Recensione n.1
Due uomini (Marco e Benigno) sono seduti uno accanto all’altro ad uno spettacolo di Pina Bausch. Lo spettacolo è così pregnante emotivamente che i due spettatori si commuovono.
Più avanti due donne (Lydia e Alicia) permetteranno a loro di conoscersi all’interno di un ospedale.
Lydia, torera, è in coma dopo un’incornata ricevuta da un toro, Alicia studentessa di danza è in coma dal giorno del suo incidente in auto.
Benigno (lí infermiere personale di Alicia) la cura con gran dovizia, parlandole ogni giorno.
Immagina una storia d’amore impossibile. Marco al contrario non riesce a rapportarsi con Lydia e la sua assenza/presenza, cerca l’amicizia e i consigli di Benigno.
Provoca un certo piacere pensare che la maturità artistica e anagrafica di un artista non porta sempre con se una dose di leziosità, di supponenza. In qualche caso permette all’artista di affinare la tecnica e la poetica raggiungendo una perfezione di equilibri.
Almodovar aveva dimostrato a tutto il mondo con Tutto su mia madre, una maturità espressiva straordinaria ed una capacità unica di rappresentare la vita dei suoi personaggi, con Parla con lei si spinge oltre (se possibile) evitando la sovreccitazione grottesca di alcune situazioni dei lungometraggi precedenti, colpendo al cuore lo spettatore con la semplicità mai banale dei sentimenti.
Attraverso una struttura narrativa semplice e collaudata il regista iberico incrocia i destini dei suoi personaggi. Riempie di un alito di vita le storie assurde e tremendamente reali (prese dalla cronaca) delle sue pedine, toccando l’emozione con una sincera fede nell’amore al di là di ogni convenzione limitativa.
Lo specifico filmico, approssimativo (ma corrosivo) nelle prime pellicole, è ora composto ed elegante, lascia pochissimo spazio al superfluo. I flashback continui e rigorosi si nutrono di un estetica spartana, minimale, necessaria, che lascia spazio alla nudità della coscienza.
Lasciando per una volta le donne (eternamente protagoniste della sua filmografia) mute, si concentra sull’universo maschile o forse sulla femminilità repressa insita nell’animo dell’uomo.
Lo stadio di semicoscienza indotto dal coma, permette una ricerca più profonda. Negli angusti corridoi ospedalieri lo spazio si restringe, il tempo si dilata abbracciando la memoria delle emozioni passate.
Al cospetto della stasi della pre-morte, l’amore sublimato, platonico fra i due personaggi maschili, passa attraversa una morte ed una resurrezione.
La messa in scena asciutta, nasconde e mostra nello stesso tempo allusioni e rimandi al cinema surrealista (bunuelliano), con la prepotente carica eversiva assegnata al sogno ed al desiderio del subconscio.
In uno spezzone di film muto raccontato da Benigno possiamo vedere un innamorato che diventa sempre più piccolo fino a penetrare fisicamente nel corpo della sua amata. Una lettura metafisica e surreale può in fondo farci credere che attraverso la morte, Benigno, possa rinascere nel corpo dell’amata Alicia, rincontrandosi con Marco, oltre la sessualità e la vita.
Attraverso le imprevedibili spirali del destino, le pedine amorose si rimescolano, mosse dal flusso del desiderio, che tutto muove.
Il potente melodramma Almodovariano attraverso picchi emotivi che comprendono l’apparizione di Geraldine Chaplin, la danza di Pina Bausch, la voce struggente di Gaetano Veloso trasporta lo spettatore, a cavallo di un onda emotiva, nella realtà onirica ricreata dal miglior cinema.
Paolo Bronzetti
Recensione n.2
Un sipario chiudeva “Tutto su mia madre” e un sipario apre “Parla con lei”, quasi a simboleggiare una ipotetica continuita’ tra la solidarieta’ femminile del film che gli ha dato il massimo della popolarita’ e quella maschile del nuovo lungometraggio. Abbandonati i ruspanti eccessi degli esordi, Pedro Almodovar sembra essere arrivato ad una piena maturita’ stilistica che predilige i toni pacati e le sfumature. In “Parla con lei” costruisce un vero e proprio melodramma, svecchiando i ruoli e attribuendo alle figure maschili le passioni e le lacrime che siamo stati abituati a riscontrare in eroine d’altri tempi. Si parla di solitudini, di amicizia, di illusioni, ma su tutto sembra soffiare il vento dell’amore, che guida le scelte dei protagonisti e le rende positive nonostante tutto. Il racconto procede scorrevole grazie ad una sceneggiatura che invece di spiegare gli eventi, li esprime nelle loro conseguenze sulla vita dei personaggi. L’espediente narrativo funziona, perche’ accresce l’interesse nei confronti del destino dei protagonisti e lascia ampio spazio alla comprensione delle loro psicologie. Dietro l’apparente originalita’, si percepisce pero’ un certo calcolo nel calibrato mosaico tessuto dal regista intorno alle sue creature. Sembra di trovarsi di fronte ad un tipico film a “tesi”, dove i tanti fili lanciati, si intrecciano in un certo modo piu’ per volonta’ del regista che dei singoli protagonisti. In questo senso i personaggi non sembrano essere completamente liberi di muoversi al di la’ di ogni schema, ma subiscono piu’ di una forzatura diventando una sorta di strumento esplicativo della forza onnipotente dell’amore: una forza che racchiude sia il bene che il male, senza alcun intento manicheo.
Pare quasi che l’originalita’ della vita, di cui Almodovar e’ sempre stato (pur con alti e bassi) sensibile interprete, sia filtrata da una razionalita’ che finisce con l’avere un peso ingombrante. Alcuni momenti, come l’intervento musicale del bravissimo Caetano Veloso, sono piu’ appiccicati che funzionali alla narrazione. Diverso il discorso, ad esempio, per i balletti di Pina Bausch, che diventano parte integrante del racconto. La volgarita’ ricercata di alcuni ialoghi tra le figure di contorno sembra piu’ essere una firma dell’autore che una liberta’ creativa. Cosi’ come le tante coincidenze che si susseguono con calcolata leggerezza. La visione lascia quindi un po’ scissi: da una parte il fascino di personaggi originali, di una bella storia e di attori molto bravi, dall’altra un disequilibrio tra la levita’ delle intenzioni e la meccanicita’ con cui si arriva alle lacrime.
Luca Baroncini