Il cinema secondo il cantante e compositore Franco Battiato diventa un’articolazione segnica di scale tonali in cui lampi tematici stendono una tessitura impressionistica insistente su ripetizioni e passaggi ribattuti, dove le alterazioni timbriche determinano lo sviluppo melodico a partire da poche fughe: questo almeno è quanto si potrebbe dire del trattamento della colonna ottica, trascurando alcuni aspetti convenzionalmente illustrativi, che coincidono con l’aneddotica parte milanese del film, dove panoramiche e découpage mimano la sorpresa di scoprire un volto noto o un genere come il documentario amatoriale, in una reinterpretazione critica di un alternarsi dei piani normativo, seppur sia assente il campo-controcampo.
Ma a questa poetica, allegoricamente tra impressionismo francese e ricerca bartokiana, si contrappone una tensione stilistica nella sonorizzazione della pellicola che, sempre trascurando l’aneddotica di costume della parte milanese, si sforza di trovare una spazialità della composizione al di fuori di sistemi temperati e divisa tra emersione di funzioni musicali dissonanti e suoni concreti.
La colonna sonora, intesa quindi deleuzianamente, dimostra infatti una conoscenza profonda del dibattito sulla composizione semiotica dell’immagine cinematografica, (quello sorto sulle aporie realistiche consolidate dalla pratica filmica neorealista nel dopoguerra), e ne recupera la critica anti-illustrativa e la metonimica attitudine a farsi fattore della “leggibilità filmica”, però con una coscienza musicale che usa il timbro per connotare la serie dei gradienti che conducono alla prossimità con l’attante, fino al coincidere in una sorta di immedesimazione fonetica, e la spazialità dell’emissione per implicare una natura spazializzata ma enigmatica del fuori campo, che è quindi inquadratura sonora: basti l’esempio della voce spostata a sinistra mentre sullo schermo appaiono in campo lunghissimo madre e figlio che passeggiano.
La presa diretta del suono ne risulta chiaramente annichilita fino al ridursi a traccia per il lavoro compositivo, eppure anche la rumoristica acquisisce la qualità musicale di suono concreto, libero dalla spazialità dell’immagine proiettata e come tale subisce infatti una marcata articolazione delle intensità attraverso la composizione delle diverse tracce sonore.
Ci potrebbe sembrare di confrontarci con una poetica godardiana profondamente immersa nel dibattito sulla sociologia del romanzo ed estetizzata dalla sensibilità musicale, però quelle che sono preziose intenzioni compositive, forse già presenti in sceneggiatura e quindi anche attribuibili a Sgalambro, si perdono nello sperimentalismo post-produttivo, specialmente per quanto riguarda la colonna ottica, minando la necessità delle scelte artistiche con un atteggiamento ludico autoreferenziale.
I procedimenti di reinquadratura digitali rendono immediatamente riconoscibile la grana matriciale che succede alla superficie pellicolare ma nella loro isolata poetica inoculano il dubbio della scoperta dilettantistica delle potenzialità dell’immagine digitale: allora perché non approfondire queste poetiche girando tutto in alta definizione? Così stupisce anche che non si sostituiscano completamente i movimenti di macchina, che sono tra l’altro realizzati con grande perizia, con la sofisticazione digitale del quadro, abbandonando così una poetica quasi antiautoriale e di decadente anitnaturalismo; lo stesso potrebbe dirsi anche degli effetti ottici, quali gli spostamenti timbrici e tonali o le transizioni con effetti di animazione digitale in 3D, che sono palesemente realizzati in economia di mezzi, tanto da fare preferire un’astrazione grafica più radicale.
La colonna sonora vive le stesse dubbiose scelte stilistiche con un’insicurezza ancora più marcata che porta persino ad ipotizzare un recupero di un errore tecnico, infatti le inquadrature sonore sono tanto più isolate quanto ingiustificate nella coerenza drammaturgica.
E comunque un’analisi semiotica e linguisticamente pragmatica è applicabile solo alla prima parte del film, fino all’arrivo a Milano, (dove compare un bellissimo esempio di composizione di un’immagine lectiva attraverso i piani ambientali ed il sonoro che inquadrano il protagonista assente in una panoramica iniziale sui passanti), in seguito infatti il costume diventa il pretesto per un involgarimento filmico che trova i suoi apici nel filmino del maestro tantrico e nel finale dolly fiammeggiante che investe Sgalambro nella chiusura convenzionalmente topica, condannando quasi interamente il film a confermare un pregiudizio sulla molteplicità artistica dell’autore.
Se però il film non è un semplice miraggio dell’industria culturale, che è noto ricicla i propri prodotti con la perizia degli allevatori di maiali, può suggerire la possibilità di un cinema distribuito e promosso dal mercato in forme radicalmente rinnovate, in alternativa alle sclerotiche cadenze delle strutture ritenute normativamente idonee alla narrazione per immagini; un cinema che si annuncia di massa ed intellettuale minaccia però la stessa morte del mezzo, del suo rituale sociale, presagisce mondi realmente troppo lontani; il radicalismo tornerà pure di moda ma il bovarismo è ancora il fenomeno più consolidato di questo tempo per cui i tanti errori di Battiato possono essere presi per necessaria mediazione straccamente emotiva, per ossequio al muccinismo.
Insomma come dice un personaggio minore al protagonista : “Mi raccomando fedele alla linea!”, ed io aggiungerei: “…Signor Battiato”.

Ruggero Lancia