Recensione n.1
Polar Express, ovvero: si può parlar male di un cartone animato?
Strano oggetto, il cartoon: ancora c’è chi – povero ingenuo! – pensa possa non essere apparentabile, per stile e valori, a un’opera cinematografica con attori in carne e ossa (“Oscar alla Città incantata? Ma se è un cartone…!”); forse per amor di equilibrio, c’è anche chi non riesce a discernere, oggettivamente, il bello dal brutto, esaltandosi anche per prodotti animati mediocri, magari con la giustificazione – qualcuno si ricordi della “maledizione” dei Mutts – “beh, carino, dopotutto è un cartone…”.
Dilemma eterno (ed eternamente retrogrado?), come per i fumetti in letteratura del resto.
Come un “vero” film, il cartone animato ha invece, e ovviamente, la sua statura e la sua dignità, sia tecnica che morale, sia registica che ideologica: per questo, con le debite e intelligenti differenze, a mio avviso il metro di giudizio non cambia. Magari è più difficile e complesso (e un prodotto che di per sé spiazza, merita allora l’omologata superficialità con cui ancora è di solito trattato!?), ma non cambia. Tanto più che, in questo
caso, grazie all’avanzata tecnica della Performance Capture (utilizzata per la prima volta in maniera totale), sotto a ogni personaggio “animato” c’è un reale (e quasi sempre riconoscibile) attore umano. Così, come per i film, un cartone può essere giudicato (criticato, apprezzato) anche per cosa trasmette e per come lo trasmette, il contenuto e la forma (in ordine di importanza); e – metto le mani avanti – basta con futili scusanti del tipo “ma tu non sai cogliere le magie, non apprezzi i sognatori, sei un freddo e insensibile cinico” o, in alternativa, “eeh, che esagerazione… non ti dimenticare che è un cartone, che i personaggi non esistono…”. Come se il tassista eroico dell’ultimo capolavoro mangiano, solo perché fatto di carne e sangue (sì, ma la carne e il sangue di un signore che risponde al nome di Jamie Foxx e alla professione di attore e non di un eroico, reale tassista), esistesse davvero; potrebbe esistere, certo, ma, perlomeno lui lì in persona, non esiste. Per fortuna, sennò mi sa tanto che smetterei di andare al cinema. Vabbè…
Ci mancava, in effetti, il cartoon blasfemo. Blasfemo non perché politically uncorrect sul Natale e i temi a esso collegati (come vorrebbe-ma-non-può essere quella lieve stupidaggine caricaturale di Bad Santa); blasfemo, piuttosto, perché prono alla morale da ads. “delle famiglie felici dai denti splendenti e dal calore prima umano che ambientale” (che funzionava alla grande, signor Zemeckis, nella provincia anni ’50 ricostruita con gusto scenografico, trapasso nostalgico e leggiadra ironia ma non qui, con questa serietà e con questa voglia di impartire lezioni di vita e di cinema), del Santa Claus elemosinatore di regali e (effimera: qualcuno arriverà a capire che il povero bambino solo, con o senza regalo natalizio, continuerà a vivere di stenti?) gioia, … Blasfemo, in fondo, non perché americano (sia lode a una nazione che ha “inventato”, tra gli altri, il pomodoro, il country e Michael Cimino!) ma perché finto, fasullo come l’oriental McMenu, presidenziale: non a caso, la Ragazza di colore futura “leader”, anzi “condottiera”, la conosciamo già (non assomiglia forse a una certa Condoleeza Rice?) e il Ragazzo Protagonista che finisce per essere l’unico, sempiterno “credente” non ha forse qualche fattezza vagamente alla George W.? Va bene, nei titoli c’è scritto che le fattezze della prima sono quelle di Nona Gaye e del secondo quelle – uno di sei – di Tom Hanks ma, andiamo, a chi volete darla a bere…?
Blasfemo perché la storia, tratta (e lievemente modificata) da un libro per bambini scritto e illustrato da Chris Van Allsburg, è impegnata a propagandare il “vero spirito natalizio” – ovvero fratellanza, comunione, rispetto reciproco, amore e chi più ne ha più ne metta – e poi ci tocca vedere un treno diretto al Polo retto da un rigore chissà perché così puritano (ma perché, per conoscere Babbo Natale, i bambini dovrebbero subire pene del contrappasso così rigide e imparare la costrizione, la repressione, l’obbedienza alle formalità: ovvero, in breve, come ci insegna lo snobbatissimo Shyamalan di quest’anno, a perdere l’innocenza in anticipo sui tempi?), un bambino solo (cribbio, incredibile! Il personaggio si chiama veramente Lonely Boy!! Ok, si farà qualche amico [due per la precisione, sai che soddisfazione…] ma il suo destino sarà sicuramente iscritto nel suo nome. E non perché è un futuro intellettuale depresso e ramingo, ma semplicemente perché è povero, economicamente inferiore, socialmente handicappato) relegato in una carrozza buia, asettica e fredda, rimpinzato appena con una tazza di cioccolata forse ormai fredda (nell’altro scompartimento, i “signori” bambini o bambini dei “signori” che dir si voglia, ne hanno bevuta fino a scoppiare e sono stati serviti pure da scatenati camerieri-ballerini di flamenco a ritmo di musica caliente) e infine (GIURO CHE E’ COSI’! VEDERE PER CREDERE!) abbandonato di nuovo alla sua solitudine e al suo angolino appartato…
Elemosina, appunto, dicevo, non certo comprensione… Il Natale dei ricchi che per sentirsi anche buoni hanno bisogno di questi mezzi, il Natale di Zemeckis che per far contento qualche fanciullo punta dritto al portafogli di adulti ancora troppo fiduciosi o poco smaliziati o, vittime avvezze ai ricatti quotidiani della tv, ormai indifferenti.
Le situazioni imbarazzanti/irritanti potrebbero continuare forse all’infinito nell’arco dei 100’ di proiezione, tante che si dimenticano o tante che non ha senso citarle tutte, e anche se, alla fine, la campanellina senza sonaglio suona per i puri di cuore, la magia non scatta mai perché, semplicemente, non c’è: non c’è nella testa e nel cuore degli autori, non c’è nei fotogrammi cinematografici di conseguenza.
Il cartone verrà, si spera, ricordato per altro – novità prettamente tecnico-commerciali: il fatto di essere il primo film a uscire nei cinema dotati della tecnologia IMAX 3D, per esempio, il fatto della Performance Capture, …
O forse no, mi sbaglio, a giudicare dalle reazioni tranquille e positive al termine dell’anteprima stampa. Certo, avrà successo e ai bambini piacerà: non perché stupidi o ignoranti ma perché veramente innocenti, ancora ignari delle più o meno sottili brutture degli esseri umani, sempre più abituati (impostati?) all’ozio mentale da chi li dovrebbe proteggere/stimolare e non comandare.
Okay, mi arrendo, avete vinto voi: bravo Robert, Polar Express è un capolavoro, perdonami se non ti ho capito, perdonami se, crescendo, sono diventato adulto, ottuso, coriaceo…
Perdonami se, per credere e per sognare, ho bisogno di fragili creature così irreali eppure così quotidiane così vitali nella loro umiltà e nella loro inespugnabile infelicità – che so, un Jack Skellington, un bambino ostrica deriso e abbandonato nel mondo, un poco natalizio ma molto umano Mr. Pinguino, un tennista fallito che, forse verso Natale (Natale dev’essere proprio Natale, 25 dicembre giorno più giorno meno, per essere veramente Natale?), non riesce a dire “ti amo” a una sorellastra adottiva, tabagista, depressa, impellicciata, monomaniaca e si taglia le vene non riuscendo nemmeno a morire – o di qualcosa di veramente epico (per restare nel campo dell’animazione, il pesciolino Nemo, lo spirito del Cattivo Odore, il “ragazzo vapore” ti dicono niente?), e non del tuo pomposo treno abitato da antipatiche figure che, a ogni minuto, mi devono dire cosa fare e come farlo…
Sono infantile frustrato, lo so, intanto però, quelli nominati, io me li tengo stretti, tu vai pure al Polo a rinfrescarti le idee…
p.s. mi si faccia passare un buon Natale, per una volta: se a qualcuno – in redazione o meno – il film è piaciuto, non venite a dirmelo…
Roberto Donati
Recensione n.2
“ASTENERSI DIABETICI”
Pubblicizzato come la favola piu’ bella di Natale, “Polar Express” si caratterizza in realta’ come un indigeribile misto di melassa e retorica ed e’ soprattutto, la distribuzione ha dimenticato di aggiungerlo, un horror involontario. Ma procediamo per gradi. Da prodigioso sperimentatore, anche questa volta Robert Zemeckis si fa portatore di innovazioni. La tecnica utilizzata si chiama “performance capture”, ed e’ un’evoluzione del sempre verde “motion capture”; in pratica, si tratta di un sofisticato software in grado di “pixelizzare” cio’ che e’ umano, attraverso una serie di sensori posti sul viso degli attori. L’effetto, sicuramente curioso, e’ pero’ piu’ adatto per le attrazioni di un parco giochi o per il grande schermo di un Imax, mentre l’applicazione per il cinema, almeno nell’adattamento della favola di Chris Van Allsburg, provoca un effetto straniante, dispensatore di un fascino sinistro poco incline al tono fiabesco e zuccheroso del racconto. L’atmosfera, infatti, si carica di cupezza e i personaggi assumono presto connotati inquietanti. Non tanto Tom Hanks sdoppiato in cinque, il suo viso solare anche digitalizzato resta un’icona di sani principi e ottimismo, quanto i piccoli interpreti: il protagonista, ricalcato anch’egli alla lontana su Tom Hanks, ha occhi di ghiaccio e sguardo fisso poco rassicuranti, la bambina nera sembra un varano in agguato e il piccolo povero e mesto non sfigurerebbe come novella figlia di Fantozzi. Mostruosi macchinista e fuochista del treno e terribili i piccoli elfi, con canti e balli (e indegno doppiaggio in dialetti regionali italiani) che non riescono a contenere i segni tangibili di una possibile minaccia. L’esito complessivo fa un baffo a “The Grudge” e sul clima lugubre incide non poco l’incapacita’ della tecnica di rendere fluido il semplice camminare dei personaggi, sempre innaturalmente ballonzolanti come zombie e, per questo, ancora piu’ spaventosi. L’unica cosa davvero soprendente e’ la corsa a perdifiato del treno per raggiungere il Polo Nord, dove vive Babbo Natale. Chiunque, bambino o adulto, non puo’ non restare affascinato dall’idea di un treno rapito dalle oscurita’ della notte, tra boschi, laghi ghiacciati, ponti filiformi sul vuoto e montagne russe tra le rocce. Ma il senso di meraviglia dura un attimo, giusto il tempo di perdersi nel prodigio dei suggestivi fondali in computer grafica, perche’ la sceneggiatura non consente ulteriori tappe. Sono troppe le amenita’ moraleggianti in cui cade la narrazione. Gia’ non si capisce perche’ solo alcuni bambini vengano selezionati per la grande avventura e perche’ in mezzo a tanto gelo nessuno, in ciabattine e pigiama, abbia mai freddo. Si dira’ che e’ sogno, incanto, magia, allora perche’ temere per gli incidenti di percorso in cui incappano i personaggi, nati soprattutto dall’esigenza di riempire in qualche modo la prima parte del film? E poi, questa spada di Damocle del biglietto da avere a tutti i costi! Prima vieni invitato a salire su un treno e poi se non hai il biglietto sono guai, per poi, alla fine, avere l’onere di vederti stampata una fastidiosa etichetta: tu sei un capo, tu sei un incredulo, tu devi essere meno arrogante. A tanti sciocchi giudizi (perche’ non lasciare che un bambino impari dai propri errori senza marcarlo fin dall’infanzia?), si aggiunge il solito egocentrismo vincente mascherato da naturale timidezza, con la necessita’ di essere cauti al fine di primeggiare doppiamente sugli altri. Non a caso il protagonista verra’ scelto, senza un perche’ occorre sottolineare, tra l’invidia e l’ammirazione di tutti per essere il primo a ricevere i doni di Babbo Natale. Insopportabile poi la moralona finale che invita tutti, grandi e piccini, a “credere”. A che cosa il film non ha il coraggio di dirlo (la visione e’ totalmente laica) per non precludersi fette di audience, anche perche’ la sceneggiatura si ingarbuglia in una contraddizione di fondo: il bambino finira’ per credere all’esistenza di Babbo Natale (anche lui derivante da Tom Hanks e con la dolcezza di un capo militare) solo quando finalmente lo vedra’. Perche’ mai il pubblico dovrebbe comportarsi diversamente e imparare che bisogna credere a priori? E cosi’, tra frasi fatte assolutamente prive di senso (“non importa dove va il treno, l’importante e’ decidere di prenderlo”), effetti digitali imponenti, canzoncine edificanti, il regalo come massima ambizione e fine ultimo del Natale, messaggi grevi di pura superficie, metafore insopportabili (il suono della campanella come simbolo della capacita’ di mantenere intatto lo stupore dell’infanzia) e l’horror sempre in agguato, finalmente il treno conclude la sua corsa. Il ritorno alla realta’ porta una sensazione di occasione perduta. Soprattutto, perdibile. VOTO: 4,5
Luca Baroncini de Gli Spietati
Per info, trailer, foto e quant’altro:
www.polarexpress.it
www.warnerbros.it/movies/polarexpress
http://polarexpressmovie.warnerbros.com
http://www.buzztone.com/polar/buzz.asp?ori=4&b=1