Probabilmente c’è un tempo per ogni cosa e non tutto, se riproposto senza varianti, può permettersi di tornare. I “disaster movies” appartengono infatti agli anni Settanta e L’avventura del Poseidon, del 1972, ne fu uno dei pilastri. Ripresentarlo nel nuovo millennio, dopo anche un tv-movie del 2005 ma soprattutto Titanic di James Cameron, è un’azione pressoché suicida. Certo, la storia è senza tempo, con una gigantesca onda che capovolge un transatlantico obbligando un gruppo di superstiti a cercare una via di fuga tentando di risalire dall’interno verso la superficie, ma la domanda è sempre la stessa: perché rifare, copiare, imitare, anziché creare, oppure, al limite, ridistribuire l’originale? Ovviamente per i produttori l’idea di ancorarsi a un immaginario consolidato è rassicurante e sulla carta il rischio di un insuccesso è limitato, ma l’operazione commerciale può avere senso solo se sostenuta, oltre che da un marketing massiccio, anche da qualche idea innovativa in grado di aggiornare una storia ai tempi. Il nuovo Poseidon, invece, si limita a pescare a piene mani nel già visto. Wolfgang Petersen ci mette la sua indubbia professionalità e si vede che con le insidie dell’acqua ha una certa esperienza (U-boot 96, il film che diede al regista tedesco la ribalta internazionale, e La tempesta perfetta), ma l’efficacia degli effetti speciali (anche se l’acqua virtuale ha minor peso di quella reale, e ogni tanto si vede) non riesce a sopperire alla povertà dell’impianto narrativo. Il lato umano, infatti, è di sconsolante vacuità con i soliti ricchi, antipatici e bellocci per cui il massimo della vita è sedere al tavolo del capitano, scambiarsi promesse attraverso anelli e smanazzare fiches a un tavolo da gioco. Non può però mancare il contraltare di un paio di poverelli, il cameriere e la clandestina, che, sarà un caso, sono gli unici, oltre al martire di turno, a fare una brutta fine. L’onestà di Petersen è nel dare al pubblico ciò che il genere catastrofico impone: distruzione, sconquassi, esplosioni, voli nel vuoto e inconvenienti a ripetizione. Puntare dritto all’azione senza il riempitivo di inutili preamboli, con solo una decina di minuti iniziali per presentare sbrigativamente gli scialbi personaggi, si rivela però un’arma a doppio taglio perché il ritmo sostenuto, senza la forza di caratterizzazioni con cui poter empatizzare, rischia di girare a vuoto. La corsa a ostacoli, con salvataggi improbabili e sempre qualcuno che nel marasma generale sa cosa fare e soprattutto come farlo, finisce quindi per anestetizzare, o comunque ridurre, la partecipazione. La colpa è anche di dialoghi spesso improponibili, in cui le ovvie esclamazioni di disagio sono condite con stridenti botta e risposta finalizzati a placare i ridicoli conflitti tra i personaggi. Tra i momenti migliori, l’attraversamento sul vuoto nella tromba dell’ascensore, con una cattiveria superiore alla media, il claustrofobico passaggio nello stretto condotto dell’aria e il “titanico” piano sequenza iniziale che presenta, con abile sintesi e grande perizia tecnica, il protagonista e la situazione di partenza. Il resto è routine. Il che non è per forza un demerito, ma non arriva a essere un merito.
Luca Baroncini de gli spietati