Due “Oscar” per un Déjà-Vu
Mettere due premi Oscar in un film può essere rischioso, ma può anche essere la scelta vincente: è così nel caso di The Proof, con Antony Hopkins e Gwyneth Paltrow diretti da John Madden. I due attori, di una bravura eccezionale, assieme alla fotografia dai colori vividi, salvano un film che non resterà negli albi della storia del cinema.
La storia, seppur interessante e ben studiata, annoia e in certi punti pare scontata, tanto che la Paltrow, ragazza dal carattere solitario, finisce a letto con il cavaliere di turno (Jake Gyllenhaal). Proprio lui non riesce a brillare nel film, schiacciato in un ruolo abbastanza importante, ma che si trova pur sempre giocare da spalla alla Paltrow.
L’esaltazione del film avviene attraverso la fotografia che tranquillizza lo spettatore con toni pacati e mostra quello
che vuole il regista. Notevoli sono gli sfondi sfocati che scandiscono le scene in esterno, soprattutto nei primi piani, contrapposti alle inquadrature con grande profondità di campo dei campi totali. Anche negli interni, la luce è amministrata bene, anche se in maniera a volte artificiale con dominanti che ingannano la realtà diegetica.
La pellicola, che alterna la narrazione al presente con molti flash back utili a ricostruire la storia, affonda nel finale e lo spettatore cade in quella tremenda sensazione di déjà vu che mai si dovrebbe provare al cinema. In effetti la tentazione di ricordarsi quello che succedeva in A beautiful mind è un pericolo molto reale che sta dietro l’angolo.
In sostanza, comunque, The Proof può essere considerato un film godibile e facilmente assimilabile, ma che si farà presto dimenticare, viste le riserve del caso: può aspettare l’uscita in home video.
John Madden e Gwyneth Paltrow tornano a collaborare. Dopo “Shakespeare in love” è la volta di “Proof”, testo che i due hanno già portato con successo a teatro a Londra. Lo spunto è dei più classici, con un funerale che riunisce due sorelle caratterialmente agli antipodi. Il defunto è il padre, genio della matematica incapace di convivere con il proprio talento e vittima di una pazzia senza riscatto. “Un grande uomo privato della sua grandezza”, come ricorda la figlia, che per accudirlo negli ultimi anni di vita ha rinunciato a una promettente carriera universitaria. Il film è tutto giocato sui conflitti familiari e sullo scontro tra le diverse psicologie dei personaggi: la razionalità della sorella maggiore, la vulnerabilità emotiva della protagonista, più l’affetto, all’apparenza non completamente disinteressato, di un giovane studente che spulciando tra gli appunti del matematico spera di trovare qualche formula innovativa e preziosa. La sceneggiatura, scritta con acume e furbizia, contrappone con efficacia il rigore dei calcoli matematici con il disordine e l’irrazionalità della vita, e il film si può definire un solido intrattenimento. Nonostante l’attenzione verso il percorso di ricerca personale della protagonista, lo sviluppo è corale, con un particolare riguardo all’approfondimento dei comprimari. La sorella maggiore, ad esempio, potrebbe essere facilmente liquidata come superficiale e antipatica, mentre è un personaggio non a senso unico: vuole bene alla sorella minore e cerca davvero di fare ciò che per lei ritiene giusto, ma è prevaricatrice e sulla base dei fatti sceglie ciò che ragionevolmente le sembra più adatto; non sempre, però, la via razionale è quella che si rivela poi la migliore. Peccato per il finale all’americana, ottimista con sfumature, in cui, comunque, la parola “fallimento” deve ancora una volta tramutarsi in “successo”. Ottimi gli interpreti: Gwyneth Paltrow, su cui si regge il film, mette a frutto la sensibilità interpretativa per cui è stata fin troppo celebrata; Anthony Hopkins, nelle poche sequenze in cui appare, mostra il suo carisma senza gigioneggiare; Hope Davis è misurata in un ruolo a rischio caricatura, e il sempre più in ascesa Jake Gyllenhaal conferma di essere l’icona americana del bravo ragazzo della porta accanto in fuga dall’etichetta di nerd.
Luca Baroncini de gli spietati