande efficacia. Sono tante le invenzioni che spiazzano (una formica gigante in autobus), disorientano (la traiettoria di un martello pronto a colpire disegnata sulla pellicola), shoccano (un polipo mangiato vivo), stridono (l’incontro iniziale con il suicida), ma finiscono per essere tutti tasselli di uno sguardo d’insieme omogeneo, che non insegue le mode, ma le frulla con maestria. Alcuni momenti, complice la ricca colonna sonora e il perfetto montaggio, incollano alla poltrona proprio per il come, piuttosto che per il perche’ (ad esempio, le suggestive interazioni del protagonista con il flashback rivelatore), ma non si tratta di mera forma, bensi’ di un modo assolutamente cinematografico per sostanziare i passaggi della sceneggiatura. Inoltre, nonostante la cupezza dell’universo in cui i personaggi si muovono e il tormento alla base delle loro scelte, non e’ la grevita’ il fine ultimo del regista. Non mancano, infatti, inaspettati momenti sdrammatizzanti (il protagonista dal parrucchiere, agghindato con cuffietta per signora). Forse fuori luogo, eccessivi, debordanti, ma lontani da un banale rapporto causa/effetto in cui tutto accade nella scontatezza. E nell’omologazione di tanto cinema contemporaneo, “Old Boy” si distingue come una boccata d’aria fresca. Magari un po’ satura di gas, ma pur sempre rigenerante.

Luca Baroncini (da www.spietati.it)

Recensione n.4

Perché il mite Oh Dae Sun è rimasto imprigionato per 15 anni in uno strano carcere? Chi è il misterioso personaggio che lo perseguita dopo averlo liberato?
A queste domande da risposta la storia narrata nell’ ultimo film di Chan-wook Park, presentato a Cannes nel 2004 e sui nostri schermi in questi giorni. Dopo il precedente Sympathy for Mr Vengeange ritorna con un film che tratta ancora del tema della vendetta, con il protagonista che cerca di capire la ragione di tanto odio prima di vendicarsi. La ragione c’è ed è sepolta in un avvenimento di molti anni prima, che Dae Sun aveva dimenticato.
Partendo con un ambientazione che non può non far ricordare gli interni lynchiani, il film prosegue con una narrazione frammentata che depista lo spettatore contraddicendo tutte le aspettative. Quella che pareva un ‘incursione in un mondo ipertecnologico si trasforma pian piano in qualcosa che ha molto a che vedere con un mondo barbaro e primitivo, dove a dominare sono le regole del sangue. Difficile trovare infatti un film dove la carnalità e la presenza del corpo si senta maggiormente, nonostante l’ambientazione ultramoderna. Sangue che continua a scorrere nelle mutilazioni fatte per vendetta o nella scena terribile del estrazione dei denti, con un uso straordinario della musica classica, che riesce a dare un tono ironico.
Ma anche sangue inteso come consanguineità, tabù familiari che ritornano ossessivamente a presentarsi, apparentemente sepolti nel passato. Dae Sun rimane senza famiglia e questo può apparentemente renderlo libero di compiere la sua vendetta. Ma il mondo esterno si rivela tanto incarcerante quanto la prigione in cui ha vissuto senza un motivo e nella quale poteva solo vedere la televisione. La città in cui è ambientato il film (Seul?) ci viene presentata in modo anonimo, senza la possibilità di nessun orientamento, come vista da qualcuno in preda a qualche malattia mentale.
Lo spazio viene annullato, i luoghi dove si svolgono le vicende sono per la maggior parte luoghi della non identità ( alberghi, carcere, strade). Il tutto dà l’impressione di una irrazionalità che dilaga sempre di più, emanazione di sensi di colpa che perseguitano i protagonisti.
Legato al senso di colpa è spesso la paura di essere visti, di essere spiati. Per questo il tema dell’occhio che osserva, dalla ripresa televisiva allo specchio, alle fotografie domina tutto il film. Non esistono più luoghi privati, vite proprie. Non si fa altro che rubare spezzoni di vita agli altri per compensarsi delle proprie frustrazioni. L’ipertecnologismo dei mezzi di comunicazione presente nel film non porta allo sviluppo di nuovi rapporti, ma all’imbarbarimento delle persone, fino alla trasformazione in figure quasi animalesche.
Il film di è dunque un viaggio allucinato in una realtà sempre più dominata dall’irrazionale. Certo il regista è debitore dei film dei grandi registi visionari come Lynch e Cronenberg, ma ha sicuramente una capacità magistrale di rielaborazione e non cade nel citazionismo fine a se stesso.
Non mancano sequenze da antologia; il carrello laterale che accompagna gli scontri tra Oh e i criminali, il montaggio alternato tra il ricordo del nemico di Oh e l’inquadratura al centro dell’ascensore.
Park sa utilizzare al meglio la macchina da presa e dimostra come, e mi sembra banale dirlo, per stupirci e per cercare novità dobbiamo guardare sempre di più a est.

Mauro Madini

Recensione n.5

Un uomo (Taesu), senza apparente ragione, viene rapito e segregato per quindici anni in un appartamento. Dopo questo periodo viene liberato. È ora un uomo diverso, deciso a capire i motivi di quello che gli è accaduto, deciso a vendicarsi.
Film piuttosto sorprendete per inventiva stilistica e narrativa (la succinta trama sopra riportata, non vi prepara minimamente all’andamento degli eventi, nè all’originalissimo finale), Old boy, forte di un meritato Gran premio della giuria a Cannes, prepara l’occidente ad nuovo interessante autore coreano.
Park Chan-wook (anche co-autore dello script), con Old boy realizza il secondo capitolo di una trilogia dedicata al tema della vendetta (il primo film è Sympathy for Mr. Vengenace, il terzo sarà Sympathy for Lady Vengenace) e, pur facendo un po’ meno pressione sullo spettatore (almeno a detta di quanti hanno visto Mr. Vengenace), non risparmia sangue e violenza in un susseguirsi abbondante. Con tutto ciò però, il regista contribuisce a costruire lentamente un trama fatta di dettagli imprevisti e situazioni degne di una tragedia classica o shakespeariana.
Lo stile del regista è visivamente ineccepibile, alla violenza, fa sempre da contropartita una partitura visiva di indubitabile raffinatezza, in cui stonano solamente certi momenti d’ironia. Questi ultimi, praticamente presenti solo nella prima mezz’ora del film, non hanno nessuna reale importanza, non stemperano infatti alcuna tensione e, anzi, specie se si pensa alla rivelazione finale, risultano ancor più fuori luogo. A parte questo davvero piccolissimo neo, Old boy è comunque un film favoloso.
Il primo merito del film di Park Chan-wook risiede innanzi tutto nella capacità di non dare gratuità alla violenza, ma anzi di usarla come parte integrante dello stile del film (si pensi al magnifico, lento travelling che accompagna la lotta del protagonista – armato solamente con un martello – contro una quindicina di uomini), come un’esperienza visiva che deve introdurre nello spettatore il senso profondo della rabbia che cova nell’animo del protagonista. E comunque va detto che i momenti davvero più inguardabili sono solo parzialmente mostrati e, in gran parte, lasciati all’immaginazione.
Il secondo merito è che Old boy è la dimostrazione che temi ampiamente sfruttati (la vendetta in questo caso), possono essere incredibilmente e magnificamente rinvigoriti.
È poi davvero straordinario l’attore protagonista Choi Min-sik. È un interprete che passa dall’ironia alla risolutezza con estrema facilità e soprattutto dev’essere davvero un attore capace di tutto (si veda a riguardo, ammesso che riusciate a guardarla, la scena del polpo).
Old boy, per i digiuni del cinema coreano, è davvero un’interessante e notevole sorpresa. Un film in grado di disturbare, ma anche di emozionare e commuovere per la tragicità degli eventi, per le ossessioni dei suoi personaggi, per la bellezza della messa in scena.

Sergio Gatti

Recensione n.6

Mr vendetta. Quando la corea si scioglie, si raggruma e trasuda sangue sporco. Il colore e la vitalità sincopata di un fumetto nipponico permeano solo il trailer, solo la pellicola fragilissima dell’opera prima di Park Chan-woo. Un uomo rapito per 15 anni viene misteriosamente liberato, o si libera da sè. Non ci è dato saperlo. Ma tutta la sua storia da allora è pilotata, pilotata come una destinata, necessaria e arcaica tragedia di cui Dae-soo di fa aedo, lamentoso protagonista, scapigliato e spregevole antagonista. La carne diventa di cartone quando i suoi occhi si posano su un volto di ragazzina inquietantemente noto, il principio purissimo della legge del contrappasso sospesa tra il magico e il surreale. Una vendetta insensata per il mondo razionalizzato e razionato, incastrata invece come un diamante puro nel teatro dell’eccesso muscolare che cava denti, scatta veloce, si astrae puro nell’amore e nel ricordo. Qualcosa ha scatenato la terribile sorte di Dae-soo, l’uomo dal sorriso largo e stereotipo, tipico orientale. L’uomo dalla lunga lingua che cade verminosa precipita nella terra degli angeli caduti, nell’eterna e fallace giovinezza donata dall’incesto, ma non può caricarsene e allor ainvoca l’oblio, un deus ex machina scarsamente visionario e fortemente psicologico rappresentato dalla maga che compare dal nulla. Si evolve e muore … quel tipo di melodramma incomprensibile per un occidentale, fatto di mutilazione e dolore, legami inestricabili, maledetti e cementati dall’innaturalità in cui i protagonisti si trovano. lo sguardo e lo scrutamento imperano insidiosi, sia nella scena in cui Taesoo scopre le telecamere fisse sulla sua prigione sia nel piccolo, voglioso specchio che appare nel flashback rivelatore. per poi smembrarsi nei frammenti di vetro e di ghiaccio che accompagnano l’epilogo. La trama è la carne e il sangue del film, le visioni il suo completamento formale. Queste ultime esaltano l’aberrazione tutta concentrata nel protagonista ed esule da quel nemico amico dalla pelle intatta…

Chiara F