Recensione n.1

A metà strada tra il polpettone melodrammatico e uno stanco e piatto docu-drama, “Prendimi l’anima”, è una pellicola soporifera e terribilmente old-style. La storia, scritta dal regista, Roberto Faenza (Sostiene Pereira, Copkiller. Jona che visse nella balena), in collaborazione con una lunga lista di personaggi, è stata ispirata dalla corrispondenza tra Freud, Jung e la giovane paziente-amante di quest’ultimo Sabina Spielrein, trovata nel lontano 1977 a Ginevra negli scantinati dell’Istituto di Psicologia. Pubblicati per la prima volta da Aldo Carotenuto (“Diario di una segreta simmetria”), lo scambio epistolare è stato al centro di una elitaria e superflua polemica sulla paternità artistica di Sabina e in merito delle ricerche condotte sulla sua affascinante ed eroica vita.

Storia che conserva in sé un nucleo d’interesse molto alto, non a caso sulle vicende che legano il grande “esploratore dell’inconscio”, come lo definiva la sua stessa amante e la giovane, sono stati scritti in passato diversi saggi e romanzi, oltre a due spettacoli teatrali a Broadway e a Londra. “Prendimi L’anima” non è un film che partendo dal carteggio tra i due amanti, si spinge nei meandri della mente; il film di Faenza non ha la pretesa di districarsi tra concetti come “sistema motivazionale inconscio” e “causalistica freudiana”, ma è una più modesta e asciutta, anche troppo, ricostruzione storica di un amore folle e impossibile. Il regista ci rifila una pellicola insignificante quanto a contenuti (aiutatemi a trovarne almeno uno), e a messa in scena, priva di istintualità estetica e imbevuta di una stucchevole eleganza formale, che allontana dal già tiepido script.

L’interpretazione della brava Emilia Fox (Faenza ha sempre guidato molto bene i suoi attori) rendono il tutto più sopportabile (da ogni punto di vista è straordinaria la scena del ballo), intenso e mai banale il suo volto e il suo talento meriterebbero ben altri teatri; non a caso la sua ultima esperienza è stata al servizio di Polanski nella palma d’oro “Il pianista”. Discutibile è poi la ragione a monte di fare un film del genere, legando la sua legittimità a un dovere quasi storico nei confronti di uno dei padri fondatori della psicoanalisi, operazione che ricalca fedelmente, alcune analogie narrative ne confermerebbero il trend forzato e inutile, quella di “Un viaggio chiamato amore”, pellicola di Michele Placido, visto (purtroppo) in occasione dell’ultimo Festival di Venezia.
Giuseppe Silipo

Maledetta felicità

Recensione n.2

All’inizio del ‘900, i facoltosi genitori ebreo-russi accompagnano a Zurigo Sabina Spielrein perché sia ricoverata nella clinica del Dr. Bleuler. La diagnosi è isteria. Il giovane Carl Gustav Jung, già pupillo di Freud, sperimenterà per la prima volta su di lei una nuova cura: il dialogo e le libere associazioni al posto delle punizioni fisiche e morali che venivano inflitte all’epoca ai pazienti psicotici. Il giovane medico prenderà particolarmente a cuore le sorti della paziente al punto che, una volta guarita, fra i due nascerà un sentimento. La rottura sarà però inevitabile e Sabina tornerà in Russia dove condurrà amorevolmente l’asilo bianco, un luogo di recupero dei bambini a problema. Sarà poi la Storia con la morte di Lenin, la dittatura di Stalin e l’arrivo delle truppe naziste a deciderne il destino.

Il nuovo film di Faenza è estremamente ambizioso: ricostruire una delle pagine più complesse e controverse della storia della psicoanalisi e seguire lo sviluppo del personaggio femminile anche nei trent’anni successivi al suo legame con Jung. Trent’anni oltre tutto estremamente densi di avvenimenti. L’intento divulgativo è evidente: avvicinare il pubblico ad un personaggio pressocché sconosciuto ai più. Ma a questo si accompagna l’accenno ad uno dei problemi che la psicoanalisi non ha ancora risolto: qual è il momento in cui l’amore, necessario alla terapia, diventa un pericolo per il medico ma soprattutto per il paziente? Perché anche gli analisti sono uomini e come tali prede delle proprie passioni e pulsioni.

Il film è equilibrato e ben calibrato, non scade mai nel melò. È coinvolgente vedere come la protagonista femminile (la brava Emilia Fox) evolva da una situazione di disperazione totale e rinasca a nuova vita. Come l’amore che ha ricevuto, forse per la prima volta, da un essere umano riempia il suo vuoto interiore fino a fare di lei un’educatrice, una psicoanalista ma anche una moglie e una madre. E anche Jung, pur trattandosi di un personaggio avvolto nell’alone del mito, è reso in tutta la sua umanità e fragilità. Un film intelligente e colto, certo non perfetto e a tratti didascalico, che deve necessariamente semplificare una materia molto complessa perché possa essere resa sul grande schermo.

Mariella Minna