Cineforum 2009: percorsi esistenziali
psico cineforum 2009 cineclub il fellini in collaborazione con Istituto Psic. Europeo saletta via correnti varese
autunno 2009 20.45 ingresso per soci con tessera
Gordie, ormai adulto, racconta il destino di tutti e quattro: Vern si sposa, ha quattro figli; Teddy cerca di arruolarsi come suo padre, però viene scartato e si riduce a fare lavori precari nei dintorni di Castle Rock, finendo varie volte in prigione; Chris invece riesce ad andarsene, si iscrive con Gordie ai corsi universitari e diventa avvocato, per dedicare tutta la vita a difendere gli altri. Viene purtroppo accoltellato in un ristorante mentre tentava di mettere pace tra due uomini. Benché Gordie non avesse sue notizie da quasi dieci anni, sa che gli mancherà per sempre: lui è diventato uno scrittore, come aveva desiderato fin da piccolo.
Quella notte prende la borsa con i soldi e scappa. Spud lo sorprende mentre sta uscendo ma non sveglia gli altri e quando Begbie si sveglia viene colto da una furia irrefrenabile e inizia a distruggere la stanza, attirando così l’attenzione finché non arriva la polizia che lo arresta. Sick Boy torna a casa a mani vuote ma Spud trova 2.000 sterline in una cassetta lasciate lì da Renton per dargli la possibilità di iniziare una nuova vita. Il protagonista col suo piccolo bottino sogna anche lui di cambiare pagina, di iniziare una nuova vita: proprio quella che deprecava all’inizio del film.
AMABILI RESTI (18/05/2010)
(The lovely bones)
Un film di Peter Jackson
USA/G.B./Nuova Zelanda, 2009 – Fantastico – Durata: 135‘
Con Saoirse Ronan, Stanley Tucci, Mark Whalberg, Rachel Weisz, Susan Sarandon, Jake Abel, Rose McIver
Quel che resta del morto…
Quando ci nasce un figlio – e solo chi è genitore può capire – vorremmo che restasse piccolo tutta la vita, per godercelo e coccolarlo. Vorremmo tenerlo sotto una campana di vetro, al riparo dai pericoli che la vita cui si sta affacciando potrebbe riservargli. Come il pinguino nella bolla piena di acqua e neve di plastica che apre, come prima immagine, Amabili resti, ultima fatica del Re Mida di Wellington Peter Jackson. E che riassume quello che sarà il destino della giovane Susie Salmon (Saoirse Ronan), Salmon come il pesce, che resterà intrappolata in una sorta di limbo dimensionale tra il mondo che conosciamo e l’aldilà. Uccisa dal suo vicino di casa George Harvey (Stanley Tucci) il 6 dicembre 1973, la quattordicenne giace in una cassaforte e non è stata ancora né trovata né seppellita, malgrado gli sforzi dei genitori e della polizia. Col passare dei giorni emergerà sempre più la certezza della sua morte, mentre il padre, colui che più di tutti può amare sua figlia, riceverà costanti segnali della sua presenza. E Susie nel suo mondo parallelo incontrerà le altre vittime di quello che si rivelerà essere un vero e proprio serial killer che da molti anni semina vittime. Ed alla fine, anche se in modo non palese, cercherà di fare giustizia in un modo che ricorda molto da vicino l’esito de “La promessa” di Friedrich Dürrenmatt: una giustizia senza giustizia (terrena).
Peter Jackson, dopo quattro anni di assenza dietro la macchina da presa, pur immerso in molteplici impegni produttivi, trasponendo sullo schermo il romanzo omonimo di Alice Sebold (scritto per esorcizzare uno stupro subito) dà sfogo alla sua più sfrenata fantasia, riavvicinandosi al suo primo film d’autore Creature del cielo, in cui metteva in scena il mondo immaginario in cui si rifuggiavano le due diaboliche amiche. Il limbo in cui è rinchiusa Susie, voce narrante della storia, è realizzato, complice la Weta creata dallo stesso Jackson, con fervida immaginazione, mettendo sullo schermo tutta una serie di elementi che poi via via prenderanno maggiore corpo e si chiariranno. Scopriremo così che gli “amabili resti” non sono soltanto le spoglie mortali della giovane ragazza, ma anche quello che lei ha lasciato in frantumi su questa terra, cioè i cuori di quelli che la amavano: il padre, la madre, la sorella e Ray (Reece Ritchie), il ragazzo che si stava innamorando di lei.
Quello che manca al film di Jackson, malgrado la sua innegabile capacità di farci sognare in grande stile, è un completo coinvolgimento nelle vicende narrate, come se pure noi spettatori fossimo immersi in un limbo, impedendoci di provare “simpatia” (nel senso etimologico di “syn + pathos”) per i protagonisti del racconto. C’è invece una certa meccanicità nello svolgersi dei fatti, come se avvenissero solo per mandare avanti il meccanismo narrativo (come nel prefinale, con la reincarnazione temporanea che ricorda troppo Ghost per essere credibile) e un’eccessiva staticità, causata in parte dal fatto che l’assassino è già noto dall’inizio, se non da prima, grazie all’ottimo lavoro che Stanley Tucci ha fatto sul suo sgradevole personaggio (tanto che inizialmente s’era rifiutato di interpretarlo). Ed è proprio lui, insieme alla commovente Saoirse Ronan e a tutto un cast che impreziosisce ulteriormente la pellicola, il punto di forza di un film bello, anche se imperfetto. Malgrado tutto, le ultime parole di Susie (che, nonostante l’origine letteraria del racconto, si era fortunatamente sentita poco) auguranti agli spettatori una vita lunga e felice, non possono non insinuare un robusto brivido lungo la schiena.
Voto: * * *½. .
Moon (11/04/2010)
regia: Duncan Jones
genere: fantascienza
durata: 97 min.
anno: 2009
nazione: Gran Bretagna
cast: Sam Rockwell, Kevin Spacey, Matt Berry, Robin Chalk, Dominique McElligott, Kaya Scodelario, Malcolm Stewart, Benedict Wong
Sam Bell è un’astronauta che lavora per la Lunar, presso la base spaziale Sarang, situata sul lato oscuro della luna. Il suo compito, con un contratto di tre anni, è quello di sorvegliare l’estrazione dell’Elio-3 da inviare sulla Terra come combustibile. Ma a pochi giorni dalla scadenza del contratto Sam ha un’incidente, e dopo un po’ comincia a vedere un uomo che gli somiglia che occupa i suoi spazi all’interno della base.
Moon, ovvero il ritorno di Starman, che ha smesso di girare nello spazio e si è ritagliato un lavoro di tutto riposo su una base lunare. Sempre in contatto con gli astri, ma imborghesito dall’attesa. Tre anni sono lunghi da passare, anche se la compagnia di GERTY sembra un’aggiornamento riuscito di Hal 9000. I capelli lunghi e la barba invece vengono da un normale abrutimento da solitudine prolungata. E nel complesso Sam se la cava abbastanza bene. Parla con Gerty e con le piante, e risponde ai video della moglie e della figlioletta con tenera nostalgia.
Ma poco prima del ritorno accade qualcosa. Sam si ferisce, e incomincia pure a vedere un tipo strano che gira nei suoi spazi che, seppur non ristretti, certo finora non erano mai stati condivisi.
Qualcuno usa la sua palestra, e salta con la sua corda. E mentre si chiede “chi ha mai dormito nel mio letto? E chi ha mangiato la mia minestra?” La favola va avanti e Sam scopre che le cose sembrano leggermente diverse da come le aveva capite lui.
Gerty, il cui compito principale è governare la base e tenere a bada le eventuali mattane di chi resta troppo tempo da solo, si rivela essere in realtà la mente cui è demandata la gestione totale del lavoro sulla sede distaccata della Lunar. Sam fa soltanto quello che Gerty non può fare: spedire l’Elio-3 sulla Terra.
A questo punto il sipario è pronto per l’entrata in scena di Ziggy Stardust, ma siccome Duncan Jones ci tiene a fare le cose per bene, evita richiami alla parentela e citazioni famose, oltre quelle consentite dai riferimenti vintage del suo comunque ottimo lavoro, e ci regala la versione aggiornata di un vecchissimo tema le cui origini si sono perse nella notte dei tempi: il doppio.
E, trattandosi di fantascienza, già alla fine del primo tempo sappiamo che si tratta di un clone. Ma da qui in poi la faccenda si complica notevolmente. E, da che esiste il controllo spaziale, non si è mai vista una base situata lontano dalla Terra che non sia governata da una macchina. Peccato che Starman e il suo amico fantasma Ziggy non abbiano chiaro fin dall’inizio le implicazioni di un tal lavoro.
Intanto Sam scopre che il suo doppio è un tantino più riposato di lui, e ha anche le idee più chiare. Ma poi la paranoia e la comprensibile paura fanno accadere quello che finora non era mai successo: si accende una luce, la consapevolezza fa capolino e il clone dichiara di essere vivo.
Da qua in poi è pura speculazione. Sam, come chiunque al suo posto, con o senza crisi esistenziali, comincia a chiedersi chi è. E la risposta, come spesso accade, non gli piacerà.
Lo spettatore amante della vecchia fantascienza, quella vera, piena di riferimenti sociologici e con poche esplosioni e nessun eroe, ritroverà con piacere temi dati per perduti anni addietro.
E la sottile atmosfera, tanto cara ai cineasti inglesi e sconosciuta agli amanti dei botti oltreoceano, rimane il punto di maggior efficacia dell’intero lavoro. Duncan Jones, con la complicità di un bravissimo Sam Rockwell ci manda senza fatica indietro nel tempo, ai momenti d’oro della nascita di un genere dato per morto da tempo, e in realtà mai stato così vitale.
I cloni, le basi spaziali e le tute, per non parlare dei computer di bordo parlanti, sono ormai parte di un immaginario reso vivido dall’amore per le spoglie terrene di un genere amato da sempre e mai dimenticato. Un genere che nulla ha da spartire con le esplosioni impossibili nello spazio profondo, e con gli eroi sparatutto mandati in assenza di gravità da cineasti senza fantasia.
La fantascienza inglese è viva e lotta con noi. Lotta con la disperata foga di un clone consapevole, che rifiuta il proprio destino di subordinato e combatte per un’autonomia impossibile. Proprio come chi da anni prova a contrapporre ai botti e agli inutili dispendi in computer grafica, un cinema vintage basato prima di tutto sulle emozioni, e poi magari sui contenuti. Cosa di cui oltreoceano si fa volentieri a meno, ma che qui da noi, nella vecchia Europa qualcuno ancora preferisce alle patinature inconsistenti e alle inutili luci splendenti per mascherare un cinema che ormai non c’è più da tempo.