È la percezione il perno attorno a cui ruota l’opera prima di Francesco Fei. Il sentire una città attraverso i suoni che produce. Il sentire se stessi attraverso le reazioni degli altri. Il provare a sopravvivere in mezzo alla costante preoccupazione di apparire adeguati. Il modello della perfezione estetica, vera o falsa poco importa, vissuto in modo competitivo e senza la capacità di accettarsi per ciò che si è, può portare a un’introversione a stretto confine con la patologia. Succede alla giovane protagonista, carina ma con una voglia violacea sulla faccia che la porta a sentirsi perennemente inadatta e, conseguentemente, a vivere perlopiù isolata e in disparte. L’embrione di un sentimento trova spazio nell’incontro casuale con un ragazzo cieco, eccentrico musicista, che non vedendola le evita il confronto con i propri fantasmi giudicanti. La forza di Onde è nella regia personale e fuori dalle convenzioni di Fei, attento ai luoghi (una riconoscibile Genova esplorata tra l’asettico dell’Acquario e il verace dei caruggi), alla composizione delle inquadrature, mai banali, alla efficace e ipnotica fusione dei suoni con le immagini. Il punto debole è invece la sceneggiatura. Non tanto per il suo procedere ondivago (anche se qualche dettaglio in più sui personaggi avrebbe aiutato ad accorciare la distanza con lo spettatore), quanto per l’effetto didascalico che personaggi e situazioni assumono nel contesto del racconto. I due protagonisti, infatti, diventano eroico emblema di una società malata in cui apparire è tutto e dove la sovrabbondanza di sollecitazioni visive finisce per condizionare negativamente il vivere quotidiano. Il rifiuto di diventare “immagine” rappresenta quindi un’ancora di salvezza dal rischio di spersonalizzazione. Ogni passaggio narrativo, sia importante (l’incontro con un estroverso pubblicitario, il barlume di un’apertura all’esterno, l’apnea finale), che marginale (il ricorrere dei ribelli mascherati armati di spray che oscurano le telecamere di sorveglianza) tende a confermare, con ridondanza, questo messaggio. Senza che i personaggi evolvano granché, ma piegandoli alla tesi e privandoli così di quel soffio vitale in grado di comunicare un punto di vista senza imporlo. L’assenza di ironia, nei personaggi come nello sguardo del regista, rende poi il tutto così perentorio e tendenzioso da risultare un po’ antipatico.

Luca Baroncini de gli spietati